CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 dicembre 2018, n. 33279
Tributi – Accertamento – Professionisti – Reddito imponibile – Scostamento tra ricavi dichiarati e quelli risultanti dagli studi di settore
Rilevato che
– con sentenza n. 77/49/2012, depositata il 15 giugno 2012, non notificata, la Commissione tributaria regionale della Lombardia, rigettava l’appello proposto da G. C. nei confronti dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore prò tempore, avverso la sentenza n. 229/29/2011 della Commissione tributaria provinciale di Milano che aveva rigettato il ricorso proposto dal contribuente avverso l’avviso di accertamento n. T9B01EN00695/2010 con il quale l’Ufficio aveva contestato a quest’ultimo, esercente l’attività professionale di avvocato, un maggiore reddito imponibile ai fini Irpef, Irap e Iva, per l’anno 2005, in applicazione degli studi di settore;
– la CTR, in punto di diritto, per quanto di interesse, ha osservato che:l) avuto riguardo alla “grave e ingiustificabile incongruenza tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore”, era legittima la determinazione induttiva del reddito imponibile, “anche al di fuori dei casi previsti dall’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973”; 2) nell’anno di imposta 2005, lo scostamento tra ricavi dichiarati e quelli risultanti dagli studi di settore era pari a euro 51.525,00, corrispondenti al + 233,19% dei ricavi dichiarati; 3) la rideterminazione del reddito effettuata dall’Ufficio partendo dalla stima dei ricavi compiuta attraverso lo studio di settore era legittima anche alla luce della abnorme antieconomicità della gestione; 4) dalle dichiarazioni dei redditi presentate si rilevavano – come rappresentato nella riprodotta tabella – quote di ammortamento, costi di locazione di immobili, nonché costi per la remunerazione delle prestazioni di lavoro dipendente e compensi corrisposti a terzi nell’anno 2005 di considerevole ammontare; 4) applicando i ricavi dagli studi di settore si perveniva ad un risultato economico di esercizio positivo più coerente e congruo rispetto ai costi dei fattori produttivi capitale e lavoro altrui impiegati nell’attività professionale;
– avverso la sentenza della CTR, il contribuente propone ricorso per cassazione affidato a sei motivi, cui resiste, con controricorso, l’Agenzia delle entrate;
– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375, secondo comma, e dell’art. 380-bis.l cod. proc. civ., introdotti dall’art. 1 -bis del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197.
Considerato che
– con il primo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4 del D.lgs. n. 546 del 1992 e 111, comma 6, Cost., per non avere la CTR argomentato alcunché in ordine al motivo di appello con il quale era stata dedotta l’inesistenza giuridica della notifica dell’avviso di accertamento, in quanto priva della relata e, comunque, effettuata ad opera di soggetto non abilitato;
– il motivo è inammissibile, in quanto la mancata trascrizione della relata di notifica lo priva di autosufficienza. Qualora oggetto del motivo di ricorso per cassazione sia, infatti, una relata di notifica, il principio di autosufficienza del ricorso esige la trascrizione integrale della relata stessa ( Cass. 28 febbraio 2017, n. 5185; Cass. 29 agosto 2005, n. 17424);
-con il secondo motivo, il ricorrente denuncia, in subordine, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., l’omessa motivazione della sentenza impugnata su fatti controversi e decisivi per il giudizio, per non avere la CTR argomentato in ordine a tutte le eccezioni sollevate in sede di gravame tese all’annullamento dell’avviso di accertamento;
– la censura è inammissibile in quanto, il ricorrente, nel denunciare genericamente la omessa motivazione della sentenza impugnata su tutte le eccezioni proposte in sede di gravame tese all’annullamento dell’atto impositivo, in difetto del principio di autosufficienza, non riproduce – per le parti rilevanti- l’atto di appello al fine di consentire a questa Corte di verificare il fondamento della proposta doglianza;
– con il terzo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza impugnata per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.c., per avere la CTR, a fronte di un accertamento da studi di settore che trovava titolo nell’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973, richiamato dall’art. 62-sexies del d.l. n. 331 del 1993, pronunciato oltre i limiti della domanda, affermando che l’Amministrazione finanziaria era legittimata a ricorrere alla determinazione induttiva del reddito “anche al di fuori dei casi previsti dall’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973”;
