CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 maggio 2020, n. 9314
Tributi – IRAP – Accertamento – Raddoppio dei termini – Esclusione
Rilevato
che la contribuente s.r.l. “M. S.”, già s.a.s. “M. S. di F. C., N. e C.”, propone ricorso per cassazione nei confronti della sentenza della CTR del Lazio, sezione staccata di Latina, di rigetto dell’appello da essa proposto avverso la sentenza della CTP di Latina, che aveva rigettato il suo ricorso avverso un avviso di accertamento, con il quale era stato chiesto il pagamento di somme per indebita detrazione IRAP anno 2008, per operazioni ritenute oggettivamente inesistenti;
Considerato
che il ricorso è affidato a quattro motivi;
che, con il primo motivo di ricorso, la contribuente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57 comma 3 del d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 cod. proc. civ., in quanto l’accertamento emesso nei confronti di essa contribuente era riferito al 2008, si che la notifica del verbale di accertamento avrebbe dovuto essere effettuata entro il quarto anno successivo a quello in cui era stata presentata la dichiarazione e quindi non oltre il 31 dicembre 2013, mentre, nella specie, detta notifica era avvenuta solo il 12 dicembre 2014; era vero che l’art. 43 comma 3 del citato d.P.R. n. 600 del 1973, nella versione vigente ratione temporis, prevedeva che, in caso di violazione che comportava un obbligo di denuncia penale, i termini di cui sopra erano raddoppiati; tuttavia era espressamente stabilito che il raddoppio non operava qualora la denuncia da parte dell’amministrazione finanziaria fosse stata presentata o trasmessa oltre la scadenza ordinaria dei termini di cui sopra; e, nella specie, la denuncia penale era stata comunicata alla Procura di Latina il 28 novembre 2014 e quindi ben oltre il termine legale ordinario del 31 dicembre 2013;
che, con il secondo motivo di ricorso, la contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 e del d.lgs. n. 74 del 2000, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 cod. proc. civ., in quanto l’avviso di accertamento impugnato aveva ad oggetto violazioni IRAP; e per dette violazioni non era applicabile il c.d. raddoppio dei termini per l’accertamento, in quanto la violazione delle norme relative a detta imposta non configuravano un reato tributario;
che, con il terzo motivo di ricorso, la contribuente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 35 del d.l. n. 269 del 2003, convertito dalla legge n. 326 del 2003, che aveva riformulato l’art. 74 comma 7 del d.P.R. n. 633 del 1972, in materia di c.d. “reverse charge”, in quanto il meccanismo dell’inversione contabile era stato introdotto al fine di ridurre le casistiche fraudolente in alcuni settori considerati a rischio, fra i quali vi era quello della raccolta dei materiali non ferrosi; e, con riferimento a tale ultimo settore, l’art. 74 comma 7 del d.P.R. n. 633 del 1972, come sopra riformulato, aveva stabilito che le fatture venivano emesse dal cedente senza applicazione dell’imposta, si che anche le autofatture dovevano soggiacere al medesimo regime; ora, da parte sua vi era stata una regolare applicazione della citata norma, di cui all’art. 35 del d.l. n. 269 del 2003, avendo essa emesso 54 autofatture in regime di inversione contabile; avendo essa applicato l’IVA ordinaria su ciascuna delle autofatture emesse ed avendo registrato l’IVA sul registro IVA acquisti; aveva poi fotocopiato ogni singola autofattura, registrandole in contrapposizione nel registro IVA delle fatture emesse; al contrario l’ufficio aveva ritenuto 32 delle 54 autofatture anzidette come duplicate, senza alcun supporto documentale;
che, con il quarto motivo di ricorso, la contribuente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 7 comma 4 del d.lgs. n. 546 del 1992 e dell’art. 2697 cod. civ., per avere la sentenza impugnata fondato il proprio convincimento su 6 prove testimoniali, raccolte senza contraddittorio e senza le dovute garanzie, alle quali doveva essere attribuito il valore di meri indizi, i quali non erano né gravi, né precisi, né concordanti;
che l’Agenzia delle entrate ha presentato controricorso;
che per evidenti ragioni di priorità logico-giuridica, va trattato per primo il secondo motivo di ricorso, con il quale la contribuente ha eccepito la non applicabilità all’IRAP della disciplina del raddoppio dei termini, di cui all’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 ed al d.lgs. n. 74 del 2000;
che il motivo di ricorso è fondato;
che invero l’avviso di accertamento oggetto di contestazione aveva ad oggetto esclusivamente il mancato pagamento IRAP 2008; e la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n.10483 del 2018; Cass. n. 23629 del 2017; Cass. n. 4775 del 2016) è concorde nel ritenere che il raddoppio dei termini di accertamento non opera con riferimento all’IRAP, non essendo essa un’imposta per la quale siano previste sanzioni penali, con la conseguenza che, in ordine alla medesima, non può operare la disciplina del raddoppio dei termini, applicabile “ratione temporis”;
che, pertanto, è da ritenere che l’Agenzia delle entrate sia decaduta dal potere di notificare l’avviso di accertamento contestato, avendo esso ad oggetto esclusivamente l’IRAP 2008 ed essendo stato esso pacificamente notificato il 12 dicembre 2014 e quindi oltre il termine quinquennale, di cui al citato art.43 del d.P.R. n. 600 del 1973, vigente ratione temporis;
che sono da ritenere assorbiti tutti i restanti motivi di ricorso, ad eccezione del terzo motivo, che va respinto siccome infondato, non avendo nella specie alcun rilievo il richiamo fatto dalla contribuente al meccanismo del c.d. “reverse charge”, stante l’onere che sulla medesima gravava, quale soggetto che intendeva far valere il diritto alla detrazione dell’IVA, di fornire la prova dell’effettiva esistenza delle operazioni documentate dalle fatture in suo possesso; invero l’ufficio aveva provato sia l’oggettiva fittizietà delle forniture di rottami di alluminio, siccome effettuate da soggetti privi delle necessarie strutture organizzative, sia la consapevolezza, da parte della contribuente, che le operazioni si inserivano in un contesto di evasione d’IVA, si che gravava su quest’ultima l’onere di fornire la prova contraria, di avere cioè adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore medio di quel settore commerciale, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto (cfr. Cass. n. 27566 del 2018);
che, al contrario, la contribuente non ha ottemperato a detto onere su di essa gravante;
che, pertanto, accolto il secondo motivo di ricorso e dichiarati assorbiti i restanti motivi, ad eccezione del terzo che va respinto siccome infondato, questa Corte, in relazione al motivo di ricorso accolto, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, ai sensi dell’art. 384 comma 2 cod. proc. civ., decide la causa nel merito, accogliendo l’originario ricorso della contribuente;
che, tenuto conto dell’andamento del presente grado del giudizio e dell’esito dei pregressi giudizi di merito, appare equo compensare interamente fra le parti le spese di giudizio;
P.Q.M.
respinge il terzo motivo di ricorso ed accoglie il ricorso con riferimento al secondo motivo, dichiarando assorbiti i restanti due; con riferimento al motivo di ricorso accolto, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso iniziale della contribuente e compensa integralmente fra le parti le spese di giudizio.
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