CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 maggio 2020, n. 9297
Licenziamento per giusta causa – Reintegra – Esercizio di tale jus variandi – Danno da demansionamento
Rilevato che
– con ricorso depositato innanzi al Tribunale di Viterbo il 30/12/2010, C.B.C. aveva esposto: di essere stato assunto dalla Cassa rurale ed artigiana di Farnese, poi diventata Banca della Tuscia Credito Cooperativo; essere stato trasferito, in data 02/08/2001, all’agenzia di Canino in qualità di preposto e, con lettera del 28/12/2001 essere stato licenziato in tronco ma successivamente reintegrato per effetto dì decisione del medesimo Tribunale, poi confermata dalla Corte d’appello di Roma che aveva soltanto ridotto il danno da demansionamento; aver omesso la Banca di ottemperare all’ordine di reintegrazione ed essersi la stessa limitata a pagare la retribuzione mensile mentre, nelle more, la Banca della Tuscia aveva ceduto alla Banca di credito cooperativo di Roma il ramo d’azienda rappresentato dall’agenzia di Canino presso la quale egli era stato trasferito; con lettera raccomandata del 02/01/2008 la Banca gli aveva intimato il licenziamento per l’asserita necessità di riduzione dei costi del lavoro;
– il ricorrente aveva adito, quindi, il Tribunale di Viterbo per ottenere l’accertamento del trasferimento del proprio rapporto di lavoro alle dipendenze della Banca di credito cooperativo di Roma, la condanna di quest’ultima al pagamento delle retribuzioni maturate o, in subordine, l’accertamento della nullità del licenziamento intimato, la reintegra nel posto di lavoro e la condanna della stessa al pagamento delle retribuzioni maturate;
– con sentenza in data 16 settembre 2015 la Corte di Appello di Roma, ha confermato la decisione di primo grado che aveva respinto le domande proposte;
– avverso tale sentenza ha proposto ricorso, assistito da memoria, C.C., affidandolo a otto motivi;
– resiste con controricorso la Banca di Credito Cooperativo di Roma.
Considerato che
– con il primo motivo di ricorso, C.B.C. deduce la violazione dell’art. 18 L. n. 300/1970 nonché dell’art. 12 disposizioni sulla legge in generale e 1366, 1175 e 1375 del cod. civ.;
– osserva, in particolare, il ricorrente, l’erroneità della decisione di secondo grado per aver ritenuto legittima la reintegrazione nel posto di lavoro solo “in senso formale” onde rimediare al lamentato demansionamento cagionato dall’adibizione a mansioni di “responsabile” della filiale di Canino, trasferimento, quest’ultimo, impugnato dal C.;
– il motivo è infondato;
– il principio generale operante in materia implica che l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro emanato dal giudice nel sanzionare un licenziamento illegittimo esiga che il lavoratore sia in ogni caso ricollocato nel luogo e nelle mansioni originarie, salva la facoltà per il datore di lavoro di disporne il trasferimento ad altra unità produttiva, laddove ne ricorrano le condizioni tecniche, organizzative e produttive (sul punto, Cass. 16/05/2013 n. 11927);
– nel caso di specie, il giudice di secondo grado, con congrua valutazione di fatto, sottratta al sindacato di legittimità, ha ritenuto giustificata la corresponsione della retribuzione in seguito alla reintegra nella sede legale di Montalto di Castro e l’adempimento in tal senso all’ordine di reintegrazione alla luce della giurisprudenza di questa Corte che reputa legittima la reintegrazione quale ripristino del rapporto di lavoro, ferma la possibilità di variarne la sede;
– nel caso di specie, l’esercizio di tale jus variandi è stato ritenuto determinato dall’obbligo di adempimento alla sentenza del Tribunale, che aveva ritenuto illegittimo il trasferimento presso la sede di Canino come richiesto dal C. e, pertanto, dalla necessità di evitare di “protrarre l’illecito e, quindi, disattendere il contenuto accertativo – prescrittivo – conformativo della sentenza del Tribunale, che proprio di quel demansionamento aveva preso cognizione. Quindi correttamente la Banca della Tuscia ha ottemperato solo in senso formale all’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, ma senza adibirlo alla filiale di Canino”;
– tale valutazione, immune da vizi logici, appare sottratta al sindacato di legittimità e conforme al dettato normativo oggetto di riferimento;
– con il secondo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 101 comma II e 359 cod. proc. civ., con il terzo motivo la violazione degli artt. 1 e 3 L. L. 604/66, 24, 4 e 5 L 223/91, 22 CCNL quadri direttivi, con il quarto motivo la violazione dell’art. 101 comma II e 359 cod. proc. civ.;
– i tre motivi, che possono esaminarsi congiuntamente per l’intima connessione, sono infondati;
– parte ricorrente, nel dedurre la violazione degli artt. 1 e 3 L. n. 604/66 per aver ritenuto la Corte rilevante la riduzione di personale “per se stessa” per definizione, in quanto riorganizzazione aziendale, non tiene conto di tutto il prosieguo della motivazione del giudice di secondo grado che valorizza, con motivazione immune da vizi logici e sottratta al sindacato di legittimità, le gravi perdite del patrimonio che avevano indotto il commissario nominato dalla Banca d’Italia ad optare per una forte riduzione dei costi, primo fra tutti quello relativo al personale, su cui avevano concordato le organizzazioni sindacali, cercando di ridurre al massimo il numero di posti da sopprimere, poi individuato nelle due unità – una sottoposta ad incentivo all’esodo, l’altra, il ricorrente, licenziata – sulla base del criterio del maggior peso economico delle relative retribuzioni;
