CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 ottobre 2020, n. 22783
Cartella di pagamento – Domanda di rateizzazione avanzata dalla società – Ricognizione di debito – Esistenza di un autentico rapporto di collaborazione “autonoma” – Irrilevanza della questione sollevata
Rileva che
con sentenza del 20 novembre 2012 il Tribunale di Verbania, accogliendo l’opposizione proposta dalla S.r.l. U.N. nei confronti dell’INPS avverso la cartella di pagamento n. 13820070005069612, dichiarava che nulla era dovuto dalla opponente in relazione ai crediti iscritti a ruolo e condannava quindi l’Istituto al rimborso delle relative spese processuali. Avverso l’anzidetta sentenza la parte rimasta soccombente interponeva gravame con ricorso del 31 dicembre 2012 e la Corte d’Appello di Torino con sentenza n. 1233 del 12 – 21 novembre 2013, in riforma della pronuncia, rigettava l’opposizione a suo tempo proposta dalla società appellata, con la condanna di quest’ultima al rimborso delle spese relative al doppio grado del giudizio;
la sentenza di secondo grado è stata quindi impugnata dalla U.N. S.r.l. mediante ricorso per cassazione, notificato il 10 luglio 2014 all’I.N.P.S. e alla società di cartolarizzazione dei crediti dello stesso Istituto, affidato un solo articolato motivo, cui ha resistito l’ente di previdenza, anche quale procuratore speciale della suddetta società di cartolarizzazione, S.p.a. S.C.C.I., con controricorso del 14 – 16 agosto 2014.
Successivamente, parte ricorrente ha depositato memoria illustrativa in vista dell’adunanza della Corte, fissata in camera di consiglio per il 18 dicembre 2019.
Considerato che
con l’anzidetto motivo la ricorrente ha denunciato violazione e falsa nonché errata applicazione degli articoli 1988 e 2735 c. c., oltre che degli artt. 2697 e 2698 dello stesso codice, sostenendo che la domanda di rateizzazione a suo tempo avanzata dalla medesima società non potesse considerarsi di per sé ricognizione di debito, essendo stato infatti quello contributivo calcolato dal medesimo Istituto previdenziale, ma nemmeno promessa di pagamento, poiché non risultava sufficientemente articolata in maniera tale da produrre in capo all’intimato una conseguenza economico-giuridica rilevante, essendo un atto prodromico all’autorizzazione al pagamento dilazionato. «In altri termini, con la domanda di rateizzazione il debitore, che è sottoposto comunque al potere impositivo ed esecutorio dell’Inps, opta per una delle due possibilità concrete onde evitare l’esecuzione e/o di ottenere l’attestato di correttezza contributiva: 1) il primo è il pagamento totale di quanto rilevato dall’Inps; 2) il secondo è il pagamento rateale autorizzato, secondo e sulla base delle normative interne dell’Istituto, su apposito modulo e con atto di impegno. Occorre precisare che non trattasi di “confessione”, bensì di richiesta di adempimento (normale) del credito contributivo e sanzionatorio, mediante modulo predisposto dall’Inps e da sottoscrivere incondizionatamente, secondo prassi cogente amministrativa. Poiché allora la clausola “salva ripetizione all’esito positivo della controversia amministrativa o giurisdizionale” (o simili) si può apporre al solo pagamento completo in un’unica soluzione (in quanto, altrimenti, la rateizzazione, che presuppone raccoglimento della domanda redatta su modulo predisposto dall’Inps, non sarebbe accolta, contenendo il medesimo il “riconoscimento incondizionato del debito”), si porrebbero due situazioni giuridiche diverse del debitore: la prima (con rateazione) gli precluderebbe ogni rimedio (amministrativo e giurisdizionale); la seconda (pagamento totale immediato) invece no. … Non può dunque rinvenirsi nella domanda di rateazione con contestuale pagamento del dodicesimo e dei contributi a carico de/lavoratore, secondo prassi amministrativa alcuna rinuncia all’azione giudiziaria… Ma la indisponibilità del rapporto giuridico previdenziale, dalle connotazioni prettamente pubbliche, costituito ope legis e automaticamente, deve essere il principio del governo anche le modalità di pagamento, non essendo possibile attribuire al ricorrente un potere di inversione della prova affidato alla sua scelta contingente. La sentenza della Corte d’Appello di Torino non ha dunque dato applicazione dell’articolo 2697 c.c.. Quanto all’inversione dell’onere della prova, anche l’articolo 2698 c. c. dispone la nullità “dei patti con i quali è investito o modificato l’onere della prova” quando si tratta di diritti indisponibili, o la modificazione ha per effetto quello di rendere a una delle parti eccessivamente difficile l’esercizio del diritto»;
