CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 ottobre 2021, n. 29443
Tributi – Accertamento – Controlli incrociati – Accertamento della natura di “cartiera” del fornitore – Costi riferiti ad operazioni ritenute oggettivamente inesistenti – Presunzione – Onere di prova contraria
Rilevato che
G.G. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 486/02/2014, depositata il 16.09.2014 dalla Commissione tributaria regionale della Basilicata, con la quale, a conferma della sentenza di primo grado, era stato rigettato il ricorso introduttivo del contribuente avverso l’avviso di accertamento, con cui l’Agenzia delle Entrate aveva rideterminato l’imponibile per l’anno 2006, con conseguente richiesta di maggiori imposte ai fini Irpef, Iva e Irap, oltre a sanzioni.
Ha riferito che, a seguito di verifica condotta nei confronti della società T.P. & C s.n.c., indagata in sede penale per false fatturazioni, emergendo anche il nominativo dell’odierno ricorrente quale destinatario delle medesime, la GdF aveva eseguito una verifica presso la propria attività, conclusasi con la redazione del processo verbale di constatazione del 30.03.2011. Con la verifica, che secondo la ricostruzione del contribuente era stata condotta in modo del tutto insufficiente, si contestava l’utilizzo delle fatture emesse dalla T. per operazioni oggettivamente inesistenti.
L’Agenzia delle entrate, condividendo le risultanze del pvc, notificò al G. l’avviso di accertamento TC501AC00469, con cui recuperava a reddito d’impresa i costi del materiale riportato nelle fatture.
Era seguito il contenzioso, esitato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Matera nella sentenza n. 152/02/2012, che aveva rigettato il ricorso introduttivo del contribuente. Appellata la decisione dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Basilicata, con la decisione ora al vaglio della Corte anche l’impugnazione era stata rigettata. Il giudice regionale ha ritenuto infondato il primo rilievo del contribuente, negando che la decisione di primo grado operasse un mero rinvio per relationem ad altra sentenza, relativa alla T. s.n.c. e mai conosciuta; al contrario ha ritenuto che il G. fosse ben a conoscenza di tutta la vicenda, e che la verifica fosse fondata sulla constatazione della indisponibilità, in capo al fornitore, del materiale apparentemente venduto al contribuente; ha inoltre respinto l’eccepito vizio dell’atto impositivo per mancato rispetto del contraddittorio endoprocedimentale; ha ritenuto che le prove presuntive fossero idonee a sostenere le contestazioni mosse al G.;
ha negato, infine, l’applicabilità dell’art. 8 comma 2, del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito in I. 26 aprile 2012, n. 44, ai fini del concorso alla formazione del reddito dei componenti positivi afferenti a costi inesistenti recuperati ad imponibile.
Il ricorrente ha censurato la sentenza con sei motivi. L’Agenzia delle entrate, cui risulta notificato il ricorso, non ha inteso resistere.
Nell’adunanza camerale dell’8 luglio 2021 la causa è stata trattata e decisa sulla base degli atti difensivi depositati.
Considerato che
Con il primo motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 36, comma 2, n. 4, del d.lgs. 31 dicembre 1992, nonché dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360, terzo comma, n. 3, cod. proc. civ., per aver erroneamente sostenuto che la sentenza di primo grado fosse motivata in ordine alla fondatezza dell’atto impositivo, laddove essa rimandava alle motivazioni di altra sentenza, non conosciuta né altrimenti identificabile dal contribuente.
Il motivo è infondato. Con esso il G., lamentando che la motivazione della decisione assunta dal giudice di primo grado operasse un mero rinvio per relatíonem ad altra decisione, del tutto sconosciuta al contribuente, ha sostenuto che il giudice d’appello, anziché riconoscere il vizio denunciato, avrebbe semplicemente negato tale circostanza, senza alcun’altra spiegazione, e senza tener conto dei numerosi plurimi motivi e prove allegati a propria difesa dal contribuente.
La sentenza della commissione regionale sul punto afferma che «…i primi giudici, invero, esponevano che i rilievi contestati al ricorrente/contribuente rinvenivano da una verifica svolta nei confronti della ditta T.P. s.n.c. nel corso della quale veniva riscontrata l’emissione da parte di questa di fatture per operazioni inesistenti. I primi giudici esponevano, quindi, che la Commissione “si era già interessata” della vicenda tributaria rigettando il ricorso della ditta T., vicenda, comunque, costituente il punto di rilevamento delle contestate infrazioni. Prosegue, poi, con la elencazione degli altri punti di merito e diritto, benché concisi, rigettandoli. Orbene, nella pur stringata esposizione si evidenzia che la Commissione Provinciale non ha, sic et simpliciter, rinviato per relationem ad altra sentenza, ma, piuttosto, appare che espone di aver già trattata la questione non rinviando in alcun modo alla relativa sentenza. Tanto conduce a ritenere infondato il primo motivo di appello».
