CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 novembre 2022, n. 34181

Appalto – Interposizione di manodopera vietata – Dichiarazione della non genuinità – Accertamento – Costituzione di un rapporto di lavoro subordinato

Rilevato che

Con sentenza n. 2123 dell’11 dicembre 2017, la Corte d’appello di Milano ha confermato la decisione del locale Tribunale che, in accoglimento dell’eccezione preliminare di decadenza ai sensi dell’art. 32, comma 4, lett. d), L. n. 183/2010 sollevata dalla F. S.p.A., aveva respinto le domande proposte da A.G. e F.M. volte ad ottenere la dichiarazione della non genuinità dell’appalto intercorso fra  S.p.A. e F.T.I. s.r.l. previo accertamento di una interposizione di manodopera vietata e la conseguente costituzione di un rapporto di lavoro subordinato con la committente – originaria datrice di lavoro in particolare, la Corte, nel condividere l’iter argomentativo del primo giudice, secondo cui soltanto decorsi 553 giorni dall’impugnazione stragiudiziale era stato depositato il ricorso giudiziale, aveva ritenuto infondato l’argomento difensivo in base al quale l’impugnazione stragiudiziale del 14 gennaio 2015 non avrebbe dovuto essere considerata in ragione della mancanza dell’atto datoriale di risoluzione del rapporto di lavoro utile al decorso del termine decadenziale; per la cassazione della sentenza propongono ricorso A.G. e F.M., affidandolo ad un unico motivo; resiste, con controricorso, F. S.p.A.; entrambe le parti hanno presentato memorie.

Considerato che

Con l’unico motivo di ricorso si censura la decisione impugnata allegandosi la violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 4, lettera d), L. n. 183/2010 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ..

Deduce, in particolare, parte ricorrente, la possibilità di far decorrere il termine decadenziale di cui al richiamato art. 32 soltanto dal 25 ottobre 2015, data di cessazione del rapporto di lavoro con la H.T., società asseritamente interposta, non essendo ipotizzabile un precedente idoneo atto di recesso datoriale.

Il motivo è fondato e merita accoglimento.

Come già osservato da questa Corte, (cfr., sul punto, Cass. n. 30490 del 2021; si veda, altresì, Cass. n. 24337 del 2022) l’art. 32 della l. n. 183/2010 contiene, al primo comma, la nuova formulazione del primo e del secondo comma dell’art. 6 l. n. 604/1966 (Norme sui licenziamenti individuali) sull’impugnativa stragiudiziale del licenziamento, lasciando invariato il terzo comma, che prevede la competenza funzionale del giudice del lavoro per le controversie derivanti dall’applicazione della legge medesima.

Si prevede che il licenziamento debba essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore, anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. Il secondo comma dell’art. 6 l. n. 604/1966 stabilisce ora che l’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del Tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso.

La nuova articolata disciplina di impugnativa e decadenze, introdotta dall’art. 32, comma 1, si salda con le prescrizioni degli ulteriori commi – 2, 3 e 4 – che, in disparte il comma 1 -bis aggiunto successivamente, recano la previsione dell’estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 6 riformato. Così, in particolare, l’art. 32, comma 4, lett. d) della l. n. 183/2010 (ratione temporis applicabile al caso di specie) statuisce che: “Le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche: a) ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla scadenza del termine; b) ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge; c) alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’articolo 2112 del codice civile con termine decorrente dalla data del trasferimento; d) in ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’articolo 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto”.

Quella che rileva nel presente giudizio è la disposizione di cui al comma 4 lett.d). La questione che si pone è se una lettura della stessa in stretta correlazione con il comma 1 del medesimo art. 32 sia tale da richiedere anche in questo caso, ai fini dell’operatività del termine di decadenza, che vi sia una comunicazione scritta.

