CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 maggio 2020, n. 9337
Tributi – Indagini bancarie – Conti correnti intestati al contribuente – Necessità di autorizzazione per le indagini – Esclusione
Rilevato che
– in esito a una verifica corredata di indagini bancarie l’Agenzia delle entrate recuperò, in relazione all’anno d’imposta 2004, maggiore materia imponibile ai fini dell’irpef, dell’iva e dell’irap nei confronti di T. B. e il contribuente impugnò il relativo avviso di accertamento, ottenendo in primo luogo la riduzione in sede di autotutela dell’importo dei maggiori ricavi, pari alla differenza tra l’importo indicato nell’avviso e quello giustificato, e correlativamente dell’importo dei costi deducibili;
– la Commissione tributaria provinciale di Verona accolse comunque parzialmente il ricorso, limitatamente a quattro ulteriori movimenti, che ritenne fiscalmente irrilevanti perché ritenuti giustificati;
– la Commissione tributaria regionale del Veneto ha respinto l’appello principale proposto da B. e ha accolto quello incidentale proposto dall’Agenzia in relazione a due delle quattro movimentazioni bancarie ritenute giustificate dal giudice di primo grado;
– a sostegno della decisione, il giudice d’appello ha anzitutto respinto l’eccezione di nullità della notificazione compiuta da messo comunale, sia per mancanza di prova dell’irregolarità della nomina, sia in ragione della validità degli atti, del funzionario di fatto; ha poi escluso l’esistenza di elementi idonei far ritenere l’insussistenza dell’autorizzazione allo svolgimento delle indagini bancarie o comunque l’irregolarità di essa; ha sottolineato che la natura dell’accertamento non richiedeva la redazione di un processo verbale di chiusura delle operazioni, in mancanza di verifiche o di ispezioni nei locali del contribuente; ha rimarcato che i conti correnti considerati sono soltanto quelli intestati al contribuente e che, a fronte delle presunzioni legali, il contribuente non è stato in grado di spiegare analiticamente tutti i movimenti a lui riferibili; ha, infine, escluso la fondatezza della censura relativa al fatto che per l’anno in questione sarebbero stati emessi due avvisi di accertamento;
– contro questa sentenza propone ricorso il contribuente, che affida a tre motivi, che illustra con memoria, cui l’Agenzia delle entrate replica con controricorso.
Considerato che
– inammissibile è il primo motivo di ricorso, col quale il contribuente deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 273 del T.U.L.L. comunali e provinciali del 1934, là dove il giudice d’appello ha fatto leva sulla circostanza che il ricorrente non avrebbe offerto la prova che il messo non avesse giurato nelle mani del prefetto; non è stata difatti censurata l’altra ratio sulla quale poggia la statuizione della Commissione tributaria regionale, calibrata sulla validità degli atti del funzionario di fatto;
– inammissibile è altresì il secondo motivo di ricorso, col quale T.B. denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 7, comma 1, dello statuto dei diritti del contribuente, dell’art. 42 del d.P.R. n. 600/73, nonché dell’art. 56 del d.P.R. n. 633/72, sostenendo che l’avviso di accertamento fosse contraddittoriamente motivato, là dove imputava a redditi d’impresa i pretesi ricavi della società N.L.L. s.r.l., con la quale, invece, il ricorrente è in rapporto di lavoro dipendente; ciò perché, dietro lo schermo della violazione di legge, in realtà si censura un’insufficienza della motivazione del giudice d’appello, inibita dall’applicabilità, ratione temporis, del nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.;
– infondato è il terzo motivo di ricorso, col quale il contribuente denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600/73, là dove la Commissione tributaria regionale ha escluso che la previa notifica in relazione al medesimo anno d’imposta 2004 di altro avviso di accertamento fondato sul c.d. redditometro abbia determinato, quanto al secondo avviso, che è quello del quale si discute, la violazione del divieto di doppia imposizione;
– è la stessa prospettazione della parte a evidenziare l’infondatezza della censura, giacché il contribuente riferisce che il primo avviso è stato basato sul redditometro e prevedeva la possibilità di avviso integrativo giustappunto evocando le indagini bancarie, laddove il secondo, ossia quello del quale si discute, è stato originato dagli accertamenti bancari e, quindi, dagli elementi da essi ritraibili, nuovi rispetto a quelli ricavabili dal redditometro;
– la distinta questione della motivazione di questo secondo avviso, con l’indicazione dei nuovi elementi e della differenza tra la maggiore imposta emersa dalle indagini bancarie e quella risultante dall’applicazione del redditometro, postula un accertamento di fatto, che è invece dato per scontato dal contribuente e che è inibito al giudice di legittimità compiere; d’altronde, il contribuente non trascrive il contenuto dei due avvisi, al fine di consentire a questa Corte di poter apprezzare che effettivamente vi fosse la doppia imposizione lamentata;
inoltre, va ribadito che oggetto del processo tributario è l’accertamento della legittimità della pretesa tributaria in quanto avanzata con l’atto impugnato ed alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in tale atto indicati;
– sicché, in sede di impugnazione di un avviso di accertamento integrativo, il giudice tributario è chiamato a pronunciarsi esclusivamente sulla legittimità della pretesa avanzata con tale avviso e non può ritenerne l’illegittimità sulla base della ritenuta contraddittorietà con altro precedente avviso: il difetto logico idoneo ad inficiare l’atto impugnato non potrebbe che essere intrinseco all’atto stesso, senza possibilità di estendersi ad atti non oggetto di impugnazione e, peraltro, senza che il mancato – previo – esercizio dell’autotutela da parte dell’amministrazione in relazione ad atto diverso da quello impugnato possa rilevare e tanto meno costituire valida motivazione per l’annullamento dell’atto oggetto di impugnazione (Cass. 19 marzo 2009, n. 6620);
– il motivo va in conseguenza respinto;
– ne discende il rigetto del ricorso;
– le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il contribuente a pagare le spese, che liquida in euro 5600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.
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