– il motivo è infondato;
– è ravvisabile vizio di extrapetizione soltanto allorquando il giudice d’appello pronunci oltre i limiti delle richieste e delle eccezioni fatte valere dalle parti, oppure su questioni non dedotte e che non siano rilevabili d’ufficio, attribuendo alle parti un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato; non è invece precluso al giudice del gravame l’esercizio del potere-dovere di qualificare diversamente i fatti, con il solo limite di non esorbitare dalle richieste contenute nell’atto di impugnazione e di non introdurre nuovi elementi di fatto nell’ambito delle questioni sottoposte al proprio esame (tra varie, Cass. n.18830 del 2017; Cass., n. 296 del 2016; Cass. n. 16213 del 2015);
– invero, la CTR, nel dichiarare, rigettando l’appello, la legittimità dell’avviso di accertamento oggetto di impugnativa, ha statuito sulla domanda e nei limiti di essa; in particolare, l’affermazione secondo cui l’Amministrazione finanziaria potrebbe ricorrere alla determinazione induttiva del reddito imponibile “anche al di fuori dei casi previsti dall’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973”, costituisce una mera argomentazione nell’impianto motivazionale della sentenza impugnata, e non già una autonoma pronuncia che va oltre i limiti delle domande e delle eccezioni formulate dalle parti; tanto più che tale affermazione è conforme al condivisibile orientamento giurisprudenziale secondo cui in virtù dell’art. 62 sexies del d.l. n. 331 del 1993, l’ufficio – allorché ravvisi “gravi incongruenze” fra i valori dichiarati e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell’attività svolta od agli “studi di settore” – può fondare l’accertamento di maggiori ricavi, rispetto a quelli dichiarati, anche su tali “gravi incongruenze” e, quindi, anche al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 39 citato: il che costituisce, in pratica, un ulteriore elemento presuntivo, di carattere legale, certamente ammissibile anche in presenza di contabilità formalmente regolare (come, in genere, si verifica in presenza di gravi, precise e concordanti presunzioni: Cass. nn. 24436/2008, 10649/2001, 8494/1998, 4555/1998);
– con il quarto motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 62-sexies del d. l. n. 331 del 1993, convertito dalla legge n. 427 del 1993, in combinato con l’art. 2729 c.c., per avere la CTR ritenuto erroneamente – disattendendo lo specifico motivo di appello – legittimo l’avviso di accertamento in questione, ancorché, fosse basato unicamente sullo scostamento tra i ricavi dichiarati da lavoro autonomo e quelli desunti dagli studi di settore, senza che alcun ulteriore elemento secondo i parametri individuati dall’art. 2729 c.c. avesse suffragato la validità delle rilevazioni statistiche, avendo il contribuente, sia in sede di contraddittorio endoprocedimentale che in sede processuale, dedotto circostanze idonee a confutare gli esiti dell’applicazione degli studi di settore;
– il quarto motivo è infondato;
-premesso, infatti, che la ricorrente dà atto dell’avvenuto esperimento del contraddittorio endoprocedimentale (circostanza non contestata dall’Amministrazione finanziaria), nella specifica materia, questa Corte ha chiarito che la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati quali meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli ”standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito (cfr. Cass., sez. un., n. 26635 del 2009, Cass. 12558 del 2010, Cass. 12428 del 2012, Cass, 23070 del 2012; n. 17787 del 2016; 9806 e 17289 del 2017; n. 18907 del 2018);