A differenza di quanto prospettato dal ricorrente, il giudice d’appello ha evidenziato come, a fronte della denuncia, da parte dell’appellante, di una irrituale e invalida sentenza fondata su un rinvio per relationem ad altra decisione non meglio identificabile, il giudice di primo grado non si era affatto limitato a ciò, ma aveva prima rilevato come il riferimento alle vicende processuali della T. s.n.c. fossero il punto di partenza della successiva attività accertativa nei riguardi del ricorrente, e poi ha comunque apprezzato che nella sentenza di primo grado vi era stata risposta, sia pur concisa, su “altri punti di merito e diritto…. rigettandoli”. Ne discende che la decisione d’appello non avvalla affatto la prospettazione denunciata dal G., ma al contrario evidenzia i passaggi salienti della decisione di primo grado, negando che essa fosse affetta da una motivazione per relationem ad altra decisione senza alcuna adesione critica, e ad un tempo valorizza che, sia pur concisamente, il giudice di primo grado aveva rigettato le altre questioni allegate dalla difesa del contribuente.
Peraltro, anche tralasciando per un momento le considerazioni appena espresse, ai fini della censura nei riguardi della decisione ora oggetto d’impugnazione, ciò che conta non è solo il giudizio critico espresso dal giudice d’appello nei riguardi della sentenza della commissione provinciale, ma la circostanza che il giudice d’appello nei due capoversi successivi ha analizzato nel merito la fattispecie ed ha reputato che l’accertamento fosse fondato su elementi e riscontri oggettivi, evidenziando che il G. avesse precisa conoscenza di tutti i fatti costituenti l’antecedente della verifica nei suoi riguardi, e segnalando l’assenza di ogni organizzazione e disponibilità di materiale da parte del T., a riprova della inesistenza delle operazioni da questi fatturate e dunque della inesistenza degli acquisti di materiale da parte del G.
Si tratta di un accertamento in fatto, operato dal giudice d’appello quale giudice di merito di secondo grado, che non può essere oggetto di rivalutazione dinanzi a questa Corte, così che, se con la lunga argomentazione del motivo il ricorrente tenta di sollecitare un riesame della vicenda in questa sede, ciò sarebbe inammissibile.
Con il secondo motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e dell’art. 1 della I. 7 agosto 1999, n. 241, perché la decisione ha erroneamente negato il mancato rispetto del contraddittorio endoprocedimentale.
Il motivo è infondato, sebbene le ragioni della sentenza impugnata vadano integrate. La commissione tributaria regionale ha rigettato la denunciata violazione del contraddittorio, affermando che esso era stato assicurato nella fase della verifica condotta dai militari della guardia di finanza, durante la quale non era stato mai impedito al contribuente di formulare contestazioni, e comunque evidenziando che l’art. 12 della l. 26 luglio 2000, n. 212, nel prevedere il termine dilatorio di 60 gg. dal rilascio del processo verbale di constatazione prima della emissione dell’atto impositivo, termine durante il quale al contribuente è consentito contestare gli esiti stessi del pvc, garantiva il contradditorio.
Le ragioni espresse dalla commissione regionale certamente evidenziano alcuni momenti dell’iter procedimentalizzato che giunge alla formazione ed emissione dell’avviso di accertamento, in cui è data la possibilità al contribuente di illustrare il proprio punto di vista. Ed è indiscutibile che è sempre salva la tutela del contraddittorio nell’eventuale contenzioso insorgente a seguito della notifica dell’atto impositivo. Nel caso di specie tuttavia deve essere chiarito e ribadito che nel sistema di procedimentalizzazione dell’atto impositivo non esiste una regola che richieda, in maniera assoluta ed assorbente, come presupposto di validità dell’iter amministrativo, l’osservanza della preventiva instaurazione del contraddittorio.
