CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 febbraio 2020, n. 4616
Accertamento di un rapporto di lavoro subordinato – Mansioni – Lavoratrice domestica – Pagamento somme
Rilevato
che la Corte di Appello di Catania, con sentenza pubblicata in data 19.2.2015, ha respinto il gravame interposto da M.P., nei confronti di C.T.F., I.T.F. e S.T.F., in qualità di eredi di M.T.F., avverso la pronunzia del Tribunale di Siracusa che aveva rigettato la domanda della lavoratrice, diretta ad ottenere l’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato tra le parti, con decorrenza dal 13.1.2002 al 15.11.2002, con mansioni di assistente e di lavoratrice domestica alle dipendenze dei coniugi S.M.e M.T.F. e, dopo il decesso del primo e sino al 19.6.2004, alle dipendenze di quest’ultima, con condanna degli eredi di M.T.F. al pagamento della somma. di euro 52.218,29 per il lavoro svolto, oltre al TFR ed agli accessori, come per legge, nonché di somme ulteriori, specificate nel ricorso, per le spese asseritamente sostenute per la sistemazione della tomba dei datori di lavoro e altro;
che per la cassazione della sentenza ricorre M.P. sulla base di tre motivi contenenti più censure, cui resistono con controricorso C. ed I.T.F.;
che S.T.F. non ha svolto attività difensiva;
che il P.G. non ha formulato richieste
Considerato
che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 421 e 437 c.p.c.; in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 24, 111, comma 1, cost., 6, 13 e 17 della CEDU; 115, 116 c.p.c; in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., «l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti: se M.P. avesse svolto attività assistenziale prima in favore dei coniugi M. e poi di T.F.M.»; 2) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2094, 2240, 2697 c.c., nonché, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., la « in relazione all’art. 366 n. 4 c.p.c., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti: quali erano le caratteristiche dell’attività svolta da M.P. prima in favore dei coniugi M. e poi di T.F.M.» e, nella sostanza, si lamenta che la Corte di merito abbia ritenuto infondate le domande, perché avrebbe errato nella valutazione delle risultanze istruttorie in ordine alla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e che non avrebbe fornito alcuna motivazione a supporto della decisione, omettendo di esaminare compiutamente le prove testimoniali; dalla qual cosa, sarebbe derivato, appunto, il vizio di motivazione denunciato; 3) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., perché «la Corte di Appello ha erroneamente compensato le spese processuali che andavano poste a carico delle resistenti per entrambi i gradi di giudizio»;
che il primo motivo è inammissibile sotto diversi e concorrenti profili: innanzitutto perché solleva un coacervo di censure senza il rispetto del canone della specificità del motivo, che determina, nella parte argomentativa dello stesso, la difficoltà di scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio e, dunque, di effettuare puntualmente l’operazione di interpretazione e di sussunzione delle censure (al riguardo, tra le molte, Cass. nn. 21239/2015, 7394/2010, 20355/2008, 9470/2008); al riguardo, va sottolineato che le Sezioni Unite di questa Corte, dinanzi ad un motivo di ricorso che conteneva censure astrattamente riconducibili ad una pluralità di vizi tra quelli indicati nell’art. 360 c.p.c., hanno ribadito la stigmatizzazione di tale tecnica di redazione del ricorso per cassazione, evidenziando “la impossibilità di convivenza in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure caratterizzate da irrimediabile eterogeneità” (Cass., SU., nn. 17931/2013, 26242/2014); inoltre, relativamente alla censura che attiene alla «violazione di legge», perché la parte ricorrente non ha indicato sotto quale profilo le norme menzionate sarebbero state violate, in spregio alla prescrizione di specificità dell’art. 366, primo comma, n. 4, c.p.c., che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, del codice di rito, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente violate ed altresì con specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009); pertanto, le doglianze mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza si risolvono in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011);
che, peraltro, il compito di valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza spetta in via esclusiva al giudice di merito; per la qual cosa, «la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove>> (come, nella sostanza, è avvenuto nella fattispecie: v., in particolare pag. 5) «non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito» (cfr., exmultis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. nn. 14541/2014; 2056/2011); e, nella fattispecie, la Corte distrettuale è pervenuta alla decisione impugnata attraverso un percorso motivazionale condivisibile e scevro da vizi logico-giuridici circa la valutazione degli elementi delibatori posti a base della stessa, mentre le censure sollevate, al riguardo, dalla lavoratrice appaiono, all’evidenza, finalizzate ad una nuova valutazione degli elementi di fatto, attraverso la mera contestazione della valutazione dei predetti elementi;
che, infine, per quanto, più in particolare, attiene alla terza censura, ne va rilevata la inammissibilità per la formulazione non più consona (in quanto, nella sostanza, censura un vizio di motivazione) con le modifiche introdotte al n. 5 del primo comma dell’art. 360 c.p.c. dall’art. 54, comma 1, lett. b), del D.L. 22/6/2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7/8/2012, n. 134, applicabile, ratione temporis, al caso di specie poiché la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata – pubblicata, come riferito in narrativa, in data 19.02.2015, i che le considerazioni da ultimo svolte circa l’ultima censura del primo motivo svolta in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c, valgono anche per la seconda censura del secondo motivo, il quale, peraltro, è infondato quanto alla prima censura, avendo i giudici di secondo grado analiticamente e motivatamente vagliato tutte le risultanze istruttorie per pervenire alla decisione oggetto del giudizio di legittimità;
peraltro, la formulazione del motivo appare, all’evidenza, teso ad ottenere un nuovo esame del merito, precluso in questa sede; che il terzo motivo non è fondato, in quanto non si comprende perché le spese dei gradi di merito dovessero essere poste a carico dei resistenti, posto che i medesimi erano risultati vittoriosi in entrambi i gradi. La compensazione delle spese operata dalla Corte di Appello è, anzi, più favorevole alla P., rimasta soccombente sia in primo che in secondo grado;
che per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va respinto;
che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;
che nulla va disposto per le spese, nei confronti di S.T.F., rimasta intimata;
che non sussistono, allo stato, i presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (stante all’ammissione al gratuito patrocinio)
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della non sussistenza, allo stato, dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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