CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 agosto 2020, n. 17567
Pagamento di differenze retributive – Interposizione di mano d’opera o a titolo di cessione di ramo d’azienda – Potere-dovere del giudice di inquadrare nella esatta disciplina giuridica i fatti e gli atti oggetto della contestazione – Rispetto del petitum e della causa petendi – Potere di interpretazione e di qualificazione giuridica della domanda
Premesso
che N.R. ha agito in giudizio avanti al Tribunale di Salerno nei confronti di C.Z., A.Z., R.D. e C.M. S.r.l. (successivamente dichiarata fallita) al fine di ottenere il pagamento di differenze retributive per l’attività lavorativa prestata, nel periodo 20/2/1999 – 31/10/2003, nel negozio di abbigliamento sito in corso D. di Mercato San Severino;
– che a definizione del giudizio il Tribunale ha rilevato che la ricorrente aveva svolto le mansioni di commessa, nell’indicato esercizio commerciale, per l’intero periodo dedotto e senza soluzione di continuità: fino al 14 gennaio 2002, alle dipendenze di C.Z.; per il periodo successivo e fino al gennaio 2003, alle dipendenze della C.M.; dal gennaio 2003 e fino alla cessazione del rapporto di lavoro, avvenuta nell’ottobre 2003, alle dipendenze di A.Z. e di R.D.; il Tribunale ha, quindi, condannato C.Z., A.Z. e R.D. in solido tra loro – gli ultimi due ex art. 2112 cod. civ. – al pagamento della somma di euro 43.880,08 maturata nel periodo compreso tra il 20/2/1999 ed il 14/1/2002, nonché condannato A.Z. e R.D., in solido tra loro, al pagamento della somma di euro 13.063,82 maturata nel periodo successivo fino al 31/10/2003, avendo la R. rinunciato alla domanda nei confronti della società, responsabile per i crediti maturati fino al gennaio 2003;
– che la Corte di appello di Salerno, con sentenza n. 1659/2015, depositata il 14 gennaio 2016, ha parzialmente riformato la decisione di primo grado – per il resto confermata – nel senso di escludere dalla statuizione di condanna A.Z., sul rilievo della sua estraneità all’attività da ultimo esercitata dalla moglie R.D. nei locali di corso D.;
– che la Corte di appello ha osservato a sostegno della propria decisione: a) che il primo giudice non era incorso in ultrapetizione, “essendosi attenuto alla richiesta di condanna in solido avanzata dalla lavoratrice” nei confronti degli appellanti “vuoi a titolo di interposizione di mano d’opera, vuoi a titolo di cessione di ramo d’azienda”, posto che nelle conclusioni dell’atto introduttivo era stato espressamente richiamato l’art. 2112 cod. civ.; b) che non poteva ritenersi, alla stregua della espletata prova orale, che la D. avesse aperto in corso D., nel gennaio 2003, una nuova attività, del tutto priva di collegamento rispetto a quella che in precedenza vi era stata esercitata, essendo emersa l’identità dei locali e dell’attività svolta (vendita di capi di abbigliamento) ed inoltre essendo emersa una continuativa presenza in essi della lavoratrice, anche dopo la cessione operata a favore della C.M.; c) che, pertanto, era da ritenersi verificata, nel caso di specie, un’ipotesi di mero mutamento della titolarità, dal lato datoriale, del rapporto di lavoro della R., riconducibile al paradigma di cui all’art. 2112 cod. civ.;
– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la D., con quattro motivi, cui ha resistito la lavoratrice con controricorso;
– che la ricorrente ha depositato memoria;
Rilevato
che con il primo motivo viene dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto la condanna della ricorrente in solido ex art. 2112, co. 2°, cod. civ. non viziata da ultrapetizione, nonostante la lavoratrice avesse fondato le proprie richieste esclusivamente sulla interposizione fittizia di manodopera;
– che con il secondo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2112 e 2697 cod. civ. per avere la Corte erroneamente trascurato di considerare che non vi era stata cessione, né alcun trasferimento di beni, materiali o immateriali, tra la C.M. S.r.l. e la ricorrente;
