CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 settembre 2021, n. 25571
Lavoro – Collaborazione coordinata e continuativa – Svolgimento di attività corrispondente a quella propria di un rapporto subordinato – Prova
Ritenuto che
1. la Corte d’Appello di Lecce, riformando la sentenza di rigetto resa dal Tribunale di Brindisi, ha ritenuto provato che il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, poi proseguito in via di fatto, tra D.C. e l’Università del Salento, fosse da qualificare in effetti come rapporto di lavoro subordinato, con diritto alle conseguenti differenze retributive, motivando con riferimento alla natura dell’attività svolta (mero supporto di laboratorio, con inserimento nell’organizzazione aziendale), alla fissità dell’orario, al godimento delle ferie ed alla sottoposizione a visite mediche come gli altri dipendenti;
2. la Corte territoriale ha poi anche riconosciuto il risarcimento dei danni per illegittimità del termine apposto ai contratti, oltre che per la protrazione di fatto oltre le durate stabilite, liquidati, sulla scorta delle previsioni dell’art. 32, co. 5, L. 183/2010, in misura di dieci mensilità di retribuzione propria del corrispondente inquadramento di cui al CCNL di Comparto;
3. l’Università del Salento ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi, resistiti da controricorso del C.;
Considerato che
1. il primo motivo denuncia la violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c., sostenendo l’apparenza della motivazione della sentenza impugnata per sua contraddittorietà, derivante dall’essersi negato il diritto alla stabilizzazione e poi essersi tuttavia riconosciuto il lavoro dipendente nonostante la mancanza di concorso;
2. il secondo motivo afferma la violazione dell’art. 24, co.2, L. 240/2010, secondo cui anche gli incaricati a tempo determinato presso le università devono esser scelti mediante selezione, sicché, essendo essa mancata per il ricorrente, lo stesso non avrebbe potuto avere accesso all’impiego;
3. i due motivi vanno disattesi;
4. la Corte territoriale non ha riconosciuto alcun formale rapporto di pubblico impiego tra il ricorrente e l’Università, nonostante la mancanza di concorso, ma ha invece accertato lo svolgimento di fatto di attività corrispondente a quella propria di un rapporto di impiego subordinato, così attribuendo, in una fattispecie che si riporta al disposto dell’art. 2126, co. 2, c.c., le differenze rispetto alle remunerazioni che sarebbero spettate ad un effettivo dipendente di corrispondente inquadramento;
5. la contraddittorietà denunciata con il primo motivo quindi non sussiste ed il secondo motivo, facendo riferimento a requisiti selettivi richiesti per l’instaurazione di un regolare contratto di lavoro a termine con l’Università, mostra di non aver inteso la ratio decidendi della sentenza impugnata, rispetto alla quale risulta inconferente;
6. è del resto giuridicamente del tutto lineare che, stante l’applicabilità dell’art. 2126 c.c. anche al rapporto di pubblico impiego (art. 2, co. 2, d. lgs. 165/2001) le retribuzioni per le prestazioni svolte secondo il regime della subordinazione siano dovute a prescindere dalla regolarità del rapporto di lavoro;
7. il terzo motivo afferma infine la violazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) dell’art. 32, co. 5, L. 183/2010 sostenendo che si tratterebbe di norma riguardante altra fattispecie, anche a questo proposito richiamando ulteriormente il mancato superamento di un pubblico concorso;
8. il motivo ignora integralmente gli sviluppi giurisprudenziali, pur consolidatisi già prima della proposizione del ricorso con i quali si è ritenuto, ed è qui condiviso, che «in tema di pubblico impiego privatizzato, qualora la P.A. faccia ricorso a successivi contratti formalmente qualificati di collaborazione coordinata e continuativa e il lavoratore ne alleghi l’illegittimità anche sotto il profilo del carattere abusivo della reiterazione del termine, il giudice è tenuto ad accertare se di fatto si sia instaurato un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato e a riconoscere al lavoratore, in assenza dei presupposti richiesti dalla legge per la reiterazione, il risarcimento del danno, alle condizioni e nei limiti necessari a conformare l’ordinamento interno al diritto dell’Unione europea» (Cass. 19 novembre 2018, n. 29779; Cass. 28 novembre 2018, n. 31150), cui logicamente consegue l’applicazione dell’ulteriore principio secondo cui «in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della I. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito» (Cass. S.U., 15 marzo 2016 n. 5072 e successive conformi);
9. il ricorso va dunque rigettato con regolazione secondo soccombenza delle spese di lite;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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