CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 maggio 2020, n. 9326
Tributi – IVA – Detrazione – Società consortile per l’esercizio di attività agricole, con finalità mutualistiche – Legittimo affidamento
Rilevato che
Con sentenza n. 105/4/10 del 28 settembre 2010, depositata il 16 novembre 2010 la Commissione tributaria regionale del Veneto accoglieva parzialmente l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate, ufficio locale, avverso la sentenza n. 209/09/2007 della Commissione tributaria provinciale di V. che aveva parzialmente accolto il ricorso della I. srl contro l’avviso di accertamento per II.DD. ed IVA 2003.
La CTR, nella parte che qui rileva, osservava in particolare che non poteva essere accolto il gravame agenziale in punto detrazione IVA delle fatture passive emesse dalla P. srl, perché ad essa doveva essere riconosciuta la qualità di “società consortile” per l’esercizio di attività agricole, con finalità mutualistiche, come identificate nello statuto e peraltro incontestate in tre precedenti verifiche fiscali, così ingenerandosene un “legittimo affidamento” nella contribuente.
Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione I’ Agenzia delle entrate deducendo tre motivi.
Resiste con controricorso la società contribuente.
Considerato che
Con il terzo motivo, che va esaminato prioritariamente per la sua potenzialità dirimente, – ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. – l’agenzia fiscale ricorrente lamenta la violazione/falsa applicazione degli artt. 2602, 2615-ter, cod. civ., 19, d.P.R. 633/1972 nonché 53, Cost. e dei principi generali che vietano l’abuso del diritto nella materia tributaria, poiché la CTR ha affermato la sussistenza della “causa consortile” nell’attività della P. srl e quindi, in ultima analisi, ha affermato l’ inerenza ai fini IVA delle operazioni passive registrate dalla I. srl, quale acquirente delle carni macellate (pollame) prodotte dalla prima.
La censura, anche in disparte dei profili di inammissibilità della stessa eccepiti dalla controricorrente, è infondata.
Risulta pacifico in fatto che la P. srl è società consortile costituita dalla A.B.M. (85%) e dalla I. srl (15%) e che lo schema operativo delle tre società era nel senso che la prima acquistava pulcini che allevava utilizzando i mangini fornitile dalla seconda e che, previa macellazione, poi cedeva alla terza, la quale poi vendeva la carne sul mercato.
Va poi rilevato che la ripresa fiscale de qua riguardava fatture emesse dalla P. nei confronti della I. nel 2003 per “conguaglio” sui prezzi delle forniture di carni del 2002, in considerazione della natura consortile del rapporto, essendo peraltro, come detto, tale natura contestata dall’Agenzia delle entrate, ufficio locale.
Ciò, in generale per la tipologia di attività economica della P., ritenuta come parte di una “filiera” produttiva, in particolare per l’assenza di un contratto tra le parti e di “valide ragioni economiche” giustificatrici dei “ristorni”.
La CTR veneta ha puntualmente riscontrato in fatto tali argomenti, osservando che:
– unico cliente della P. era la I.;
– che lo statuto della P. prevedeva espressamente ed univocamente la “causa consortile” della sua costituzione, essendo il suo scopo quello di esercitare attività agricole (allevamento di bestiame) nell’esclusivo interesse delle società partecipanti consorziate (A.B.M. ed I.);
– che conseguentemente la PAI, fin dalla sua costituzione, aveva trasferito i suoi risultati di gestione, sia positivi che negativi, alle consorziate, secondo le rispettive quote partecipative.
Tali accertamenti di fatto non possono essere revisionati in questa sede, secondo i consolidati principi di diritto che «Con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità» (Cass., n. 29404 del 07/12/2017, Rv. 646976 – 01); «Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione» (Cass., n. 9097 del 07/04/2017, Rv. 643792 – 01).
Ciò posto, va altresì, in diritto, rilevato che la sentenza impugnata è del tutto conforme all’ulteriore consolidato principio di diritto che «Il consorzio costituito per gli scopi previsti dall’art. 2602 c.c., non potendo avere per sé alcun vantaggio, in quanto lo stesso, al pari dell’eventuale svantaggio, appartiene unicamente e solo alle imprese consorziate, ha l’obbligo di ribaltare sulle stesse, secondo i criteri di legge o quelli legittimamente fissati dallo statuto, se non elusivi della causa consortile e delle relative norme fiscali, tutte le operazioni economiche realizzate da una o più imprese consorziate, oppure dallo stesso consorzio con strutture proprie o con impiego di imprese terze, sicché le singole consorziate sono tenute ad emettere fattura – ai fini IVA – nei confronti del consorzio in proporzione della quota consortile, per il ribaltamento dei proventi delle commesse ad essa attribuiti, nonché autofattura, in proporzione della quota consortile, per il ribaltamento dei relativi costi» (Cass., n. 13360 del 17/05/2019, Rv. 653867 – 01).
Tali accertamenti in fatto e le conseguenze giuridiche che ne sono state tratte inducono poi a ritenere che il giudice tributario di appello, almeno per implicito, abbia comunque escluso l’applicabilità ex officio del principio generale antiabuso.
Il rigetto del terzo motivo implica l’inammissibilità del primo e del secondo motivo del ricorso agenziale, secondo il principio che «Qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle “rationes decidendi” rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa» (Cass., n. 2108 del 14/02/2012, Rv. 621882 – 01; conforme, da ultimo, Cass., n. 11493 del 11/05/2018, Rv. 648023 – 01).
In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna l’agenzia fiscale ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.600 oltre 15% per contributo spese generali ed accessori di legge.
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