CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 ottobre 2021, n. 29365

Licenziamento – Illegittimità – Compimento del 65° anno di età – Esercizio del diritto di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegra

Rilevato che

1. D.F.G. è stata licenziata da P.I. spa, con lettera del 19.11.2001, nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo. Ha agito in giudizio e la domanda di impugnativa il licenziamento, respinta dal Tribunale, è stata accolta dalla Corte d’appello che, con sentenza n. 7045/2005, ha dichiarato l’inefficacia del recesso e ha condannato la società datoriale a reintegrare la lavoratrice e a risarcirle i danni, parametrati alla retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento fino alla reintegra.

2. La lavoratrice, dopo aver esercitato in data 4.7.2006 il diritto di opzione, di cui all’art. 18, comma 5, St. Lav. (nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla L. 92/12), ha agito in giudizio per ottenere la condanna di P.I. spa al pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegra. Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 17799/2012, ha accertato il diritto della predetta al pagamento della somma di euro 29.654,88, oltre accessori.

3. Con separato ricorso, la D.F., avendo ricevuto da P.I., a titolo di risarcimento del danno di cui all’art. 18, comma 4 cit., un importo pari alla retribuzione globale di fatto calcolata dalla data del licenziamento fino al compimento del 65° anno di età (23.7.2005), ha agito in giudizio per ottenere il risarcimento del danno anche per il periodo successivo al compimento del 65° anno e fino alla effettiva reintegra. Il Tribunale di Roma, con sentenza 17800/12, ha accertato il diritto al risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 18, comma 4, St. Lav., pari alle retribuzioni spettanti fino al 31.3.2011.

4. La Corte d’appello di Roma, riunite le impugnazioni proposte avverso le due sentenze di primo grado, ha respinto l’appello principale di P.I. s.p.a. e quello incidentale della D.F.

5. Sull’appello principale, la Corte di merito ha escluso l’illegittimo frazionamento del credito fatto valere dalla lavoratrice, rilevando come le domande azionate nei due procedimenti avessero petita e titolo differenti. Ha negato che il compimento del 65° anno di età costituisse causa risolutiva del rapporto di lavoro, come peraltro già statuito dalla sentenza d’appello n. 7045/05, divenuta irrevocabile a seguito del rigetto del ricorso in cassazione (sentenza Cass. n. 2142/11). Ha riconosciuto il diritto della lavoratrice alla reintegra e, quindi, all’indennità sostitutiva della stessa. Ha parimenti escluso che ricossero i presupposti di una risoluzione per mutuo consenso del rapporto di lavoro, data la pendenza del ricorso in cassazione.

6. Sull’appello incidentale, ha osservato come la prosecuzione de iure del rapporto impedisse di configurare il diritto della lavoratrice a percepire il TFR e, nel contempo, legittimasse l’esercizio dell’opzione di cui all’art. 18, comma 5 cit.

Ha rilevato che l’avvenuto pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegra da parte di Poste portasse a ritenere cessata la materia del contendere sul punto.

7. Avverso la sentenza d’appello, P.I. spa ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad otto motivi. D.F.G. ha resistito con controricorso.

8. Il Sost. Procuratore Generale ha depositato memoria.

Considerato

9. Col primo motivo di ricorso P.I. s.p.a ha censurato la sentenza per violazione dell’art. 88 cod.proc.civ., in relazione al rigetto dell’eccezione di illegittimo frazionamento dei giudizi e dei crediti vantati, che avrebbedeterminato l’inammissibilità della domanda proposta dalla D.F.

10. Ha sostenuto che le domande azionate dalla lavoratrice nei due procedimenti erano fondate sui medesimi fatti costitutivi (l’illegittimità del licenziamento intimato nel 2001, accertata con sentenza d’appello n. 7045/2005 divenuta irrevocabile, il compimento del 65° anno di età, l’esercizio del diritto di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegra), come si ricava dal contenuto dei ricorsi introduttivi di primo grado (trascritti nelle parti essenziali), e o richiedevano il medesimo accertamento in fatto e in diritto; che l’introduzione di distinti procedimenti aveva costretto la datrice di lavoro a costituirsi in due giudizi di primo grado e ad impugnare due sentenze, con duplicazione delle spese di lite; che nella specie non era individuabile in capo al creditore alcun “interesse oggettivamente valutabile ad una tutela processuale frazionata”, come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità richiamata, e vi fosse, al contrario, un concreto rischio di contrasto tra giudicati.

11. Col secondo motivo, la medesima censura è articolata sotto forma di violazione dell’art. 111 Cost. e, specificamente, del principio di ragionevole durata del processo e di economia processuale.