– che con gli altri motivi di ricorso viene dedotto il vizio di cui all’art. 360 n. 5 per omesso esame della estraneità della ricorrente alla cessione di azienda in data 14 gennaio 2002 (terzo motivo) e per omesso esame dell’avvenuto trasferimento della società presso altra sede, nel gennaio 2003, e dell’avvio, nello stesso mese, della propria attività commerciale da parte della ricorrente nei locali di corso D. (quarto motivo);
Osservato
che il primo motivo è infondato;
– che, infatti, la Corte di appello si è conformata al consolidato principio, per il quale il potere-dovere del giudice di inquadrare nella esatta disciplina giuridica i fatti e gli atti che formano oggetto della contestazione incontra il limite del rispetto del petitum e della causa petendi, sostanziandosi nel divieto di introduzione di nuovi elementi di fatto nel tema controverso, sicché il vizio di “ultra” o “extra” petizione ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (Cass. n. 8048/2019; conformi, fra le molte: Cass. n. 9002/2018; n. 18868/2015; n. 455/2011);
– che nella specie la lavoratrice – come è pacifico – ha domandato la condanna della D., oltre che per violazione della l. n. 1369/1960, “anche ai sensi e per gli effetti dell’art. 2112 cod. civ.” (così espressamente le conclusioni assunte con l’atto introduttivo); mentre il giudice di merito, riconducendo i fatti oggettivi, allegati con lo stesso atto, entro l’ambito di applicazione della disciplina relativa al trasferimento di azienda, ha esercitato il suo potere di interpretazione e di qualificazione giuridica della domanda;
– che, d’altra parte, la ricorrente, limitandosi a riportare, a sostegno del motivo ora in esame, taluni passi delle memorie depositate dalla R. avanti al Tribunale e taluni isolati passi del ricorso introduttivo del giudizio, non ha dimostrato che i fatti allegati dalla lavoratrice dovessero essere riferiti univocamente ad una fattispecie di interposizione fittizia di manodopera, fermo il principio, per il quale il giudice di merito, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, non è condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte ma è tenuto ad accertare il contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile anche dalle vicende oggettivamente rappresentate e dal provvedimento in concreto richiesto;
– che parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso, avendo la Corte di appello, sulla base di un’adeguata ricostruzione degli elementi fattuali del caso concreto (cfr. sentenza impugnata, pp. 9-10), fatto corretta applicazione del principio di diritto, secondo il quale “costituisce trasferimento d’azienda ai sensi dell’art. 2112 cod. civ., anche in base al testo precedente le modificazioni introdotte dall’art. 1 del d.lgs. n. 18 del 2001, qualsiasi operazione che comporti il mutamento della titolarità di un’attività economica qualora l’entità oggetto del trasferimento conservi, successivamente allo stesso, la propria identità, da accertarsi in base al complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano la specifica operazione (tra cui il tipo d’impresa, la cessione o meno di elementi materiali, la riassunzione o meno del personale, il trasferimento della clientela, il grado di analogia tra le attività esercitate)“: Cass. n. 29422/2017; conforme Cass. n. 8252/2010;
– che il terzo e il quarto motivo risultano inammissibili, sia in forza della preclusione di cui all’art. 348 ter, ultimo comma, cod. proc. civ. (c.d. “doppia conforme”), a fronte di giudizio di appello introdotto con ricorso depositato (il 12 settembre 2012) oltre il trentesimo giorno dall’entrata in vigore della l. n. 134/2012 di conversione del d.l. 22 giugno 2012, n. 83; sia e comunque perché i fatti, che la ricorrente reputa omessi, sono stati, in realtà, presi in considerazione e valutati dalla Corte di appello (cfr. ancora sentenza impugnata, p. 9);
Ritenuto
conclusivamente che il ricorso deve essere respinto;
– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo;
– che di esse va disposta la distrazione ex art. 93 cod. proc. civ. in favore del difensore della parte controricorrente avv. A.A.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge, somma di cui dispone la distrazione in favore dell’avv. A.A.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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