– è stato, poi, ulteriormente specificato che, a norma del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, comma 3, convertito nella L. n. 427 del 1993 – “gli accertamenti di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), (…) e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, (…) possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art. 62 bis, del presente decreto (id est, D.L. n. 331 del 1993)”, nel quale ultimo caso l’Ufficio non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale di settore, potendosi basare anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente. (Cass. 16430/2011). Questa Corte ha poi precisato che la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema unitario, che non si colloca all’interno della procedura di accertamento di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, ma la affianca, essendo indipendente dall’analisi dei risultati delle scritture contabili, la cui regolarità, per i contribuenti in contabilità semplificata, non impedisce l’applicabilità dello “standard”, né costituisce una valida prova contraria, laddove, per i contribuenti in contabilità ordinaria, l’irregolarità della stessa costituisce esclusivamente condizione per la legittima attivazione della procedura standardizzata (Cass., sez. un., n. 26635/09).Pertanto, anche, in caso di contabilità regolarmente tenuta, non è precluso all’Amministrazione finanziaria di procedere, legittimamente, all’accertamento analitico induttivo dei ricavi (o del reddito d’impresa) dichiarati da un contribuente che, nel corso dell’esercizio controllato, abbia posto in essere un comportamento palesemente antieconomico. Da qui, il conseguente spostamento dell’onere della prova a carico di quest’ultimo, il quale, dal canto suo, deve validamente motivare quelle scelte imprenditoriali non in linea con i criteri di economicità (cfr, per tutte Cass. n. 398/2003; n. 6337/2002);
-in particolare, i c.d. studi di settore introdotti dal D.L. n. 331 del 1993, artt. 62-bis e 62-sexies direttamente derivanti dai “redditometri” o “coefficienti di reddito e di ricavi” previsti dal D.L. 2 marzo 1989, n. 69, convertito in L. 27 aprile 1989, n. 154, idonei a fondare semplici presunzioni, sono da ritenere supporti razionali offerti dall’Amministrazione al giudice, paragonabili ai bollettini di quotazioni di mercato ai notiziari Istat, nei quali è possibile reperire dati medi presuntivamente esatti. Pertanto, i dati in tal modo presunti possono essere utilizzati dall’ufficio anche in contrasto con le risultanze di scritture contabili regolarmente tenute, finché non ne sia dimostrata l’infondatezza mediante idonea prova contraria, il cui onere è a carico del contribuente (Cfr. anche Cass. n. 18666 del 2016; n. 5977 del 2007, n. 26919 del 2006);
– invero, la circostanza che il ricorrente a fronte di notevoli costi, dichiari un reddito esiguo, costituisce una condotta commerciale anomala, di per sé sufficiente a giustificare da parte dell’erario una rettifica della dichiarazione, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 a meno che il contribuente non dimostri concretamente la effettiva sussistenza di validi motivi per porre in essere un comportamento palesemente antieconomico. Il che non si traduce in un sindacato sulle scelte imprenditoriali, ma consente di presumere l’esistenza di proventi non dichiarati, correttamente desunta dalla abnormità, ed irragionevolezza dei dati dichiarati, che lasciando presupporre una attività gestionale antieconomica, induce, logicamente, a ritenere complessivamente inattendibile la documentazione. In tali casi, pertanto, è consentito all’ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti- un maggior reddito di impresa. Va, quindi, ribadito il principio per cui “un comportamento del contribuente palesemente antieconomico costituito da un rilevante rapporto deficitario tra valore complessivo dei costi sostenuti e i ricavi dichiarati integra le gravi incongruenze che legittimano l’applicazione degli studi di settore” (Cass. n. 18666 del 2016); a fronte di condotte aziendali che risultano in netto contrasto con le leggi del mercato, compete, infatti, all’imprenditore dimostrare, in modo specifico, che la differenza negativa tra costi di acquisto e prezzi di rivendita, emersa dalle scritture contabili, non è dovuta all’occultamento di corrispettivi, ma trova valide ragioni economiche che la giustificano (ex pturibus, Cass. n. 80681/2010; n. 11242/2011);
– nella specie, il contraddittorio è stato realizzato e da esso, la C.T.R., nel confermare la legittimità del provvedimento impositivo, ha ritenuto non emersi elementi a contrario che giustificassero la grave incongruenza (definita “ingiustificabile”) tra i ricavi dichiarati nel 2005 e quelli desumibili dagli studi di settore, stante il rilevante rapporto deficitario tra il valore complessivo dei costi sostenuti e i ricavi dichiarati; sul punto, dunque, conformandosi alla giurisprudenza di legittimità in materia (cfr. Cass., Sez. U., n. 26635 del 2009; conf. Cass., Sez. 5A, n. 20414 del 2014, n. 3415 del 2015, n. 6114 e n. 14288 del 2016; n. 9484 del 2017; n. 25289 del 2018), la CTR ha correttamente attribuito il requisito di gravità, precisione e concordanza alla presunzione basata sullo studio di settore applicato e, conseguentemente, posto a carico della società, che però non vi ha adempiuto, l’onere di giustificare le ragioni del rilevato scostamento;
