CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 22 dicembre 2021, n. 41276
Inps – Indennità di disoccupazione agricola – Prescrizione del credito preteso – Termine
Rilevato che
I.S. chiese al Tribunale di Salerno decreto ingiuntivo nei confronti dell’Inps, avente ad oggetto la somma di Euro 1395,00 a titolo di adeguamento dell’indennità di disoccupazione agricola per gli anni dal 1983 al 1986, già riconosciuta da una sentenza del Pretore di Salerno n. 310/1997; il decreto ingiuntivo, opposto dall’Inps, è stato revocato dal Tribunale di Salerno sul rilievo che il debito era stato integralmente soddisfatto e che era in ogni caso decorso il termine quinquennale di prescrizione previsto dal d.l. n. 98 del 2011 per i ratei arretrati dei trattamenti pensionistici anche a seguito di pronuncia giudiziale;
contro la sentenza I.S. ha proposto appello e la Corte d’appello di Salerno lo ha rigettato, ritenendo maturata la prescrizione del credito preteso e che non vi fossero elementi per affermare “la non satisfattorietà delle somme già corrisposte dall’Inps in forza della sentenza n. 310/1997 del Pretore di Salerno, espressamente auto qualificatasi di “condanna generica” e come tale non costituente idoneo titolo esecutivo […], in assenza di dati circa la prestazione corrisposta e da adeguare”;
contro la sentenza E.V. propone ricorso per cassazione articolando due motivi, cui resiste con controricorso l’Inps;
l’INPS ha depositato memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c., comma 2.
Considerato che
con il primo motivo di ricorso, si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art.47 bis d.P.R. n. 639/1970, come rispettivamente modificato ed introdotto dall’art. 38 d.l. n. 98 del 6 luglio 2011 conv. con modif. in I. n. 111 del 2011, dell’art. 11 delle preleggi e 2953 c.c., in ragione del fatto che il credito azionato dalla ricorrente era fondato su sentenza di condanna passata in giudicato, risalente al 1994, e soggetta solo alla prescrizione decennale prevista dall’art. 2953 c.c., per cui la sentenza impugnata avrebbe errato nell’applicare il termine quinquennale a tale fattispecie ed anche nel calcolare lo stesso termine (con riferimento alle date dei pagamenti parziali ed alle date di notifica della sentenza e degli atti di precetto e di esecuzione);
con il secondo motivo, si denuncia violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 2, e art, 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e si censura la sentenza nella parte in cui la Corte non ha considerato che la sentenza resa dal Pretore di Salerno aveva determinato i criteri di adeguamento della prestazione dovuta, ancorché essi non fossero stati sufficienti per il giudice dell’esecuzione; il giudice di merito avrebbe dovuto verificare anche a mezzo di una consulenza tecnica d’ufficio la correttezza dei calcoli posti a base del decreto ingiuntivo e la loro rispondenza a quanto già stabilito nella precedente sentenza;
va osservato che la sentenza impugnata si basa su doppia ratio;
invero, quando una decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fonda su distinte ed autonome “rationes deciderteli” ognuna delle quali sufficienti, da sola, a sorreggerla, perché possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile, da un lato, che il soccombente censuri tutte le riferite “rationes” (circostanza che nel caso di specie si è verificata), dall’altro che tali censure risultino tutte fondate;
ne consegue che, rigettato (o dichiarato inammissibile) il motivo che investe una delle riferite argomentazioni, a sostegno della sentenza impugnata, sono inammissibili, per difetto di interesse, i restanti motivi, atteso che anche se questi ultimi dovessero risultare fondati, non per questo potrebbe mai giungersi alla cassazione della sentenza impugnata, che rimarrebbe pur sempre ferma sulla base della ratio ritenuta corretta (Cass. 24 maggio 2006, 12372; Cass. n. 5493 del 2001);
ciò premesso, va rilevato che il secondo motivo che coglie la ratio relativa alla insussistenza di decisivi elementi per poter affermare la non satisfattorietà delle somme già corrisposte dall’INPS in forza della sentenza n. 3125/1994, è inammissibile, come deciso in casi analoghi al presente da questa Corte di cassazione (Cass. nn. 22130 e 24862 del 2018);
la corte territoriale ha ritenuto che non vi fossero sufficienti elementi di prova in ordine alla prestazione corrisposta e da adeguare, richiamando alcune pronunce di questa Corte (per tutte, Cass. 2/4/2009, n. 8067, secondo cui “La sentenza di condanna dell’INPS al pagamento, in favore del creditore, di una prestazione, quale le differenze spettanti a titolo di indennità di disoccupazione, costituisce valido titolo esecutivo, che non richiede ulteriori interventi del giudice diretti all’esatta quantificazione del credito, solo se tale credito risulti da operazioni meramente aritmetiche eseguibili sulla base dei dati contenuti nella sentenza; se, invece, dalla medesima sentenza di condanna non risulta (come nella specie) il numero delle giornate non lavorate nelle quali sia maturata l’indennità giornaliera, così da rendersi necessari per la determinazione esatta dell’importo elementi estranei al giudizio concluso e non predeterminati per legge, la sentenza non costituisce idoneo titolo esecutivo ma è utilizzabile solo come idonea prova scritta per ottenerlo nei confronti del debitore in un successivo giudizio“);
a fronte di questa specifica ratio deciderteli, era onere della ricorrente indicare gli elementi di prova, emergenti dalla sentenza n. 310/1997 o da altra documentazione da questa richiamata, necessari per la quantificazione del credito, e in particolare per la determinazione del numero delle giornate non lavorate per le quali sarebbe stata corrisposta l’indennità di disoccupazione da rivalutare;
tali elementi non sono evincibili dallo stralcio della sentenza n. 310/1997 riportata in ricorso, né risultano trascritti e depositati unitamente al ricorso per cassazione gli estratti contributivi relativi agli anni in questione da cui, secondo la stessa sentenza, sarebbe desumibile il dato numerico in questione; né, infine, la parte specifica quali ulteriori elementi di prova avrebbe offerto e che non sarebbero stati valutati o sarebbero stati mal valutati dal giudice del merito, apparendo al riguardo del tutto inidoneo allo scopo il riferimento al periodo dal 1982 al 1986 contenuto nel ricorso per decreto ingiuntivo (e riportato a pag. 6 del ricorso), trattandosi di una mera affermazione;
in questa prospettiva, non può profilarsi alcuna violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., la quale è integrata solo allorché si alleghi che il giudice del merito abbia, rispettivamente, posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, o disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, ovvero abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. 27/12/2016, n. 27000; Cass. 19/06/2014, n. 13960);
la declaratoria di inammissibilità del secondo motivo, che come sopra detto investe una delle due autonome rationes decidendi poste a fondamento della sentenza impugnata, determina la carenza di interesse all’esame del primo motivo dal momento che, anche se lo stesso fosse fondato, ugualmente non potrebbe darsi la cassazione della sentenza;
il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile, con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 1.000,00 per compensi professionali e Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario nella misura del 15% delle spese generali e agli altri accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
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