CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 ottobre 2022, n. 31039
Società in liquidazione – Compensi erogati a liquidatore – Azione di ripetizione di indebito – Onero probatorio – Mancato assolvimento
Rilevato che
1. La Corte di appello di Napoli, per quanto ancora interessa, ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città ed ha ritenuto che correttamente fosse stata esclusa la ripetibilità dei compensi erogati a E.C., quale liquidatore della società e per l’arbitrato R.O., da parte della società A.L.P. e V.P. d. T. & C. s.a.s. in liquidazione.
1.1. Il giudice di secondo grado ha evidenziato che non era in contestazione lo svolgimento da parte del C. dell’attività di liquidazione della società, documentato sia dallo stesso che dalla relazione del nuovo liquidatore, mentre ne era controversa solo l’entità del compenso, asseritamente erogato in misura superiore rispetto a quella dovuto.
1.2. Con la sentenza si è accertato, invece, che il compenso dovuto era stato concordato con i soci, che perciò ne erano consapevoli; che non ne era stata mai prima contestata la congruità; che era conforme alle tariffe applicate dallo studio associato legale tributario di cui era partner il C., studio affiliato ad E. & Y.L.P. a cui erano stati trasmessi i prospetti contabili.
1.3. Inoltre, è stato evidenziato che la parcella professionale redatta dal liquidatore era analitica nell’indicare tutti gli elementi utili per la liquidazione del compenso. Era stata indicata, infatti, l’ attività espletata, il valore del patrimonio e della posizione debitoria, i criteri di quantificazione del compenso ed il numero di ore prestate.
1.4. Conseguentemente il giudice di appello ha ritenuto che, per ripetere le somme, la società avrebbe dovuto dimostrare che l’impegno profuso dal C. non era corrispondente a quello dichiarato. Ha inoltre evidenziato che il compenso è relativo ad una liquidazione volontaria e che il criterio di cui all’art. 6 della Tariffa forense invocato dalla società istante riguardava invece l’attuazione di incarichi giudiziari. Ha sottolineato poi che non erano state individuate le differenze che, eventualmente, non erano dovute applicando quella tariffa ribadendo che non era stata contestata l’attività che aveva consentito di risolvere il contenzioso pendente salvaguardando il patrimonio aziendale.
1.4. Quanto alla congruità del compenso erogato, la Corte di merito l’ha ritenuta confermata anche alla luce di quello erogato al liquidatore che era succeduto al C. ed in genere con riguardo ai compensi erogati per consulenze esterne.
1.5. Con riguardo poi all’Arbitrato R.O. il giudice di secondo grado ha evidenziato che il Tribunale aveva individuato quale legittimato passivo dell’azione di ripetizione l’avv. V. C. cui erano riferite le fatture e che la censura, incentrata sulla violazione dei doveri gestori e connessa all’avvenuta interposizione di un terzo, non era risultata supportata da elementi neppure indiziari e da allegazioni di un danno eventualmente patito.
2. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso società A.L.P. e V.P. d. T. & C. s.a.s. in liquidazione affidato a quattro motivi. E.C. ha opposto difese con controricorso. Con memoria del 23 febbraio 2018 si è costituito per il C. l’avvocato U. C. in sostituzione dell’avvocato C.M. che ha rinunciato al mandato comunicando altresì il nuovo domicilio eletto.
Considerato che
3. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c..
3.1. Sostiene la ricorrente che la Corte territoriale avrebbe trattato unitariamente due censure che erano tra loro distinte sia per oggetto che con riguardo al supporto probatorio. Ritiene che, così facendo, il giudice di appello sarebbe incorso nella denunciata violazione dell’onere della prova e nella sovrapposizione di fatti e ragionamenti propri del giudice rispetto alle allegazioni delle parti.
3.2. Evidenzia infatti che le questioni poste attenevano, una, alla corretta determinazione dell’importo autoliquidato dal liquidatore per l’attività prestata; l’altra all’esistenza di inadempimenti che ne avrebbero giustificato la mancata erogazione. Questioni tra loro differenti sia sul piano delle allegazioni sia sul piano della prova le quali, invece, trattate unitariamente, avevano comportato che la Corte si era discostata dagli argomenti posti dalle parti a fondamento delle rispettive pretese.
4. Il motivo non coglie il senso della decisione la quale, è vero, ha esaminato le due censure congiuntamente e tuttavia non è incorsa nella violazione degli oneri della prova. Premesso che chi agisce per la ripetizione di somme asseritamente non dovute è tenuto a provare l’indebito (cfr. Cass.12/06/2020 n. 11294, 17/03/2006 n. 5896 e Cass. n. 1557 del 1998), va ricordato che nel caso in esame l’indebito era stato prospettato da un canto in termini di applicazione di tariffe differenti. La Corte, alla luce delle allegazioni delle parti, ha chiarito le ragioni per le quali tale tariffa non fosse concretamente applicabile al caso in esame.
Per altro aspetto l’indebito era stato configurato quale sanzione per l’inesatto adempimento della prestazione ed il giudice di secondo grado ha invece accertato in fatto, sulla base di quanto allegato nel processo, che l’attività era stata svolta utilmente.