12. I primi due motivi, che si trattano unitariamente, sono infondati.

13. Le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 4090 del 2017, hanno affermato il principio secondo cui “Le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, – sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale – le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata Ciò sul rilievo dell’essere la disciplina processuale (di cui agli artt. 31, 40 e 104 c.p.c. in tema di domande accessorie, connessione, proponibilità nel medesimo processo di più domande nei confronti della stessa parte e all’art. 34 sull’accertamento incidentale di questione pregiudiziale con efficacia di giudicato) “strutturata sulla ipotesi di proponibilità in tempi e processi diversi di domande intese al recupero di singoli crediti facenti capo ad un unico rapporto complesso esistente tra le parti” ed inoltre in base alla constatazione che, se si ritenesse “improponibile qualunque azione per il recupero di un credito solo perché preceduta da altra, intesa al recupero di credito diverso e tuttavia riconducibile ad uno stesso rapporto di durata tra le medesime parti, a prescindere dal passaggio in giudicato della decisione sul primo credito o comunque dalla inscrivibilità della diversa pretesa creditoria successivamente azionata nel medesimo ambito oggettivo di un giudicato in fieri tra le stesse parti relativo al medesimo rapporto di durata” si priverebbe di significato la “elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria in tema di estensione oggettiva del giudicato -in relazione alla preclusione per le questioni rilevabili o deducibili-“.

14. D’altra parte, la consapevolezza della parallela esigenza, insita nella medesima disciplina processuale, di “consentire, ove possibile, la trattazione unitaria dei suddetti processi e comunque di attenuare o elidere gli inconvenienti della proposizione e trattazione separata dei medesimi”, e l’esistenza, per le domande proponibili separatamente ma inscrivibili nel medesimo “ambito” oggettivo di un ipotizzabile giudicato, di un “meccanismo di “preclusione” dopo il passaggio in cosa giudicata della sentenza che chiude uno dei giudizi, e comunque (di) uno specifico rimedio impugnatorio per la sentenza contraria a precedente giudicato tra le stesse parti”, nonché l’obiettivo di consentire “una decisione intesa al definitivo consolidamento della situazione sostanziale direttamente o indirettamente dedotta in giudizio”, hanno indotto le Sezioni Unite a prevedere un temperamento rappresentato dall’interesse oggettivamente valutabile del creditore alla proposizione separata di azioni fondate sul medesimo fatto costitutivo oppure riconducibili nello stesso ambito oggettivo di un ipotizzabile giudicato.

15. Nel caso di specie, i crediti azionati dalla lavoratrice attraverso distinti e quasi coevi procedimenti, entrambi originati dalla illegittimità del licenziamento dichiarata con la sentenza n. 7045/05, hanno fatti costitutivi comuni, rappresentati dalla accertata illegittimità del recesso e dalla prosecuzione de iure del rapporto di lavoro anche dopo il compimento del 65° anno di età; tuttavia, solo uno dei due procedimenti include nel fatto costitutivo anche il legittimo esercizio del diritto di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegra, sicché vengono a mancare i presupposti per l’operare della disciplina delineata dalle Sezioni Unite cit.

16. Col terzo motivo è dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod.proc.civ., omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in relazione alla sentenza n. 7045/2005.

17. Si afferma che quest’ultima sentenza (riprodotta integralmente nel corpo del ricorso per cassazione) non conteneva alcuna statuizione sul dato del compimento del 65° anno di età da parte della lavoratrice e che erroneamente la sentenza impugnata aveva ritenuto preclusa dal giudicato ogni valutazione sulla idoneità del citato dato anagrafico quale causa risolutiva del rapporto di lavoro.

18. Col quarto motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod.proc.civ., l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in relazione alla impossibilità di rendere la prestazione per raggiunti limiti di età.

19. Si assume che, a seguito del raggiunto limite di età da parte della lavoratrice, era divenuto impossibile per la società eseguire l’ordine di reintegra nel posto di lavoro ed impossibile per la ex dipendente rendere la prestazione lavorativa. Si richiama a sostegno la giurisprudenza in materia di cessazione dell’attività aziendale.

20. Anche il terzo e quarto motivo possono essere esaminati congiuntamente e non meritano accoglimento.

21. La sentenza impugnata ha ritenuto che “il compimento del 65° anno di età non possa considerarsi causa risolutiva del rapporto” ed ha aggiunto che una simile statuizione era già contenuta nella sentenza n. 7045/05, divenuta irrevocabile a seguito del rigetto del ricorso per cassazione.

