CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 marzo 2019, n. 8012
TFR – Compensi da liquidatore – Dichiarazione di rinuncia – Istanza di rimborso per somme versate a titolo di ritenuta d’acconto
Rilevato che
la B. s.p.a. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 1137/18/2014, depositata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia il 4.03.2014, che, a conferma della decisione di primo grado, rigettava il ricorso introduttivo della società avverso il silenzio rifiuto della Agenzia, formatosi sull’istanza di rimborso della somma di € 25.414,20.
Ha riferito che la società P. & M. s.r.l. aveva versato la ritenuta d’acconto sul TFR spettante all’ing. B. quale dirigente della società sino al 22.07.2002 e sui compensi sempre a questo spettanti quale liquidatore della società, incarico mantenuto sino al 28.02.2003. Poiché tuttavia il B. non aveva materialmente incassato né il trattamento di fine rapporto né i compensi da liquidatore, rimettendo anzi il debito alla società con dichiarazione di rinunzia espressa il 24.06.2004, la società in data 14.07.2006 aveva presentato alla Agenzia istanza di rimborso delle somme versate a titolo di ritenuta d’acconto, cui l’Ufficio non aveva dato riscontro. Con successivo atto del 27.07.2007 la P. & M. aveva ceduto alla B. s.p.a. i suoi crediti fiscali litigiosi, tra cui quello relativo all’istanza di rimborso, per il quale la cessionaria reiterava la domanda, cui l’Agenzia rispondeva il 29.10.2010 con espresso diniego per carenza di prova sulla avvenuta rinuncia alla percezione dei compensi.
Era seguito il contenzioso, esitato dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano nella sentenza n. 94/41/2012, che rigettava il ricorso, e nella sentenza ora al vaglio della Corte, che respingeva l’appello della contribuente. In sintesi il giudice regionale rigettava la domanda affermando che non vi era prova che il B. avesse rinunciato ai propri crediti di lavoro né che la società non avesse corrisposto il TFR e i compensi.
La società censura con due motivi la pronuncia:
con il primo per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cc, nonché degli artt. 1236 c.c. e 1 della I. n. 4 del 1953, perché erroneamente il giudice regionale avrebbe negato la prova della rinuncia del B. alla liquidazione del TFR e del compenso da liquidatore, emergente invece dalla remissione del debito ex art. 1236 c.c.; con il secondo per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 212 c.p.c., 2711 e 2709 c.c., nonché dell’art. 1 co. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., per il malgoverno dei principi che presidiano l’onere di distribuzione della prova, ricadendo in ogni caso sul giudice il dovere di integrare l’attività istruttoria ove ritenuta insufficiente quella agli atti.
Ha chiesto dunque la cassazione della sentenza con ogni conseguente statuizione.
L’Agenzia si è costituita, eccependo l’inammissibilità dei motivi, perché con essi, pur invocando l’errore di diritto, la società pretende un nuovo giudizio di merito. In ogni caso ha contestato il fondamento delle censure, chiedendo il rigetto del ricorso.
La società ha tempestivamente depositato memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.
Considerato che
esaminando preliminarmente l’eccepita inammissibilità dei motivi articolati dalla società, che l’Agenzia riconduce ad un tentativo di riesame del merito della vicenda, essa è infondata. Le censure articolate dalla contribuente denunciano un malgoverno dei principi prescrittivi sull’efficacia delle prove (1236 e 2697 c.c.) e della distribuzione dell’onere probatorio (2697 c.c.), nonché dei poteri istruttori dell’autorità giudiziaria (212, 2709, 2711 c.p.c.), correttamente collocandosi nell’alveo dell’errore di diritto.
Nel merito i motivi sono infondati.
Con il primo la contribuente lamenta l’erronea attribuzione di «mera dichiarazione priva di pregio giuridico e per questo probatorio» alle dichiarazioni di remissione del debito trasmesse dal B. alla P. & M., laddove, secondo la difesa della contribuente, esse costituiscono un negozio abdicativo del proprio diritto a mezzo di un atto unilaterale recettizio, con valenza probatoria, a fronte della quale sarebbe spettato alla Agenzia la prova contraria.
L’affermazione, suggestiva, è errata.
