CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 febbraio 2020, n. 4647
Tributi – Accertamento – Partecipazione a frode fiscale – Fatture per operazioni inesistenti – Maggior reddito – Ius superveniens – Art. 8, co. 2, D.L. n. 16 del 2012 – Detrazione ricavi addebitati corrispondenti ai costi disconosciuti
Rilevato che
– La Commissione tributaria provinciale di Padova respinse il ricorso proposto da C.P., titolare della ditta individuale A., contro l’avviso di accertamento, relativo all’anno di imposta 2000, notificatole il 13.2.2009 dall’Agenzia delle Entrate, con il quale:
– sulla scorta di un p.v.c. redatto dalla Polizia Tributaria in cui si addebitava alla contribuente di aver partecipato ad una vasta frode fiscale, realizzata attraverso il ricevimento di fatture per operazioni inesistenti – era stato rettificato il reddito da lei dichiarato ai fini Irpef, Irap ed IVA, con conseguente richiesta di pagamento delle maggiori imposte dovute e delle conseguenti sanzioni.
– La Commissione tributaria regionale del Veneto, investita dell’appello della P., ha rigettato i motivi di impugnazione da questa illustrati nell’atto introduttivo del gravame, ma ha ritenuto meritevole di accoglimento la richiesta, formulata dall’appellante in udienza, di applicazione dell’art. 8 comma 2 d.l. 16/2012, il quale prevede che, nel caso di disconoscimento dei costi d’acquisto delle merci, debbano essere detratti dal reddito imponibile accertato i corrispondenti ricavi, con riduzione delle relative sanzioni.
– La sentenza, pubblicata il 2.12.2013, é stata impugnata da C.P. con ricorso per cassazione, affidato a due motivi, cui l’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.
Considerato che
– Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 43, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, e 57, comma 3, d.P.R. n. 633 del 1972, lamentando che la CTR abbia respinto l’eccezione, da lei riproposta in appello, di decadenza dell’amministrazione dal proprio potere impositivo, ritenendo erroneamente che ricorressero le condizioni per l’operatività del raddoppio dei termini per l’accertamento previsto dalle disposizioni predette, senza accertare concretamente se l’amministrazione fosse obbligata a presentare denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p.
– Il motivo è inammissibile.
– Va premesso che, come statuito dalla Corte Costituzionale evocata in ricorso (sentenza n. 247 del 2011), l’unica condizione per il raddoppio dei termini dell’accertamento è costituita dalla sussistenza dell’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorga ed indipendentemente dal suo adempimento, sicché “il raddoppio dei termini consegue al mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale” ed “il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento” (Cass. n. 13483 del 2016; Cass. n. 11171 del 2016);
– La CTR, ancorché con motivazione stringata, ha senz’altro compiuto l’accertamento in questione, rilevando che il rinvio a giudizio della P., e la sua successiva condanna, giustificavano l’applicazione del raddoppio dei termini previsto dall’art. 43, comma 2 bis, d.P.R. n. 600 del 1973: la statuizione è infatti chiaramente fondata sul presupposto (dato per scontato) della coincidenza fra i fatti contestati nell’avviso impugnato e quelli oggetto di imputazione, di per sé sufficiente (stante l’avvenuta instaurazione del processo penale) a dimostrare l’obbligo di denuncia dell’amministrazione.
– La ricorrente, pertanto, anziché dolersi di un insussistente vizio di violazione di legge, avrebbe eventualmente potuto denunciare sul punto un vizio di motivazione, contestando (mediante la specifica indicazione dei capi di imputazione per i quali ha riportato condanna e l’allegazione al ricorso della relativa sentenza) che vi fosse coincidenza fra la fattispecie tributaria e quella penale.
– Con il secondo motivo P. deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, la nullità della sentenza d’appello, lamentando che la CTR si sia limitata a dichiarare applicabile l’art. 8, comma 2, d.l. n. 16 del 2012, senza statuire interamente sull’oggetto del contendere, ovvero senza adempiere al proprio dovere sostitutivo, che le imponeva di ricalcolare imposte evase e sanzioni.
– Il motivo è fondato.
– Va premesso che la CTR, pur emettendo un dispositivo errato e palesemente incongruo, con il quale ha “respinto” l’appello e per l’effetto “confermato” la sentenza impugnata “con la limitazione richiesta in fase dibattimentale dal difensore”, ha in realtà, come si evince chiaramente dalla lettura della motivazione, riformato in parte la prima decisione (che, respingendo integralmente il ricorso, aveva statuito la piena legittimità dell’atto impositivo), in quanto ha accolto la richiesta della ricorrente di applicazione dello ius superveniens ed affermato che dall’imponibile accertato andavano detratti i ricavi addebitati nonostante il disconoscimento dei costi corrispondenti, con conseguente riduzione delle relative sanzioni.
– L’accoglimento di tale ragione di doglianza comportava pertanto, oltre che una pronuncia di annullamento dell’avviso impugnato (che può, peraltro, ritenersi implicitamente emessa laddove il giudice ha “confermato” la sentenza della CTP “con la limitazione richiesta in fase dibattimentale”) il ricalcolo dell’imponibile, delle imposte evase e delle sanzioni.
– Infatti, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte, “Dalla natura del processo tributario – il quale non è annoverabile tra quelli di impugnazione-annullamento, ma tra i processi di impugnazione-merito, in quanto non è diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio – discende che ove il giudice tributario ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte” (cfr., ex multis, Cass. n. 15825 del 2006; Cass. n. 13034 del 2012; Cass. n. 6918 del 2013; Cass. n. 24611 del 2014).
– La CTR, pertanto, una volta ritenuta la parziale infondatezza della pretesa fiscale, anziché pronunciare una sentenza priva di contenuto precettivo certo, attuale e concreto, avrebbe dovuto esercitare la propria valutazione di merito sostitutiva dell’atto impositivo, “che è oggetto dei poteri del giudice tributario oltre che suo preciso dovere istituzionale” (cfr. Cass. n. 26157 del 2013).
– L’accoglimento del motivo comporta la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio della causa alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione, che procederà ad effettuare gli accertamenti omessi e liquiderà anche le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Respinge il primo ed accoglie il secondo motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Veneto anche per le spese.
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