22. Il fatto che la sentenza n. 7045/05 non contenesse una simile statuizione non fa venir meno la autonoma valenza decisoria della pronuncia ora impugnata, sulla inidoneità del dato anagrafico quale causa automatica di risoluzione del rapporto di lavoro. Tale affermazione risulta, in diritto, conforme all’orientamento espresso da questa Corte secondo cui il compimento dell’età pensionabile o il raggiungimento dei requisiti per il sorgere del diritto a pensione, determinando solo la recedibilità ad nutum dal rapporto e non già la sua automatica estinzione, non ostano, qualora vengano a verificarsi durante la pendenza del giudizio di impugnazione del licenziamento, all’emanazione del provvedimento di reintegra del lavoratore e alla condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno ex art. 18 st. lav. nella misura corrispondente alle retribuzioni riferibili al periodo compreso fra la data del recesso e quella della reintegrazione, non giustificandosi per contro, al fine della liquidazione del danno subito dal lavoratore, alcun giudizio prognostico circa il termine nel quale, in relazione al raggiungimento della detta età pensionabile, il rapporto si sarebbe comunque interrotto, anche in assenza dell’illegittimo recesso (v. Cass. n. 3849 del 2017 in motivazione; v. anche Cass. n. 9312 del 2014; n. 6047 del 2014; n. 2380 del 2007; n. 1908 del 1998).

23. Un problema di compatibilità potrebbe porsi, non rispetto al compimento di una determinata età anagrafica ma, specificamente, tra la prosecuzione del rapporto di lavoro, anche se de iure per effetto della sentenza reintegratoria pronunciata in caso di licenziamento illegittimo, e l’effettivo pensionamento (v. Cass. n. 1462 del 2012; Cass. 16350 del 2017; Cass. n. 1462 del 2012; Cass. n. 154 del 2012).

24. Non è pertinente il riferimento fatto dalla ricorrente (pag. 28 del ricorso) alla ipotesi di impossibilità di reintegra per cessazione attività aziendale, posto che quest’ultima presuppone una impossibilità di fatto e non giuridica, come invece quella che si vuole far conseguire dal compimento del 65° anno di età (v. Cass. n. 1888 del 2020, e precedenti ivi citati, che fa riferimento alla “sopravvenuta materiale impossibilità totale e definitiva di adempiere l’obbligazione, non imputabile a norma dell’art. 1256 cod. civ., che è ravvisabile nella sopraggiunta cessazione totale dell’attività aziendale, da accertare, caso per caso…” e alla “cessazione dell’attività aziendale, nel senso della disgregazione del relativo patrimonio, (che) rende impossibile il substrato della prestazione lavorativa…”).

25. Col quinto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod.proc.civ., l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in riferimento alla risoluzione per mutuo consenso.

26. Si contesta che la pendenza del giudizio di legittimità fosse idonea ad escludere l’eccepita risoluzione del rapporto di lavoro e si elenca una serie di elementi di fatto (la lavoratrice aveva atteso cinque anni prima di rivendicare l’indennità sostitutiva della reintegra e l’esercizio del diritto di opzione confermava la mancanza di interesse alla prosecuzione del rapporto; non aveva mai offerto la prestazione lavorativa, divenuta poi impossibile per limiti di età) che si assume essere pacifici, oltre che sintomatici del disinteresse della D.F. alla prosecuzione del rapporto, e sui quali la sentenza impugnata avrebbe omesso qualsiasi motivazione.

27. Il motivo è inammissibile.

28. Secondo una costante giurisprudenza di legittimità, l’accertamento della sussistenza di una concorde volontà delle parti diretta allo scioglimento del vincolo contrattuale costituisce apprezzamento di merito che, se immune da vizi logici e giuridici e adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità; i limiti di sindacabilità della quaestio facti, come segnati dal nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod.proc.civ., escludono che la parte ricorrente possa semplicemente sostenere una diversa combinazione dei dati fattuali ovvero l’attribuzione a ciascuno di essi di un diverso peso specifico (cfr. Cass. n. 18715 del 2016), con una censura generica e meramente contrappositiva rispetto al giudizio operato in sede di merito (cfr. Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 9266 del 2005). Non solo, ai fini dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., è inoltre necessario che il fatto che si assume trascurato abbia carattere “decisivo”, nel senso che, se sussistente, sarebbe idoneo a determinare un esito diverso della controversia, altrimenti realizzandosi una indebita sostituzione del giudice di merito nella selezione delle fonti di convincimento (v. Cass. n. 7916 del 2017).

