CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 febbraio 2022, n. 5655
Licenziamento collettivo – Obbligo di comunicazione – Omessa informazione su trasferimenti ed esuberi – Cessazione dell’attività – Scelta dell’imprenditore – Espressione dell’esercizio incensurabile della libertà di impresa
Rilevato che
1. Con la sentenza n. 939 del 2020 la Corte di appello di Roma ha rigettato il reclamo di W.A.I. avverso la sentenza del Tribunale di Roma resa in sede di opposizione all’ordinanza di reiezione del ricorso del lavoratore inteso all’accertamento della illegittimità del licenziamento intimato da A.C. s.p.a. all’esito di procedura di licenziamento collettivo.
2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso W.A.I. sulla base di tre motivi. La Società ha resistito con tempestivo controricorso.
Considerato che
3. I motivi di ricorso:
3.1. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 4, comma 3, legge n. 223 del 1991 in relazione all’omessa informazione su trasferimenti ed esuberi sul territorio nazionale e sugli strumenti di integrazione salariale. La motivazione contraddittoria e apparente e la falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. integrante nella sostanza una omessa pronuncia.
Deduce il ricorrente che la Corte di appello, pur rammentati i principi che attengono alla corretta osservanza degli obblighi di comunicazione gravanti sull’imprenditore nella fase iniziale della procedura, non aveva poi sussunto la fattispecie concreta in quella astratta così ricostruita, con specifico riguardo all’affermazione per cui il trasferimento del personale in esubero presso altri siti, seppure possibile, non doveva essere comunicato perché non sarebbe stato praticabile per ragioni tecnicoorganizzative, mentre ben poteva l’imprenditore proporre la possibilità del trasferimento (nei limiti di 75 unita complessive) in sede di comunicazione del licenziamento. Sostiene che tale ragionamento sussuntivo sarebbe inesatto in quanto la possibilità di praticare dei trasferimenti collettivi doveva costituire oggetto di comunicazione preventiva così da consentire un esame congiunto con le 00.SS., come misura idonea ad evitare il licenziamento e rammenta che questo era quello che era avvenuto per il sito di Palermo.
3.2. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione dell’art. 4 commi 3 e 9 e dell’art. 5 della legge n. 223 del 1991 e si deduce che i criteri di scelta diversi da quelli legali non possono essere comunicati nella dichiarazione di apertura della procedura di licenziamento collettivo e non si possono in quella sede già individuare le persone da licenziare. Inoltre, la limitazione al sito di Roma, così come applicata nel caso in esame, sarebbe illogica e irrazionale e non consentirebbe di derogare ai criteri legali di scelta. Deduce inoltre il ricorrente che la sentenza avrebbe trascurato di pronunciare sulla questione che pure era stata sottoposta al suo esame dell’avvenuto trasferimento prima dello scadere del termine di 120 giorni dalla chiusura della fase di consultazione di alcune lavoratrici madri che risultavano avere un punteggio inferiore rispetto a quello del ricorrente.
3.3. Con il terzo motivo di ricorso è denunciata la nullità della sentenza per avere la Corte di appello omesso di pronunciare su tutta la domanda ed essere incorsa nella violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 cod. civ. e dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 oltre che degli artt. 4 commi 3 e 9 e 5 comma 1 della legge n. 223 del 1991. Deduce il ricorrente che la Corte di merito avrebbe trascurato di valutare che quale team leader poteva essere comparato con i sette lavoratori addetti alla gestione dei collaboratori della business unit “ricerche di mercato” dei quali era stato chiesto di provare incidentalmente la natura subordinata del rapporto.
4. Va preliminarmente rilevato che questa Corte si è già espressa sulla legittimità della procedura collettiva ex lege n. 223 del 1991, attivata da A.C. s.p.a. con comunicazione in data 5 ottobre 2016 (cfr tra le tante e con riguardo alle numerose questioni poste anche dal presente contenzioso Cass. n. 12044 del 2021, 14677 del 2021, 15124 del 20121, 15123 del 2021, 14673 del 2021, 12040 del 2021, 12041 del 2021, 12042 del 2021 e recentemente ancora Cass. n. 34023 del 2021) ed ai principi esposti in tali pronunce questa Corte intende dare continuità non essendo state prospettate ragioni che inducano a rivedere l’orientamento espresso.