4.1. Va premesso che la violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod.civ. si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma e che un erroneo apprezzamento sull’esito della prova è invece sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 primo comma n. 5 c.p.c.. Né è ravvisabile la violazione dell’onere della prova denunciata tenuto conto del fatto che spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova (cfr. Cass. 14/11/2013 n. 25608). Può, eventualmente configurarsi un vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia, peraltro nel caso neppure prospettato, qualora si ravvisi un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità (Cass. ult. cit.) ma certo non è ravvisabile nel mero fatto che non siano stati presi in esame tutti gli argomenti e gli elementi di prova allegati ove non se ne dimostri la decisività.
5. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2033 e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c..
5.1. Sostiene la ricorrente che la Corte di merito, nel ritenere corretta la tariffa in base alla quale erano stati autoliquidati i compensi, avrebbe erroneamente inquadrato la fattispecie nella categoria dell’indebito oggettivo laddove invece si sarebbe dovuto ritenere che si trattava di controversia che aveva ad oggetto una prestazione di opera professionale (determinazione del compenso dell’amministratore) ed in tale quadro doveva essere esaminata e gestita la distribuzione degli oneri probatori. In tale prospettiva, pertanto, era sufficiente la mera contestazione dello svolgimento dell’attività e gravava invece sul liquidatore l’onere di provare l’espletamento dell’attività e la spettanza delle somme che, come eccepito dalla società, non emergeva documentalmente dalle fatture.
5.2. Deduce, inoltre, la società che, anche a voler qualificare l’azione come ripetizione di indebito, era stato comunque assolto l’onere di provare che le somme non erano dovute che su di lei incombeva. Infatti aveva provato da un canto di aver pagato gli importi dovuti e, dall’altro, che nella contabilità depositata in atti non erano stati rinvenuti elementi che giustificassero l’ulteriore pagamento né era stato dimostrato quali fossero i criteri per la liquidazione dei compensi come reclamati e sottolinea che l’onere di provare l’esistenza di un accordo derogatorio gravava sul professionista.
6. Il motivo non può essere accolto.
6.1. Va premesso che la rilevazione ed interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata al giudice di merito che è sindacabile:
a) ove ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; b) qualora comporti un vizio del ragionamento logico decisorio, eventualità in cui, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del “petitum”, potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere prospettato come vizio di nullità processuale ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; c) quando si traduca in un errore che coinvolge la “qualificazione giuridica” dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un “fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo”, ipotesi nella quale la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di “error in judicando”, in base all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., o al vizio di “error facti”, nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (cfr. Cass. 10/06/2020 n. 11103). Nessuna di queste ipotesi è ravvisabile nel caso in esame.
6.1. Correttamente inquadrata la domanda proposta nell’ambito della denunciata azione di ripetizione di indebito, allora, il giudice di appello non è incorso nella denunciata violazione degli oneri probatori.
6.2. La Corte di merito ha infatti accertato sulla base delle prove allegate dal professionista che l’attività demandatagli era stata svolta. Ha poi accertato in concreto sulla base di quali criteri condivisi il compenso era stato liquidato e poi anche pagato; la società ha agito in giudizio per recuperare quanto ha già pagato sulla base di fatture emesse dal professionista ed era suo l’onere di dimostrare che le somme già versate non erano dovute ed in che misura. La censura, per come formulata, si risolve in una inammissibile rivalutazione dei fatti allegati al giudizio che è preclusa al giudice di legittimità.
7. Il terzo motivo di ricorso, con il quale è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 1709, 2276, 2489, 2727 e 2729 c.c. e dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c., è infondato.
7.1. In base alle citate disposizioni, infatti, non è richiesta infatti alcuna previa delibera da parte dell’assemblea dei soci del compenso da erogare al liquidatore che, infatti, ai sensi dell’art. 1709 c.c. “se non è stabilita dalle parti, è determinata in base alle tariffe professionali o agli usi; in mancanza è determinata dal giudice”. Nella specie la Corte di appello ha accertato che le parti avevano, per facta concludentia, raggiunto un accordo sul compenso orario da erogare al liquidatore e, nel chiedere in sostanza l’accertamento da parte del giudice di un diverso compenso e la conseguente restituzione di quanto in tesi indebitamente corrisposto, la società avrebbe dovuto allegare e provare sulla base di quali criteri oggettivi il compenso doveva essere diverso e la Corte di merito con accertamento di fatto a lei riservato e sulla base di una ricostruzione esente da vizi ha escluso che vi fossero i presupposti per una sua diversa quantificazione.
8. L’ultimo motivo di ricorso, con il quale è denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 primo comma n. 5 c.p.c. perché si sostiene che la Corte avrebbe trascurato di considerare la circostanza dedotta che la parcella presentata ex post dal C. per replicare alle censure opposte dal liquidatore che gli era succeduto non era strutturata nelle forme della tariffa oraria ed anzi faceva riferimento proprio alla tariffa giudiziaria invocata dalla società, è inammissibile poiché si sostanzia in un nuovo e diverso esame delle circostanze di fatto esaminate dalla Corte territoriale che ha preso in esame il contenuto proprio di quella parcella che si pretende non essere stata adeguatamente esaminata, verificando la compatibilità degli importi richiesti con le ore lavorate a fronte di una domanda con la quale si chiedeva proprio la rideterminazione del quantum erogato.
9. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in € 5.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.IP.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
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