– in tale contesto, è evidente che il riferimento operato dalla Corte d’appello al licenziamento collettivo sia stato effettuato soltanto ad colorandum non rinvenendosi nella motivazione alcun richiamo alle prescrizioni relative alla procedura di mobilità ed alla loro applicazione alla fattispecie ed è, pertanto, da escludersi qualsivoglia violazione dell’art. 101 cod. proc. civ.;
– in relazione al quinto motivo, da ritenersi, quindi, infondato, va esclusa, poi, la nullità della sentenza per violazione degli artt. 132, 118, 115 e 116 cod. proc. civ.;
– giova rilevare, in primo luogo, che una questione di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi in sede di legittimità per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960; Cass. 20.08.2019 n. 21460);
– nel caso di specie, neanche in via di allegazione si deduce che il giudice abbia posto a base della decisione prove non allegate dalle parti o disposte ex officio al di fuori dei limiti legali, mentre appare evidente che parte ricorrente mira ad ottenere una diversa valutazione delle prove, non ammissibile in sede di legittimità;
– nella decisione in esame, la motivazione deve ritenersi reale ed effettiva proprio sulla base del riferimento puntuale alle gravi irregolarità effettivamente riscontrate dalla banca d’Italia, che, secondo quanto ritenuto dalla Corte territoriale, avevano a loro volta cagionato rilevanti perdite del patrimonio ed indotto il Commissario nominato a suggerire una cospicua riduzione dei costi;
– con il sesto motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 1324, 1362, 1363 cod. civ. e 5 L. 604/66;
– il motivo è infondato;
– del tutto improprio deve ritenersi il riferimento agli artt. 1362 e 1363 cod. civ.; invero, la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare genericamente le regole di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ., avendo l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati ed il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, e dovendo i rilievi contenuti nel ricorso essere accompagnati, in ossequio al principio di autosufficienza, dalla trascrizione delle clausole individuative dell’effettiva volontà delle parti, al fine di consentire alla Corte di verificare l’erronea applicazione della disciplina normativa (Cass. 15/11/2013, n. 25728);
– nel caso di specie, d’altro canto, non solo la prospettazione di parte ricorrente non soddisfa i canoni interpretativi mentovati, ma, inoltre, il puntuale riferimento alla crisi aziendale già riscontrata e ritenuta dal primo giudice induce ad escludere una erronea interpretazione così come allegata dal C.;
– con il settimo motivo si deduce la violazione degli artt. 1 e 5 L. n. 604/66 e 18 L 300/70 nonché degli artt. 1175 e 1375 cod. civ.;
– il motivo è infondato;
– conformemente a quanto sostenuto da parte ricorrente, per costante giurisprudenza di legittimità, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non sussiste un onere del lavoratore di indicare quali siano i posti disponibili in azienda ai fini del “repéchage”, gravando la prova della impossibilità di ricollocamento sul datore di lavoro (fra le più recenti, Cass. 23/05/2018 n. 12794);
– nondimeno, il previo consenso dell’appellante all’adibizione a mansioni inferiori ritenuto, con valutazione di fatto, sottratta alla verifica di questa Corte, come manifestato in termini ambigui nella lettera del 23/11/2007 e, soprattutto, in termini di adibizione solo temporanea a mansioni inferiori laddove tale adibizione avrebbe dovuto essere definitiva, nell’ottica della riduzione strutturale del costo del personale, ha indotto congruamente e con motivazione sottratta al sindacato di legittimità, il giudice di secondo grado a ritenere la sussistenza della prova per tabulas della mancanza di consenso del lavoratore ad una definitiva adibizione a mansioni inferiori, talché la sua doglianza relativa alla possibilità di essere adibito ad uno dei posti assegnati ai quattro lavoratori a termine (che svolgevano mansioni inferiori alle sue) poi “stabilizzati” è stata, in base ad iter logico sottratto ad una valutazione di legittimità giustamente esclusa, alla luce della normativa rationae temporis applicabile;
– con l’ottavo motivo si deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 132, I comma n. 4 cod. proc. civ., 118, I comma disp. att. e 111, comma VI, Cost.;
– si deduce ancora una volta una motivazione apparente, da equipararsi alla mancanza di essa, per aver la Corte ritenuto conforme agli obblighi di buona fede e correttezza il comportamento tenuto dalla Banca di Tuscia;
– il motivo è infondato;
– tutto l’iter argomentativo seguito dalla Corte, infatti, non può reputarsi contenuto nella affermazione citata – a fronte della censura di parte ricorrente in base alla quale egli sarebbe stato l’unico dipendente licenziato, evidentemente perché “scomodo” – snodandosi, invece, lungo i percorsi interpretativi già più volte descritti nella presente decisione e ampiamente motivati in ordine alle ragioni, di carattere squisitamente economico, in quanto connesse al peculiare costo del dipendente considerato;
– alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere respinto;
– le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo;
– sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi del comma 1-quater dell’art. 13 d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore della parte controricorrente, che liquida in complessivi euro 4.500,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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