4.1. In linea generale va ricordato che nei precedenti richiamati si è premesso, con argomentazione integralmente condivisa da questo Collegio, che per principio consolidato la cessazione dell’attività è scelta dell’imprenditore, espressione dell’esercizio incensurabile della libertà di impresa garantita dall’art. 41 Cost. (Cass. n. 29936/2008) e che la procedimentalizzazione dei licenziamenti collettivi che ne derivino, secondo le regole dettate per il collocamento dei lavoratori in mobilità dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991, applicabili per effetto dell’art. 24 della stessa legge, ha la sola funzione di consentire il controllo sindacale sulla effettività di tale scelta (Cass. n. 22366 del 2019 e n. 5700 del 2004) con un controllo dell’iniziativa imprenditoriale concernente il ridimensionamento dell’impresa, controllo devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi di riduzione del personale, ma la correttezza procedurale dell’operazione (compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso) con la conseguente inammissibilità, in sede giudiziaria, di censure intese a contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5, senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, che investano l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva (Cass. 26/11/2018 n. 30550).
4.2. In applicazione di tali principi sono state respinte le censure che investivano sotto vari profili la legittimità della complessiva operazione attuata da A.C., s.p.a.. Questa, dopo una prima procedura, avviata con la comunicazione del 21 marzo 2016, riguardante 2.988 lavoratori in esubero dislocati presso le sedi di Palermo, Roma e Napoli e revocata per accordo con le organizzazioni sindacali il 31 maggio 2016, ha aperto la procedura in esame, a seguito di un peggioramento della crisi nei siti di Roma e Napoli. Nella comunicazione di apertura del 5 ottobre 2016, ha illustrato le ragioni che rendevano necessario il licenziamento di 1.666 lavoratori delle Divisioni 1 e 2 di Roma e di tutti gli 845 dell’unità produttiva di Napoli, con applicazione dei criteri di scelta per comparazione del personale operante con profilo equivalente all’interno di ciascuno dei predetti siti interessati dagli esuberi così limitandone la platea alle due divisioni romane e all’unità produttiva partenopea e applicando i criteri di scelta per comparazione del personale operante con profilo equivalente all’interno di ciascuno dei siti.
5. Tanto premesso, in relazione ai singoli profili di censura proposti con i motivi del presente ricorso per cassazione si osserva che nel caso in esame la Corte d’appello, con argomentazione congrua, articolata e attenta ad ogni sviluppo della fase negoziale – così risultando la sua interpretazione insindacabile in sede di legittimità – condividendo l’iter argomentativo del primo giudice, ha configurato la conclusione dell’accordo della società datrice con le organizzazioni sindacali sulla “limitazione di applicazione dei criteri legali alle sole sedi da sopprimere di Roma e di Napoli, meglio specificandolo come “legittima determinazione di criteri di scelta diversi da quelli stabiliti per legge, e, in particolare, il legittimo rilievo soltanto alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, senza considerare i criteri del carico di famiglia e dell’anzianità di servizio, così limitando la scelta ad un solo settore o ad una sola o più sedi e non con riferimento a tutti i dipendenti in servizio nell’azienda”, in corrispondenza con quanto comunicato nella lettera di apertura. Tale operazione è stata effettuata in applicazione del principio, di cui agli artt. 5 e 24 legge n. 223/1991 (in base ai quali i criteri di selezione del personale da licenziare, ove non predeterminati secondo uno specifico ordine stabilito da accordi collettivi, devono essere osservati in concorso tra loro), il quale, se impone al datore di lavoro una valutazione globale dei criteri di scelta, non esclude tuttavia che il risultato comparativo possa essere quello di accordare prevalenza ad uno e, in particolare, alle esigenze tecnicoproduttive, essendo questo il criterio più coerente con le finalità perseguite attraverso la riduzione del personale: sempre che naturalmente una scelta siffatta trovi giustificazione in fattori obiettivi, la cui esistenza sia provata in concreto dal datore di lavoro e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie (Cass. 06/05/2021 n. 12040 cit., Cass. 19/05/2006 n. 11886). Inoltre, la Corte d’appello ha ritenuto che tale accordo non fosse discriminatorio, né contrario a ragionevolezza (Cass. 20/03/2013 n. 6959).