Questa Corte, nell’interpretare le disposizioni introdotte con l’art. 32 l. cit., ne ha configurato nel tempo un ambito di applicazione rigorosa, consapevole che le limitazioni al libero esercizio dell’azione, dovute all’introduzione d’un doppio e ristretto termine di decadenza (per l’impugnativa stragiudiziale e per la successiva azione in giudizio), hanno un carattere eccezionale (cfr. Cass. 25 maggio 2017, n. 13179 in motivazione; Cass., Sez. Un., n. 4913 del 2016).

In primo luogo, questa Corte, ritenuto imprescindibile che vi sia una comunicazione scritta da cui far decorrere il termine di decadenza, ha escluso l’operatività di detta decadenza in caso di licenziamento intimato oralmente (v. Cass 11 gennaio 2019, n. 523; Cass. 12 ottobre 2018, n. 25561; Cass. 9 novembre 2015, n. 22825).

Ed infatti, l’esistenza di una comunicazione scritta è uno degli elementi che caratterizzano l’applicazione della norma; non a caso, anche nell’ipotesi del trasferimento ex art. 2103 cod. civ. (pur estranea a quella di cessazione del rapporto di lavoro) è prevista la necessità di impugnare stragiudizialmente il provvedimento a pena di decadenza e di depositare il ricorso nel termine dettato anche per i licenziamenti.

È da ritenersi, dunque, che anche il comma 4 lett. d) dell’art. 32, comma 4, al pari del comma 3, estende l’onere di impugnativa stragiudiziale purché vi siano specifici provvedimenti datoriali, cioè “atti”, da contestare, in mancanza dei quali la decadenza non opera. Né può sostenersi, sempre con riferimento all’appalto, che il dies a quo per far decorrere il termine di decadenza possa essere individuato nell’esatta data di scadenza dell’appalto medesimo con l’impresa appaltatrice, vuoi perché una precisa data di scadenza ben può mancare, vuoi perché di essa il lavoratore – vale a dire il soggetto onerato dell’impugnativa – normalmente non è a conoscenza.

Né detto dies a quo può individuarsi nella data dell’eventuale licenziamento intimato dall’interposto nel rapporto di lavoro: tale licenziamento è giuridicamente inesistente perché proviene da soggetto diverso da quello che si assume essere il reale datore di lavoro (v. Cass. 6 luglio 2016, n. 13790; Cass. 11 settembre 2000, n. 119570).

Infatti, poiché l’azione per far valere la reale titolarità del rapporto non è un’azione costitutiva, ma dichiarativa, titolare ab origine del rapporto resta pur sempre il committente.

Per l’effetto, secondo l’orientamento di legittimità (cfr., Cass. n. 30490 del 2021 cit.), fin quando il lavoratore non riceva un provvedimento in forma scritta che neghi la titolarità del rapporto o comunque sia equipollente ad un atto di recesso, non può decorrere alcun termine decadenziale.

La necessità, ai fini dell’applicazione del suddetto termine decadenziale, di un provvedimento scritto da impugnare, è stata affermata da questa Corte a proposito del licenziamento orale già sotto il vigore del vecchio testo dell’art. 6, L. n. 604 del 1966 (in tal senso v. Cass. 29 novembre 1996, n. 10697), il che è stato poi ribadito anche dopo la riforma del citato art. 6 operata dal cit. art. 32 della legge n. 183/2010 (cfr. Cass. 9 novembre 2015, n. 22825; Cass. n. 523/2019 cit.). La necessità, ai fini dell’applicazione del termine decadenziale, di un provvedimento scritto da impugnare è ulteriormente confermata dalla previsione dell’art. 32, comma 3, lett. b), riferita al “recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto”, nonché dalla lett. c), concernente il “trasferimento ai sensi dell’articolo 2103 del codice civile”: in entrambi i casi si fa riferimento ad un provvedimento datoriale che si assume illegittimo; infatti, quanto alle previsioni del comma 4 dell’art. 32 cit. e, specificamente in relazione alla lett. c), questa Corte ha escluso l’applicazione del termine di decadenza alla domanda del lavoratore volta all’accertamento del passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario, limitando la suddetta previsione alle ipotesi “in cui il lavoratore contesti la cessione del contratto”, o meglio il passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario per effetto di un trasferimento d’azienda posto in essere dal suo datore di lavoro” (Cass. 4 aprile 2019, n. 9469; Cass. n. 13648/2019 cit.; Cass. n. 28750/2019 cit.; cfr. anche Cass. n. 13179/2017 cit. che ha escluso che sia assoggettata al termine di decadenza di cui all’art. 32 l’azione per l’accertamento e la dichiarazione del diritto di assunzione del lavoratore presso l’azienda subentrante nell’ipotesi di cambio di gestione dell’appalto con passaggio dei lavoratori all’impresa nuova aggiudicatrice).