29. Nel caso di specie, i giudici di appello hanno escluso la risoluzione per mutuo consenso valorizzando la pendenza tra le parti del giudizio di cassazione, quale elemento di segno contrario all’inerzia, con un giudizio di fatto che si sottrae al sindacato di legittimità. Le censure mosse si collocano al di fuori del perimetro segnato dall’art. 360, comma 1, n. 5 cod.proc.civ., specie là dove denunciano l’omesso esame di elementi fattuali plurimi, come tali privi singolarmente di decisività.

30. Col sesto motivo la società ricorrente censura la sentenza per violazione dell’art. 18 St. Lav. in ordine ai criteri di determinazione dell’indennità dovuta alla lavoratrice a seguito dell’illegittimo recesso.

31. Afferma che la disposizione richiamata, nel prevedere che l’indennità sia commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello di effettiva reintegra, non implica che detta indennità debba essere corrisposta anche oltre il momento in cui la reintegra è divenuta impossibile e anche dopo il compimento dell’età pensionabile. Inoltre, il quantum dovuto deve essere “commisurato”, quindi determinato secondo equità, e non calcolato come automaticamente pari alle retribuzioni perdute dalla data dell’illegittimo recesso.

32. Il motivo è infondato alla luce di quanto già affermato a proposito del terzo e quarto motivo di ricorso, in quanto formulato sul presupposto, erroneo, della impossibilità della reintegra, a causa della automatica risoluzione del rapporto, dopo il compimento del 65° anno di età.

33. Col settimo motivo si deduce violazione dell’art. 18 St. Lav. in ordine ai criteri di determinazione dell’indennità dovuta alla lavoratrice a seguito dell’illegittimo recesso e con riferimento alla domanda di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegra.

34. Si assume che il risarcimento doveva essere limitato alla data del 4.7.2006, in cui la lavoratrice aveva esercitato il diritto di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegra, in conformità ai principi enunciati dalle Sezioni Unite, con sentenza n. 18353 del 2014, secondo cui “In caso di licenziamento illegittimo, ove il lavoratore, nel regime della cosiddetta tutela reale (nella specie, quello, applicabile “ratione temporis”, previsto dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nel testo anteriore alle modifiche introdotte con la legge 28 giugno 2012, n. 92), opti per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, avvalendosi della facoltà prevista dall’art. 18, quinto comma, cit., il rapporto di lavoro, con la comunicazione al datore di lavoro di tale scelta, si estingue senza che debba intervenire il pagamento dell’indennità stessa e senza che permanga – per il periodo successivo in cui la prestazione lavorativa non è dovuta dal lavoratore né può essere pretesa dal datore di lavoro – alcun obbligo retributivo“.

35. Il motivo è inammissibile in quanto la società ricorrente non indica dove e in che termini la questione ora sollevata era stata sottoposta ai giudici di merito, atteso che della stessa non vi è cenno nella sentenza impugnata.

36. Con l’ottavo motivo è dedotta l’omessa pronuncia sui motivi di appello, debitamente trascritti, concernenti la quantificazione delle somme dovute alla lavoratrice.

37. Neppure questo motivo può trovare accoglimento.

38. Come più volte precisato da questa Corte (Cass. n. 7653 del 2012; 22799 del 2017), il vizio di omessa pronuncia su una domanda o eccezione di merito, che integra una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., ricorre quando vi sia omissione di qualsiasi decisione su di un capo di domanda, intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere l’attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene all’attore o al convenuto e, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica, sulla quale deve essere emessa pronuncia di accoglimento o di rigetto.

39. Si è ulteriormente precisato che la deduzione in sede di legittimità del vizio di omessa pronunzia presuppone, tra l’altro, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia fosse necessaria ed ineludibile (Cass. 15367/14 -6361/07).

40. Tali requisiti non ricorrono nella fattispecie in esame in quanto le considerazioni ed istanze formulate nel giudizio di appello, e riportate nel corpo del ricorso in cassazione, attengono alla interpretazione del dispositivo delle sentenze di primo grado, contenenti la statuizione di parziale accoglimento del ricorso, che la società reputa implicitamente riferibile alle censure dalla stessa mosse sulla quantificazione della retribuzione globale di fatto, senza che nel ricorso in esame siano replicate o esposte, in termini di violazione di legge, le critiche sui criteri di calcolo della retribuzione globale di fatto.

41. Per le considerazioni svolte, il ricorso deve essere respinto.

42. Le spese del giudizio di legittimità sono regolate secondo il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.

43. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 per compensi professionali, in euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.