Nel caso di specie, l’infungibilità delle mansioni è stata individuata nella peculiarità di ogni sito produttivo, in ragione delle commesse trattate ognuna esigente una diversa e specifica formazione dovendo il personale inbound avere una conoscenza della committente, tale da porlo in grado di rispondere alle domande della clientela telefonica, specificamente calibrate sul servizio reso, né può ritenersi che la Corte non si sia pronunciata sul ruolo di team leader di due delle lavoratrici coinvolte, come allegato, dovendo, invece, ritenersi la relativa questione assorbita dalle pregnanti considerazioni della Corte in relazione alla peculiarità del sito produttivo; e ciò per l’impossibilità di un agevole spostamento dei lavoratori dall’uno all’altro sito (e quindi da una popolazione professionale all’altra), senza l’attuazione di interventi formativi, organizzativi e logistici incompatibili con la situazione economica dell’azienda, in quanto insostenibili sul piano economico, produttivo e organizzativo, richiedendo tempi di attuazione e modifiche organizzative talmente complesse da compromettere il regolare svolgimento dei servizi finendo per aggravare ulteriormente la situazione di squilibrio strutturale in cui versava l’azienda. Non coglie quindi nel segno la censura di parte ricorrente circa la fungibilità delle mansioni, proprio in ragione della diversità delle commesse (in particolare, T., E., F.) implicanti conoscenze specifiche sicché, l’equivalenza delle mansioni, tale da configurare un mero passaggio indifferenziato tra lavoratori su diverse commesse, neppure risponde a un dato di realtà;
in ogni caso, esso costituisce accertamento in fatto, che il giudice di merito, cui è riservato in via esclusiva, ha compiuto dandone adeguato conto, in esatta applicazione dei principi di diritto enunciati: pertanto, esso è insindacabile in sede di legittimità.
5.1. Quanto alla mancata comparazione tra i team leaders questa Corte si è già occupata della questione ( cfr. Cass. n. 15124 del 2021 ed altre conformi v. n. 31139 del 2021) ed ha ritenuto che l’adozione (comunicata sia in sede di apertura che di chiusura della procedura di mobilità, a norma dell’art. 4, terzo e nono comma L. n.223/1991: Cass. 28/10/2009 n. 22825) di un criterio (puntualmente indicato anche nelle modalità applicative, oltre che nell’individuazione dei criteri di selezione del personale, anche nella specificazione del suo concreto modo di operare (Cass. 19/09/2016 n. 18306 e 10/10/2018 n. 25100), diverso da quelli legali operanti sull’intero complesso aziendale, consistente nelle esigenze tecnico-produttive e organizzative, è legittimo perché rispondente a requisiti di obiettività e razionalità (Cass. 20/02/2013 n. 4186, 28/03/2018 n. 7710 e 10/10/2018 n. 25100). Ed esso ne assorbe ogni altro, posto che, per effetto della deliberata chiusura delle due divisioni romane, tutti i lavoratori addetti ad esse sono stati licenziati, ad eccezione di quarantaquattro lavoratrici madri, per il divieto posto dall’art. 54 d.lgs. n.151/2001.
5.2. Non sussiste la pretesa nullità della sentenza per omesso esame di un punto decisivo della controversia (rectius per violazione degli artt. 4 e 5 della L. n.223 del 1991) atteso che le questioni dell’apertura della procedura e dell’applicazione dei criteri di scelta sono state ampiamente esaminate dal giudice d’appello, con statuizioni corrispondenti ai principi più volte enunciati da questa Corte e già richiamati in questa motivazione.
6. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 4000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.