È indiscusso che, nell’ambito dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, la dichiarazione di remissione del debito ex art. 1236 c.c. sia strutturata quale negozio unilaterale recettizio relativamente al quale la dichiarazione “a parte creditoris” si presume accettata dal debitore, e produce pertanto i suoi tipici effetti estintivi dal momento in cui la comunicazione perviene a conoscenza della persona alla quale è destinata (art. 1334 cod. civ.), a meno che questa, conosciuta la volontà remissiva, non dichiari entro un termine congruo di ricusarla e quindi di non volerne profittare; ed è altrettanto incontestabile che i suoi effetti non possono essere disconosciuti dal creditore, una volta che egli stesso abbia manifestato l’intento abdicativo al debitore (Cass., sent. n. 2021/1995; 5260/1983).
E tuttavia la costruzione giuridica della remissione del debito come atto unilaterale recettizio che ha effetti estintivi del debito, riversandosi quanto alle sue conseguenze processuali nell’alveo della efficacia probatoria tra le parti del rapporto, non si riflette, con altrettanta efficacia processuale, nei confronti di un terzo creditore, estraneo al rapporto remissivo e che al contrario trae titolo del suo credito proprio dalla conservazione del rapporto creditorio tra remittente e debitore beneficiato. È il caso della Amministrazione finanziaria, nei cui confronti, una volta che sia stato dichiarato un debito fiscale che trovi causa nella ricchezza trasferita da un soggetto, obbligato alla trattenuta a titolo di acconto, ad altro soggetto, cui quel credito spetta, non può essere sufficiente l’atto unilaterale recettizio di rinuncia al credito a costituire prova del venir meno del presupposto impositivo. Ne consegue che ai fini processuali resta sempre a carico del debitore fiscale, ancorchè nella qualità di sostituto d’imposta e, per l’ipotesi di cessione del presunto credito d’imposta litigioso, a carico del cessionario, offrire la prova del venir meno dell’operazione assoggettabile ad imposta.
Ciò chiarito, il giudice regionale, evidenziando la carenza documentale e in particolare la mancata allegazione dei bilanci sociali e dei libri contabili obbligatori, ha ritenuto che la documentazione allegata non fosse sufficiente a provare quanto preteso dalla società ricorrente con un percorso argomentativo che, superato il rilievo del motivo di censura fondato sulla supposta -ma infondata- valenza probatoria della dichiarazione di remissione, è coerente e logico. Né assume rilievo l’ulteriore specifica censura sulla valenza probatoria delle schede contabili e dei cedolini, perché sotto tale profilo il motivo non coglie nel segno. Il giudice regionale ha infatti evidenziato i limiti probatori dei suddetti documenti, alla luce della mancata allegazione della documentazione ritenuta più assorbente e significativa, denunciando in ogni caso la contraddittorietà dei dati da questi evincibili. Dunque non ha tratto da essi il proprio convincimento ma, al contrario, ne ha decretato l’ininfluenza rispetto alla prospettazione difensiva della ricorrente. Ciò in una valutazione complessiva della documentazione agli atti. Nessun erroneo malgoverno dei principi sulla prova è dunque possibile evincere anche da quei passaggi della motivazione della sentenza impugnata. Né a questo punto è dato al giudice di legittimità rivalutare le prove, perché trattasi di attività riservata al giudice di merito.
È infondato anche il secondo motivo, con il quale la ricorrente pretende che la documentazione allegata, costituendo evidentemente quanto meno un principio di prova favorevole alla società, avrebbe dovuto obbligare il giudice ad acquisire, ex art. 212 c.p.c. e 2711 c.c., ulteriore utile documentazione. A parte che il dato letterale delle norme invocate evidenzia la discrezionalità e non l’obbligo per il giudice di disporre l’acquisizione dei documenti ivi menzionati, vi è che sulla base di quanto già agli atti, e di quanto la ricorrente interessata avrebbe potuto produrre e non ha inteso fare, il giudice d’appello ha ritenuto di esprimere il suo giudizio, con corretto governo dei principi sulla prova.
In conclusione il ricorso è infondato.
Ritenuto che
Il ricorso va rigettato e alla soccombenza della ricorrente segue la condanna alla rifusione delle spese processuali del giudizio di legittimità, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo. Sussistono i presupposti per porre a carico della ricorrente soccombente il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la società al pagamento in favore della Agenzia delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 3.000,00 per compensi, € 200,00 per esborsi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis del medesimo art. 13.
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