CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 novembre 2020, n. 26508

Cartelle di pagamento – Crediti contributivi – Termine di prescrizione quinquennale – “Conversione” del termine di prescrizione breve – Non sussiste – Subentro dell’Agenzia delle Entrate quale nuovo concessionario – Alcun mutamento della natura del credito

Rilevato che

la Corte d’appello di Torino, confermando la sentenza del Tribunale della stessa città, ha dichiarato prescritti i crediti contributivi portati in svariate cartelle di pagamento, notificate dall’Inps a G.A.L. e da questi opposte;

la cassazione della sentenza è domandata dall’Agenzia delle Entrate – Riscossione sulla base due motivi;

G.A.L. e l’Inail hanno resistito con tempestivo controricorso;

l’Inps ha depositato procura in calce al ricorso;

è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio.

Considerato che

Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 cod. proc. civ., è dedotta “Vizio della sentenza per violazione dell’art. 2946 cod.civ., dell’art. 49 DPR 602/1973 – dell’art. 17 D.lgs. 46/1999 – degli artt. 19 e 20 del d.lgs. n. 112/1999 – Erronea e falsa applicazione dell’art. 3, comma 9 e 10, l. n. 335/95 – Falsa applicazione dell’art. 2953 c.c.”;

l’Agenzia delle Entrate si duole che la Corte territoriale abbia applicato il termine di prescrizione quinquennale, sostenendo che, pur in seguito alla sentenza delle Sezioni Unite n. 23397 del 2016, a cui il giudice dell’appello si è richiamato, la tesi della prescrizione decennale del diritto alla riscossione sarebbe egualmente sostenibile;

il diritto ad azionare il credito portato nelle cartelle da parte dell’agente della riscossione, in assenza di previsioni normative derogatorie, resterebbe quello decennale;

la sentenza delle Sezioni Unite n. 23397 del 2016 si sarebbe limitata a statuire in merito alla sola applicabilità dell’art. 2953 cod. civ. alla fattispecie, ma non avrebbe affrontato il diverso aspetto relativo all’individuazione del termine di prescrizione del rapporto obbligatorio scaturente dal titolo esecutivo, che abilita l’agente della riscossione all’esercizio dell’azione di recupero coattivo, il quale, in assenza di espressa previsione per l’azione di riscossione, dovrebbe ritenersi decennale;

col secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co.l, n. 3 cod. proc. civ., si duole dell’erronea statuizione in ordine alla condanna alle spese, e, invocando la “Violazione dell’art. 92, comma 2, cod. proc. civ.”, sostiene che la Corte territoriale avrebbe dovuto disporne la compensazione, per essere mutato l’orientamento giurisprudenziale sulla materia gravata nelle more del giudizio di primo grado;

il primo motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis cod. proc. civ.;

la Corte territoriale ha dato corretta attuazione al principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 23397 del 2016, secondo il quale «La scadenza del termine – pacificamente perentorio – per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui all’art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 46 del 1999, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche la cd. “conversione” del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale, secondo l’art. 3, commi 9 e 10, della l. n. 335 del 1995) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’art. 2953 c.c.. Tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato. Lo stesso vale per l’avviso di addebito dell’INPS, che, dall’ 1 gennaio 2011, ha sostituito la cartella di pagamento per i crediti di natura previdenziale di detto Istituto (art. 30 del d.l. n. 78 del 2010, conv., con modif., dalla I n. 122 del 2010)»;

in linea con il richiamato principio, con riferimento al preteso effetto novativo derivante dalla formazione del ruolo, questa Corte è intervenuta affermando che “In tema di riscossione di crediti previdenziali, il subentro dell’Agenzia delle Entrate quale nuovo concessionario non determina il mutamento della natura del credito, che resta assoggettato per legge ad una disciplina specifica anche quanto al regime prescrizionale, caratterizzato dal principio di ordine pubblico dell’irrinunciabilità della prescrizione; pertanto, in assenza di un titolo giudiziale definitivo che accerti con valore di giudicato l’esistenza del credito, continua a trovare applicazione, anche nei confronti del soggetto titolare del potere di riscossione, la speciale disciplina prevista dall’art. 3 della l. n. 335 del 1995 invece della regola generale sussidiaria di cui all’art. 2946 cod. civ. (Cass. n. 31352 del 2018) e ciò in conformità alla natura di atto interno all’amministrazione attribuito al ruolo” (Cass. n. 14301 del 2009);

allo stesso modo non assume rilievo il richiamo all’art. 20 comma 6 del d.lgs. n. 112 del 1999, che prevede un termine di prescrizione strettamente inerente al procedimento amministrativo per il rimborso delle quote inesigibili, che in alcun modo può interferire con lo specifico termine di prescrizione previsto dalla legge per azionare il credito nei confronti del debitore (Sez. Un. n. 23397 del 2016; Cass. n.31352 del 2018; Cass. n.9746 del 2020);

il secondo motivo è inammissibile, atteso che la Corte territoriale, nel disporre la condanna alle spese dell’odierna ricorrente, non ha fatto che esercitare una sua facoltà in materia di regolamento sulle spese processuali, così come riconosciuta dal pacifico orientamento di questa Corte, la quale anche di recente, ha chiarito che: “In tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione.” (Cosi Cass. n. 11329 del 2019);

in definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile;

le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in Euro 3.000 a titolo di “rimborso per compensi professionali nei confronti di G.A.L., con distrazione in favore del difensore dichiaratosi antistatario, e in Euro 3.000 in favore dell’Inail al medesimo titolo;

non si provvede sulle spese in favore dell’Inps che non ha svolto attività difensiva; in considerazione dell’inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 200 per esborsi, Euro 3.000 a titolo di compensi professionali nei confronti di G.A.L., con distrazione in favore del difensore dichiaratosi antistatario, ed in Euro 3.000, al medesimo titolo, nei confronti dell’Inail, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13.