CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 ottobre 2022, n. 30948
Licenziamento – Incasso fittizio – Restituzione al cliente del prezzo pagato – Mancata prova della condotta addebitata – Illegittimità
Rilevato che
1. La Corte di appello di L’Aquila ha accolto il reclamo proposto da N.B. e, in riforma della sentenza del Tribunale di Chieti, ha accertato che i fatti contestati alla lavoratrice dalla società datrice I.M. s.p.a. erano insussistenti; che per l’effetto il licenziamento intimatole in data 22 settembre 2017 era illegittimo ed ha ordinato la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro condannando la società al pagamento dell’indennità risarcitoria che ha liquidato in dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita oltre che al pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal licenziamento alla reintegrazione ed al pagamento delle spese dell’intero processo.
2. La Corte territoriale ha ritenuto ammissibile, perché sufficientemente specifico, il reclamo proposto dalla B. e dunque lo ha accolto osservando che i fatti oggetto della contestazione disciplinare (consistiti in sintesi nell’aver simulato il pagamento e la registrazione di cassa di un pranzo in due diverse occasioni restituendo invece le somme pagate al cliente, sempre lo stesso) non avevano trovato un rassicurante riscontro nelle dichiarazioni rese dai testi escussi. Ha evidenziato altresì che, diversamente da quanto affermato dal giudice dell’opposizione, la lavoratrice non aveva mai ammesso gli addebiti ma piuttosto, pur contestati gli stessi, si era resa disponibile a ripianare eventuali ammanchi di cassa.
3. Per la cassazione della sentenza ha proposto tempestivo ricorso la I.M. s.p.a. affidato a tre motivi. N.B. ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c.
Considerato che
4. Con il primo motivo di ricorso è denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 primo comma n. 5 c.p.c.. Si deduce che il giudice del reclamo avrebbe omesso di considerare che la confessione da parte della lavoratrice dei fatti oggetto della contestazione era stata confermata dai testi S., C. e D.F. ed era stata resa dalla lavoratrice in tre diversi momenti successivi che non erano stati tenuti da conto dalla Corte territoriale che avrebbe calato le dichiarazioni registrate della ricorrente in un contesto diverso da quello in cui le stesse, ossia non il giorno del fatto ma a distanza di tre giorni dallo stesso sicché non si poteva invocare un effetto sorpresa conseguente ad una situazione di intimidazione nell’immediatezza del fatto.
5. Con il secondo motivo di ricorso è censurata la sentenza per avere, in violazione degli artt. 1362, 1363, 1324 c.c., erroneamente interpretato la contestazione di addebito del 25 agosto 2017, relativamente ai fatti del 19 agosto 2017, senza ricercare l’effettivo intento che aveva indotto il datore di lavoro a redigere l’addebito e senza attribuire allo stesso il significato che sarebbe derivato dall’interpretazione complessiva di tutte le espressioni utilizzate. Sostiene la società ricorrente che, se si fosse correttamente interpretata la contestazione di addebito sarebbe emerso che il fatto non si esauriva nel mancato pagamento del pranzo ma nell’aver tenuto esente uno specifico cliente in più occasioni dal pagamento del prezzo, a prescindere dal prezzo della consumazione.
6. Con il terzo motivo di ricorso si deduce che la sentenza avrebbe omesso di considerare il fatto che l’addetto alla sorveglianza aveva potuto vedere il fatto oggetto della contestazione, in particolare quello oggetto del secondo episodio, da un foro sul pannello del soppalco che consentiva una chiara visione della cassa e delle operazioni che vi si svolgevano. Sottolinea che tale circostanza, insieme alle altre, avrebbe dovuto convincere la Corte della esistenza della condotta contestata.
7. Il primo ed il terzo motivo di ricorso sono inammissibili sotto diversi profili. Come è noto l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. per tutte Cass. s.u. 07/04/2014 n. 8053).
7.1. Orbene, nel caso di specie, la società ricorrente più che denunciare l’omesso esame di un fatto decisivo, si duole dell’interpretazione data dal giudice del reclamo alle risultanze dell’istruttoria testimoniale. In particolare, con il primo motivo si deduce che le dichiarazioni della teste S. che, a suo dire, avrebbe raccolto una confessione della lavoratrice che aveva ammesso in sua presenza il fatto contestatole, erano decisive soprattutto ove valutate insieme a quanto riferito da altri due testi (C. e D.F.).Con il terzo si ripercorrono, ancora una volta, le risultanze dell’istruttoria cori riguardo al diverso aspetto, pure considerato dalla Corte del reclamo, della diretta percezione del fatto da parte di uno dei testi escussi.
7.2. In nessun caso la Corte ha trascurato di valutare i fatti il cui esame oggi si pretende omesso. Piuttosto ne ha dato atto, e li ha considerati ma ne ha escluso la rilevanza e decisività esercitando quel potere di valutazione discrezionale del materiale probatorio che è affidato in via esclusiva al giudice del merito.
8. Il secondo motivo è del pari inammissibile. Osserva il Collegio che la censura non sembra cogliere il senso della decisione. La Corte territoriale, senza incorrere in vizi di interpretazione della contestazione ed offrendone una lettura plausibile e coerente con il suo tenore testuale, ha ravvisato l’addebito disciplinare nell’avere in più occasioni e nei confronti dello stesso cliente fittiziamente incassato il prezzo del pranzo consumato restituendo invece l’importo pagato. In tale prospettiva, aderente al contenuto della contestazione e perfettamente plausibile, la Corte del reclamo ha escluso che fosse stata offerta la prova della condotta addebitata alla lavoratrice tanto che ha dichiarato inesistente il fatto addebitato. Con il motivo di ricorso invece che contestare tale inesistenza si procede, ancora una volta, ad un riesame dei fatti già valutati dal giudice di secondo grado che aveva escluso il fatto contestato in radice.
9. In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.