Ancora con specifico riferimento al contratto di collaborazione a progetto, questa Corte ha precisato che qualora un simile rapporto si risolva per effetto della manifestazione di volontà del collaboratore di voler recedere dal rapporto, ovvero cessi per la sua naturale scadenza, l’azione per l’accertamento della subordinazione e la riammissione in servizio è esercitabile nei termini di prescrizione, senza essere assoggettata al regime decadenziale di cui all’art. 32, comma 3, lett. b) della legge n. 183 del 2010, poiché il regime in questione si applica al solo caso di “recesso del committente” e non è estensibile alle ipotesi in cui manchi del tutto un atto che il lavoratore abbia interesse a contestare o confutare” (Cass. 10 dicembre 2019, n. 32254; Cass. 25 novembre 2019, n. 30668); nella medesima pronuncia si è sottolineato come, anche là dove l’obbligo di impugnazione stragiudiziale è stato esteso all’accertamento della natura del rapporto intercorso tra le parti, ai sensi della lett. a) del terzo comma dell’art. 32 citato, ciò è avvenuto sempre in relazione ad atti di risoluzione del rapporto per volontà datoriale; la disposizione di cui alla lett. a) del comma 3 cit. è, difatti, formulata con riferimento a “licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro”, il che conferma la natura impugnatoria della disposizione in esame.

Gli esempi che precedono sono tutti di termine decadenziale decorrente o da atti scritti recettizi nei confronti del lavoratore oppure da un fatto appositamente tipizzato dal cit. art. 32 (scadenza del contratto di lavoro a tempo determinato).

Ritiene, quindi, il Collegio, conformemente al citato orientamento, che estendere analogicamente ad un “fatto” (la cessazione dell’attività del lavoratore presso il committente) una norma (l’art. 32 cit.) calibrata in relazione ad “atti” scritti e recettizi o ad un diverso e tipizzato fatto (scadenza del contratto a tempo determinato) incontra plurimi ostacoli. Il primo – insormontabile e già di per sé dirimente – risiede nel carattere eccezionale delle norme in tema di decadenza, in quanto tali non suscettibili di applicazione analogica. Il secondo consiste nell’aporia che si creerebbe rispetto all’impianto complessivo del combinato disposto degli artt. 6 legge n. 604/1966 e 32 legge n. 183/2010 e alla costante giurisprudenza di questa S.C. che, come già detto, ricollega il suddetto onere di impugnazione a provvedimenti datoriali scritti.

Il terzo si riscontra nell’obbligo per il giudice di adottare – fra più possibili interpretazioni – una che sia costituzionalmente conforme. Introdurre nuovi termini decadenziali per l’esercizio d’un dato diritto appartiene alla discrezionalità del legislatore: nondimeno essa non può esprimersi con modalità tali da determinare, nel bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti, il totale sacrificio o la compressione eccessiva di uno di essi, dovendosi invece tenere conto della proporzionalità dei mezzi rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare e delle finalità che si vogliano perseguire, considerate le circostanze e le limitazioni concretamente sussistenti (cfr., ex plurimis, Corte cost. n. 71 del 2015, n. 17 del 2011, n. 229 e n. 50 del 2010, n. 221 del 2008 e n. 1130 del 1988; ordinanza n. 141 del 2001).