quanto poi all’articolo 2735 c.c., invocato dall’I.N.P.S. in relazione alla confessione stragiudiziale, secondo la ricorrente, nel caso di specie era evidente che essa società non aveva mai riconosciuto qualsivoglia rapporto di lavoro subordinato con il C., presupposto e fondamento del rapporto giuridico previdenziale con l’I.N.P.S., senza il quale non era neppure in astratto concepibile un rapporto assicurativo con l’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti. Del resto, era stato riconosciuto nell’accertamento ispettivo come l’U.N. avesse pagato i contributi relativi al lavoratore C., coerentemente con i contratti conclusi con lui, di tipo autonomo, nella gestione speciale di cui all’art. 2 L. n. 335/1995, per i quali comunque non era stata richiesta la compensazione ex art. 116 L. n. 388/2000. Ciò confermava l’inesistenza di alcuna confessione in capo alla ricorrente. Di conseguenza, l’onere probatorio nel caso di specie doveva ritenersi rimasto a carico dell’Istituto, sicché le testimonianze rese non erano sufficienti per provare la sussistenza del lavoro subordinato in capo al C. g. Né l’onere probatorio era stato assolto dall’ente previdenziale, tenuto conto delle risultanze istruttorie in primo grado, sia in quanto le parti avevano stipulato contratti di tipo parasubordinato, sia perché comunque gli accertamenti ispettivi furono avulsi dalla immediatezza e dal riscontro de visu, poiché verificatosi dopo la cessazione del rapporto con la società, ed infine in quanto i testi G., T. e S. avevano dichiarato che il C. operava in autonomia senza essere sottoposto a controllo da parte datoriale, semplicemente coordinandosi con la legale rappresentante della società, giusta quanto rilevato sul punto dalla sentenza di primo grado;
infine, parte ricorrente osservava che l’impugnazione non riguardava la lavoratrice F., per la quale era stata rilevata scopertura di 3 giorni di lavoro, del resto ampiamente coperta dai 666,00 euro già pagati con l’istanza di rateazione, «in caso di accoglimento della domanda di U.N. srl»;
tanto premesso, le anzidette censure vanno disattese per le seguenti ragioni;
in primo luogo, il ricorso presenta, invero, larghi profili d’inammissibilità (art. 366, co. 1, nn. 3, 4 e 6, c.p.c.), attesa la carenza di complete allegazioni, nonché di specifiche e pertinenti confutazioni delle argomentazioni in diritto sulle quali è stata fondata l’impugnata sentenza, dovendosi per contro ricordare che per la validità del ricorso per cassazione occorre l’esauriente esposizione dell’intero pregresso iter processuale insieme alla documentazione a suo tempo prodotta, al fine di rispettare i requisiti di autosufficienza e di specificità richiesti dal cit. art. 366, affinché il giudice di legittimità abbia pronto e chiaro, dalla sola lettura dell’atto, il quadro della situazione, senza necessità di esaminare direttamente tali precedenti atti, ivi compresa la medesima pronuncia impugnata (cfr. Cass. lav. n. 31082 del 28/12/2017, secondo cui il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa. In senso analogo Cass. VI civ. – 3, ordinanza n. 1926 del 3/2/2015: il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito. Il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa. Conforme tra le altre Cass. Il civ. n. 7825 del 4/4/2006. V. parimenti Cass. sez. un. civ. n. 11653 del 18/05/2006 circa il requisito della esposizione sommaria dei fatti, prescritto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall’art. 366, primo comma n. 3, cod. proc. civ.. Cfr. inoltre Cass. V civ. n. 29093 del 13/11/2018: i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, c.p.c., nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza.