Questa Corte ha avvertito che la collaborazione richiesta dalla Amministrazione finanziaria in occasione dell’esplicazione dei suoi poteri, che si traduca nell’invio al contribuente di questionari e nella richiesta della loro compilazione, trova collocazione in forme di attuazione del contradittorio affinché, nella rispondenza ai canoni di lealtà, correttezza e collaborazione propri degli obblighi di solidarietà della materia tributaria, si assicuri un dialogo preventivo tra fisco e contribuente per favorire la definizione delle reciproche posizioni, sì da evitare l’instaurazione del contenzioso giudiziario. Si tratta di un contraddittorio inteso nella sua accezione più ampia, soprattutto espressione di sollecitazioni collaborative, tese senz’altro ad acquisire maggiori elementi ai fini dell’azione accertativa dell’Ufficio, in occasione delle quali non è però affatto impedito al contribuente sottoposto a controllo di allegare atti e documenti a sé favorevoli. In tal senso non ha errato il giudice regionale nel valorizzare il confronto tra le parti sin dal momento della verifica (d’altronde cfr. Cass. 5/05/2011, n. 9892 e soprattutto 27/09/2013, n. 22126; 14/05/2014, n. 10489; tra le più recenti, 24/11/2020, n. 26646). È pur vero che si tratta di forme di contraddittorio facoltativo, laddove la critica mossa dal ricorrente è volta a lamentare la mancata attuazione di un contraddittorio capace di assicurare un’efficace interlocuzione tra le parti. Sennonché, a parte quanto già chiarito, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’Amministrazione finanziaria è gravata esclusivamente per i tributi “armonizzati” di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, mentre ciò non avviene per quelli “non armonizzati”, non essendo rinvenibile nella legislazione nazionale una prescrizione generale, analoga a quella comunitaria. Ed anche ai fini dei tributi armonizzati l’obbligatorietà del contradittorio richiede che il contribuente abbia comunque assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa (Sez. U, 9/12/2015, n. 24823; vedi anche 11/05/2018, n. 11560). Sono fatte salve solo quelle ipotesi in cui l’obbligo del contraddittorio risulti specificamente sancito, come per l’accertamento sintetico in virtù dell’art. 38, comma 7, del d.P.R. n. 600 del 1973, e ciò in ogni caso, estraneo alla fattispecie qui esaminata, rileva comunque unicamente a partire dalla formulazione introdotta dall’art. 22, comma 1, del d.l. n. 78 del 2010, conv. in I. n. 122 del 2010, applicabile però dal periodo d’imposta 2009. Ne consegue che gli accertamenti come quello per cui è causa sono legittimi anche senza l’instaurazione del contraddittorio endoprocedimentale. Anche questo motivo è in conclusione infondato.
Con il terzo motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per l’errata applicazione del principio di distribuzione dell’onere della prova e per il malgoverno delle prove presuntive. Sintetizzando l’esposizione del motivo il G. ha sostenuto che il giudice d’appello non ha tenuto conto che sin dall’introduzione del giudizio era stata rilevata l’assenza di prove addotte dall’Amministrazione finanziaria a supporto degli addebiti fiscali, a fronte delle prove contrarie ed esaustive allegate dal contribuente, nonché l’assenza di presunzioni gravi precise e concordanti. Il ricorrente aveva elencato tutti i lavori in cui i materiali acquistati dal T. erano stati impiegati. Il motivo è inammissibile, perché il ricorrente, lamentando il malgoverno delle regole probatorie, cerca di rimettere in discussione le valutazioni di merito del giudice regionale, chiedendo al giudice di legittimità un riesame dei fatti e delle prove. In realtà la decisione parte, correttamente sul piano logico, dagli accertamenti eseguiti nei confronti dell’autore delle false fatturazioni, da cui si evinceva l’indisponibilità in capo al presunto fornitore del materiale venduto. Di qui l’accertamento della oggettiva inesistenza delle operazioni. A tal fine, alla pag. 5 della sentenza, il giudice regionale ha affermato che dalla documentazione in atti emerge un quadro presuntivo caratterizzato dalla gravità, precisione e concordanza degli elementi. Entrando nello specifico ha apprezzato gli esiti degli atti di verifica, in particolare l’assoluta assenza della disponibilità dei materiali formalmente oggetto delle fatture emesse dal fornitore T., la mancanza di riscontri della consegna della merce con i vettori “indicati nelle bolle” (circostanza rispetto alla quale è del tutto irrilevante la pretesa del ricorrente, che sostiene di aver provveduto con propri mezzi al ritiro della merce, perché costituisce un dato non provato e comunque incapace di superare la contraddizione con il contenuto delle bolle). Con ciò, coerentemente ai principi in tema di distribuzione dell’onere della prova, il giudice regionale ha identificato gli elementi su cui l’Amministrazione aveva correttamente supportato la dimostrazione dell’inesistenza delle operazioni fatturate. D’altronde è stato reiteratamente ribadito che la violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. si configura qualora il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio in modo erroneo, ossia attribuendo l’onus probandi ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni, ma non quando, come in questo caso, abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (Cass. 5/11/2006, n. 19064; 17/06/2013, n. 15107; 21/02/2018, n. 4241). Quelle adoperate dal giudice d’appello sono peraltro argomentazioni logiche, sequenziali, prive di contraddizioni, coerenti con la disciplina che regolamenta il governo delle prove. Le opposte conclusioni cui il contribuente pretende di pervenire costituiscono, ancora una volta, un tentativo inammissibile, dinanzi al giudice di legittimità, di riesame nel merito dei fatti e dei dati valutati dal giudice d’appello.