– con il quinto motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 36, comma 2, n. 4 del d.lgs. n. 546 del 1992, e dell’art. 111, comma 6 Cost., la motivazione apparente della sentenza impugnata per avere la CTR affermato apoditticamente la legittimità dell’avviso di accertamento senza argomentare minimamente in ordine alle deduzioni e alle prove contrarie già fornite dal contribuente in sede endoprocedimentale e riproposte in sede di gravame, fondando la decisione di rigetto dell’appello sulla base dei soli esiti degli studi di settore e dei dati reddituali dichiarati dal medesimo ricorrente per l’anno di imposta 2005;
– con il sesto motivo, il ricorrente, ripropone, in subordine, sotto il profilo del vizio di omessa motivazione della sentenza impugnata, ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.- la medesima doglianza in ordine alla mancata valutazione da parte della CTR delle deduzioni e delle prove contrarie già fornite dal contribuente in sede endoprocedimentale e riproposte in sede di gravame;
– i motivi quinto e sesto sono infondati;
– l’inosservanza dell’obbligo di motivazione integra violazione della legge processuale, denunciabile con ricorso per cassazione, solo quando si traduca in mancanza della motivazione stessa (con conseguente nullità della pronuncia per difetto di un indispensabile requisito di forma), e cioè nei casi di radicale carenza di essa o del suo estrinsecarsi in argomentazioni non idonee a rivelare la ratio decidendi (cosiddetta motivazione apparente) o fra loro logicamente inconciliabili o comunque perplesse ed obiettivamente incomprensibili. (Cass., sez. un., n. 23832 del 2004; Cass. n. 25972 del 2014). Questa Corte ha, altresì, precisato che «la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo“, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture» (Cass., sez. un., n. 22232 del 2016; conf. Cass. n. 1756 del 2006, n. 16736 del 2007, n. 9105 del 2017);
– quanto al vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, questo può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (Cass. 30822 del 2017; Cass. n. 19547 del 2017; n. 15489 del 2007); in materia, questa Corte ha precisato che “al fine di adempiere all’obbligo della motivazione, il giudice non è tenuto a valutare singolarmente tutte le risultanze processuali, e a confutare tutte le argomentazioni prospettate dalle parti, essendo sufficiente che, dopo aver vagliato le une e le altre nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il proprio convincimento, dovendosi ritenere disattesi, implicitamente, tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass., n. 11645 del 2012; n. 8767 del 2011; Cass., n. 14598 del 2003; Cass., n. 12220 del 1998);
– nella specie, la CTR, nell’incontestato espletamento del contraddittorio endoprocedimentale, con una motivazione congrua, sebbene succinta, ha ritenuto “ingiustificabile” la grave incongruenza legittimante l’applicazione degli studi di settore, stante il rilevante rapporto deficitario tra il valore complessivo dei costi sostenuti e i ricavi dichiarati, escludendo così – con un accertamento in fatto non sindacabile dalla Corte in sede di legittimità- ogni valenza giustificativa delle contestazioni sollevate in merito dal contribuente in sede preprocessuale e processuale; infatti, la chiara indicazione da parte della CTR degli elementi su cui ha fondato il proprio convincimento circa la legittimità dell’accertamento tributario standardizzato, ha comportato l’implicito rigetto di tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, erano logicamente incompatibili con la decisione adottata;
– in ogni caso, trattasi di censure che, sotto il prospettato vizio di motivazione apparente ovvero omessa motivazione, sono, in realtà, volte ad ottenere una inammissibile rivalutazione nel merito delle risultanze probatorie;
– in conclusione, il ricorso va rigettato; le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna G. C., al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore prò tempore, delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 6.000,00 a titolo di compensi, oltre alle spese prenotate a debito;
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