Parimenti, v. Cass. VI civ. – 3 n. 19048 del 28/09/2016 e n. 4220 del 16/03/2012); in particolare, per contro, nella specie non risultano compiutamente riprodotti l’atto di opposizione, l’attività istruttoria espletata in primo grado (relativa alla controversa istanza di rateizzazione e alle acquisite testimonianze, unitamente pure al verbale ispettivo da cui scaturì il credito vantato dall’ente impositore con relativa iscrizione a ruolo), la decisione gravata dall’I.N.P.S.-S.C.C.I., il ricorso d’appello e le conseguenti difese della società, né l’articolata motivazione della sentenza qui impugnata;
invero, poi la Corte di merito, con la sentenza de qua ha censurato la decisione appellata segnatamente per aver ritenuto irrilevante la domanda di rateizzazione presentata dalla U.N., essenzialmente riferita alla posizione del solo lavoratore C.M. relativamente al periodo aprile 2002 – giugno 2005, laddove inoltre era stata del tutto pretermessa la situazione della lavoratrice Z.F. (trovata intenta al lavoro il 23 aprile 2004 in occasione di un accesso ispettivo da parte dell’Agenzia delle Entrate, soltanto in seguito “regolarizzata” dal 28 aprile 2004), alla quale pure si riferiva l’opposta cartella per la corrispondente contribuzione dovuta per i giorni lavorati “in nero”, visto che per tale posizione lavorativa nulla era stato eccepito o dedotto dalla società opponente, di guisa che almeno per questa parte la cartella avrebbe dovuto essere confermata. A tal riguardo, pertanto, va subito rilevata la palese incongruenza delle surriferite vaghe deduzioni svolte da parte ricorrente, per giunta risultanti del tutto nuove rispetto al difetto di questioni sollevate in proposito, riscontrato invece sul punto dai giudici di appello;
quanto, poi, alla pretesa errata applicazione dell’art. 1988 c.c., a parte la suddetta rilevata inammissibilità ex art. 366 c.p.c., la censura irritualmente pretende in questa sede di legittimità di contrastare il motivato giudizio di merito espresso al riguardo dalla Corte distrettuale, esclusivamente competente in proposito, circa l’ “istanza e atto d’impegno per il pagamento dilazionato”, presentata l’otto giugno 2006 dalla legale rappresentante della società qui ricorrente, proprio con riferimento al notificato verbale ispettivo datato 20.12.2005 (istanza che, invece, come sopra accennato non risulta minimamente riprodotta o trascritta, nemmeno sinteticamente, da parte ricorrente).
Invero, a prescindere dal valore confessorio dell’istanza, la Corte di merito ha evidenziato soprattutto come, alla stregua del contenuto del documento in parola, risultasse evidente anche l’espresso ed incondizionato riconoscimento del debito, con conseguenti risvolti ex art. 1988 c.c. in ordine all’onere probatorio, perciò non più a carico del creditore, nella specie l’I.N.P.S.. Per di più la Corte territoriale riteneva anche corretta l’osservazione di parte appellante, secondo cui la circostanza che la domanda fosse stata presentata dalla società su di un modulo predisposto non significava anche che l’istanza di rateizzazione dovesse necessariamente avere un contenuto vincolato e non potesse, perciò, essere proposta con riserva di azione e/di ripetizione di quanto pagato. «Dunque, anche a ritenere l’ammissibilità dell’opposizione proposta, in ogni caso ai sensi del richiamato art. 1988 c. c. non competeva all’I.N.P.S. dimostrare il “rapporto fondamentale”, ma invece proprio alla U.N. srl dimostrare l’inesistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra essa società ed il sig. C.M. (v. in termini Cass. n. 14066/2010 e Cass. n. 27406/2008). Tenuto conto delle risultanze istruttorie nel loro complesso (tra cui l’esistenza di contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nonché di lavoro a progetto, nonché delle deposizioni rese dai testi G., T. e S., gli ultimi due soprattutto ritenuti poco attendibili per le indicate ragioni), tale prova non può certo ritenersi assolta da parte della società oggi appellata… Orbene, l’insieme degli elementi acquisiti in giudizio (inserimento del C. nell’organizzazione aziendale, percepimento di una retribuzione fissa mensile, obbligo di osservare un orario di lavoro ecc.) non consentono di