Con il quarto motivo il contribuente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., per mancata corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, per non aver esaminato le questioni poste nelle difese, relative al contenuto del processo verbale di constatazione datato 4/05/2009, precedentemente elevato nei confronti del G., e dell’assenza, nel pvc del 30/03/2011, dei verbali relativi agli atti istruttori effettuati nei confronti della T.P. & C. Il motivo è inammissibile perché, con una diversa prospettiva, il ricorrente insiste in concreto nel tentativo di rivalutare nel merito i fatti. Come si è invece già evidenziato, la motivazione della decisione impugnata è sorretta da argomentazioni coerenti, esaustive e sufficienti a far comprendere il percorso logico seguito dal giudice d’appello per giungere a confermare l’esito del giudizio di primo grado. Ed a conferma del limite di inammissibilità del motivo si evidenzia che la difesa del ricorrente insiste nel ritenere che se certi elementi fossero stati presi in considerazione (quelli per cui se ne denuncia il mancato esame), sarebbe stato consequenziale un giudizio di annullamento dell’avviso di accertamento impugnato (cfr. ultimo capoverso di pag. 38 del ricorso). Si tratta di considerazioni squisitamente rivolte ad una valutazione di merito della vicenda.
Con il quinto motivo ci si duole della violazione o falsa applicazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per aver ritenuto inapplicabile al caso di specie la disciplina introdotta dall’art. 8, comma 2, I. n. 44 del 2012, che prevede “l’esclusione dal concorso alla formazione del reddito oggetto di rettifica dei componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati”.
Con il sesto motivo ci si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 8, comma 2, I. n. 44 del 2012, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per aver negato che i componenti positivi di reddito, afferenti ai costi ritenuti oggettivamente inesistenti, dovessero essere esclusi dal reddito.
I due motivi possono essere trattati congiuntamente perché connessi.
Va premesso che questa Corte ha affermato che in tema di imposte sui redditi, e con riguardo ad operazioni oggettivamente inesistenti, grava sul contribuente l’onere di provare la fittizietà di componenti positivi che, ai sensi dell’art. 8, comma 2, del d.l. n. 16 del 2012, ove direttamente afferenti a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni e servizi non effettivamente scambiati o prestati, non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi (Cass., 20/11/2013, n. 25967; 19/12/2019, n. 33915).
Ebbene, il giudice regionale, pur riconoscendo l’astratta applicabilità della disciplina, ne ha negato l’applicazione al caso concreto, sostenendo che nella fattispecie non è stata addotta alcuna prova del rapporto tra i costi inesistenti ed i ricavi ad essi riferibili, che si vorrebbero scomputare. Con tale argomentazione il giudice d’appello ha fatto corretto utilizzo del principio di diritto dispensato dalla giurisprudenza di legittimità.
D’altronde, in tutta la sua difesa, il contribuente ha insistito sulla effettività di tutte le operazioni, così che non può ora contraddittoriamente invocare l’applicazione di una disciplina, la quale, per escludere dal concorso al reddito i ricavi afferenti a costi che si sono rivelati oggettivamente inesistenti, richiede la dimostrazione del rapporto tra costi e ricavi e, prima ancora, che sia addotta, ad onere del contribuente, la prova che quei ricavi non siano effettivamente mai venuti in essere. Insistendo strenuamente sulla effettività dei costi, la pretesa del contribuente costituisce un ingiustificabile salto logico rispetto a tutta la scelta difensiva assunta nel corso del lungo contenzioso.
Il ricorso va in conclusione rigettato. Nulla va regolato relativamente alle spese, mancando la costituzione dell’Agenzia delle entrate.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.
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