Ora, per rispettare il nucleo irriducibile del diritto d’azione di cui all’art. 24 Cost. è necessario che qualunque suo ipotetico termine di decadenza venga configurato in modo tale che il dies a quo del suo decorso sia esattamente individuabile dal soggetto onerato, mentre nel caso in oggetto il lavoratore, finché non riceva una formale comunicazione, non sa se e quando cesserà definitivamente il proprio personale utilizzo (e/o quello di tutti gli altri suoi colleghi di lavoro) presso il committente.

Ammettere, invece, il decorso della decadenza anche in difetto duna formale comunicazione di cessazione di tale utilizzo renderebbe eccessivamente aleatorio l’esercizio del diritto d’azione del lavoratore, stante l’intrinseca difficoltà di identificarne con esattezza il dies a quo. Per di più tale difficoltà sarebbe acuita dalla brevità del termine (60 giorni), il che esclude che anche soltanto una porzione di esso possa essere erosa dal tempo necessario ad accertare l’effettiva definitività della cessazione dell’impiego presso il committente.

Infine, va ricordato che l’art. 39, comma 1, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, che prevede l’applicazione del termine di decadenza di 60 giorni e la sua decorrenza “dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l’utilizzatore”, è riferito alla sola somministrazione lavoro e non anche all’appalto illecito, sicché, sempre in virtù del carattere di stretta interpretazione delle norme sulla decadenza, non è suscettibile di estensione analogica.

Né è conferente al caso in esame il precedente di Cass. 13 settembre 2016, n. 17969 in tema di somministrazione irregolare, secondo cui per costituire il rapporto di lavoro direttamente in capo all’utilizzatore, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003, è onere del lavoratore impugnare il licenziamento nei confronti di quest’ultimo, posto che, in virtù del subentro disposto ex lege, gli atti di gestione compiuti dal somministratore producono nei confronti dell’utilizzatore tutti gli effetti negoziali, anche modificativi del rapporto di lavoro, ivi incluso il licenziamento: e non è conferente sia perché riferito alla somministrazione irregolare (e non all’appalto, oggetto della presente controversia) sia perché riferito all’impugnazione d’un licenziamento comunicato per iscritto (il che nella specie è mancato ove si consideri la figura del committente).

Nella specie, quindi, deve ritenersi che erroneamente la Corte territoriale abbia conferito rilievo alla lettera inviata il 14 gennaio 2015, allorquando i due lavoratori ancora prestavano la propria attività per la H.T.I. s.r.l. e, secondo la tesi da loro sostenuta, in favore della committente/interponente, non potendo la stessa, per quanto detto, assumere l’efficacia di impugnativa ex art. 32 comma 4 L. n. 183 del 2010, dovendo, invece, considerarsi l’assenza di un atto dismissivo posto il essere dal committente e la circostanza che il rapporto di lavoro con la società asseritamente interposta è stato pacificamente risolto il 25 ottobre 2015.

Alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere accolto.

La sentenza va cassata con rinvio alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, affinché proceda ad un nuovo esame della vicenda alla luce del principio secondo cui il doppio termine di decadenza dall’impugnazione (stragiudiziale e giudiziale) previsto dal combinato disposto degli artt. 6, commi 1 e 2, legge n. 604/1966 e 32, comma 4, lett. d), legge n. 183/2010, non si applica all’azione del lavoratore intesa ad ottenere, in base all’asserita illiceità dell’appalto in quanto di mera manodopera, l’accertamento del proprio rapporto di lavoro subordinato in capo al committente, in assenza di una comunicazione scritta, inviata da quest’ultimo, equipollente ad un atto di recesso.

Il medesimo giudice di rinvio provvederà anche a regolare le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, anche in ordine alle spese relative al giudizio di legittimità.