ritenere provata, da parte dell’attuale appellata, l’esistenza di un autentico rapporto di collaborazione “autonoma”, non potendosi di certo ravvisare una situazione di concreta autonomia né nella circostanza che il C. avesse “concordato” i giorni e gli orari di presenza (dato che ciò è anzi tipico del rapporto ex art. 2094 c.c.) né nel fatto che potesse apportare variazioni al menù (atteso che alle mansioni di cuoco si riconnette anche una certa autonoma di scelta dei piatti da proporre alla clientela)». Inoltre, la Corte territoriale giudicava irrilevante la tesi dell’appellante circa il mancato riscontro da parte dell’I.N.P.S. in ordine alla suddetta istanza, di modo che non si sarebbe perfezionato l’accordo tra le parti in punto di rateizzazione, poiché detta circostanza non faceva venir meno il distinto e inequivocabile riconoscimento del debito contributivo da parte della società (riconoscimento disciplinato dall’art. 1988 c.c., che il codice sistematicamente colloca tra le promesse unilaterali, di guisa che per la sua operatività non occorre il consenso del soggetto cui l’atto è diretto. Cfr. anche Cass. sez. un. civ. n. 63 del 10/01/1986 che con riferimento agli atti unilaterali tipici li considera in sé perfetti, generando obbligazioni di per sé senza necessità di alcuna integrazione negoziale. Ne deriva, per altro verso, anche l’irrilevanza della questione sollevata in ordine alla pretesa violazione dell’art. 2698 c.c., norma che regola i soli patti relativi all’onere della prova, sicché la stessa non si riferisce evidentemente agli atti unilaterali, tra i quali perciò pure il riconoscimento di debito o la promessa di pagamento di cui all’art. 1988, contemplati dal codice tra le suddette promesse, appunto unilaterali, nel libro quarto, titolo IV. Né sul punto appare applicabile l’estensione prevista dall’art. 1324 c.c., laddove le norme richiamate da tale disposizione per i contratti sono essenzialmente quelle di cui al titolo II del libro quarto del codice (in part. artt. 1321 – 1469), inerenti quindi alla validità degli atti in sé considerati, anche con riferimento alla loro interpretazione, mentre gli effetti processuali in tema di prova ex art. 1988 c.c., con la presunzione relativa ivi espressamente prevista dal legislatore, in deroga alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c., non appaiono riconducibili alle norme disciplinanti i contratti, testualmente menzionate dall’art. 1324, peraltro con i limiti di compatibilità dallo stesso anche previsti, compatibilità invero difficilmente ravvisabile rispetto ai patti di cui all’art. 2698 c.c., la nozione dei quali sottende come presupposto indefettibile l’incontro di volontà manifestate da più parti, a differenza perciò degli atti unilaterali, per i quali invece la stessa legge ricollega determinate conseguenze, ipso jure. Diversa è altresì la ratio dell’art. 2698, evidentemente individuabile nella maggior tutela apprestata dal legislatore a favore del contraente più debole, specie in relazione a diritti di regola indisponibili); pertanto, le anzidette valutazioni in punto di fatto sono insindacabili in questa sede, di guisa che opera del tutto correttamente la rilevata inversione dell’onere probatorio ex art. 1988 c.c. a carico della ricorrente – opponente U.N.. E allo stesso modo pure l’apprezzamento, nei sensi anzidetti, delle risultanze istruttorie compete esclusivamente alla Corte di merito (cfr. Cass. sez. 6 – 2, ordinanza n. 20422 del 29/07/2019: è riservata al giudice del merito e sottratta al sindacato di legittimità l’indagine sul contenuto e sul significato delle dichiarazioni della parte, al fine di stabilire se esse importino una ricognizione di debito ai sensi dell’art 1988 c.c.. In senso analogo Cass. III civ. sentenza n. 1653 del 28/04/1975. V. altresì Cass. III civ. n. 494 del 28/02/1963, secondo cui ai fini dell’indagine sulla sussistenza di un’inversione volontaria dell’onere della prova, l’apprezzamento relativo alla consapevolezza, della parte offerente, di rinunciare al vantaggio ad essa derivante dall’art 2697 cod. civ., assumendo volontariamente l’obbligo di provare ciò che non le spetta, è apprezzamento di fatto, che non può essere oggetto di riesame in sede di legittimità se non viziato da errore logico); quanto, poi, alla portata dell’art. 1988 c.c., va precisato (cfr. anche Cass. civ. n. 23246 del 5/10/2017) che la promessa di pagamento, anche se titolata, diverge dalla confessione, in quanto, mentre la prima consiste in una dichiarazione di volontà intesa ad impegnare il promittente all’adempimento della prestazione oggetto della promessa medesima, la seconda consiste nella dichiarazione di fatti sfavorevoli al dichiarante ed ha, perciò, il contenuto di una dichiarazione di scienza. È tuttavia possibile che, nel contesto di un unico documento, accanto alla volontà diretta alla promessa, coesista una confessione di fatti pertinenti al rapporto fondamentale la quale, avendo valore di prova legale -circa l’esistenza del credito- preclude la prova contraria ex art. 1988 c.c., salvo eventuale revoca della confessione per errore di fatto o violenza (parimenti, secondo Cass. III civ. n. 13689 del 31/07/2012, la promessa di pagamento, al pari della ricognizione di debito, comporta la presunzione fino a prova contraria del rapporto fondamentale, differenziandosi dalla confessione, la quale ha per oggetto l’ammissione di fatti sfavorevoli al dichiarante e favorevoli all’altra parte. Di conseguenza, una promessa di pagamento, ancorché titolata, non ha natura confessoria, sicché il promittente può dimostrare l’inesistenza della causa e la nullità della stessa promessa, e che le particolari limitazioni di prova, poste per la confessione dall’art. 2732 c.c., possono trovare applicazione soltanto ove, nello stesso documento, coesistano una promessa di pagamento o una ricognizione di un debito e la confessione. Conforme Cass. III civ. n. 12285 del 5/7/2004.
V. altresì Cass. III civ. n. 4019 del 23/02/2006, secondo cui la ricognizione di debito, al pari della promessa di pagamento, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha soltanto effetto conservativo di un preesistente rapporto fondamentale, realizzandosi, ai sensi dell’art. 1988 cod. civ. – nella cui previsione rientrano anche dichiarazioni titolate – un’astrazione meramente processuale della causa, comportante l’inversione dell’onere della prova, ossia l’esonero del destinatario della promessa dall’onere di provare la causa o il rapporto fondamentale, mentre resta a carico del promittente l’onere di provare l’inesistenza o la invalidità o l’estinzione di detto rapporto, sia esso menzionato oppure no nella ricognizione di debito. Ne consegue che qualora il promissario, agendo per l’adempimento dell’obbligazione, dia la prova della promessa, incombe sul promittente l’onere di provare la inesistenza o la invalidità o l’estinzione del rapporto fondamentale. A tal fine non è sufficiente che lo stesso alleghi e dimostri che “altro” rapporto fondamentale è stato estinto, dovendo viceversa provare l’identità tra tale rapporto e quello presunto per effetto della ricognizione di debito, non bastando una mera “compatibilità” astratta tra i due titoli); alla luce dei surriferiti principi di diritto, dunque, appaiono del tutto inconferenti le doglianze di parte ricorrente quanto alla confessione, perché, indipendentemente dalla sussistenza di quest’ultima, nel caso in esame la Corte torinese ha comunque motivatamente ravvisato gli estremi della ricognizione di debito da parte della appellata qui ricorrente, per giunta in relazione all’indicato verbale di accertamento ispettivo, donde la conseguente presunzione juris tantum ex art. 1988 c.c., però non superata, ad avviso della stessa Corte di merito, nonostante l’espletato mezzo di prova, dalla società al riguardo onerata;
il ricorso va dunque respinto, con conseguente condanna della parte rimasta soccombente alle relative, liquidate come da seguente dispositivo a favore della parte controricorrente;
ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, atteso l’esito completamente negativo dell’impugnazione.
P.Q.M.
RIGETTA il ricorso.
Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, a favore di parte controricorrente, in euro 3500,00 (tremilacinquecento/00) per compensi professionali ed in euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R..
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