CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 22 giugno 2020, n. 12192
Quantificazione delle differenze retributive – Incentivo mensile previsto dalla contrattazione nazionale – Distinzione fra violazione di legge e vizio di motivazione
Rilevato che
– con sentenza in data 14 luglio 2015, la Corte d’Appello di Cagliari, in parziale riforma della decisione di primo grado, ed in accoglimento per quanto di ragione dell’appello principale proposto dalla T. Sardegna s.r.I., nonché dell’appello incidentale avanzato dalle lavoratrici G.L., G.P. e J.M.S., ha modificato la quantificazione delle differenze retributive riconosciute alle lavoratrici con riguardo all’incentivo mensile previsto dalla contrattazione nazionale per la loro attività di formatrici, nonché per indennità sostitutiva ferie non godute e differenza sul t.f.r.;
– avverso tale pronunzia propone ricorso la T. Sardegna s.r.I., affidandolo a sette motivi;
– resistono, con controricorso, G.L., G.P. e J.M.S.;
– il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte.
Considerato che
– con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 113 cod. proc. civ. nonché di alcune disposizioni del contratto collettivo di categoria ribadendosi quanto già sostenuto in primo e secondo grado ed in particolare che l’art. 29 del contratto collettivo del 25 ottobre 2002 avrebbe introdotto una disciplina dell’incentivo sostitutiva a tutti gli effetti di quella contenuta all’art. 18 lett. E) del CCNL 21 maggio 1996, mentre, con il terzo motivo si deduce la violazione del Contratto collettivo 1994- 1997 e di norme sull’onere della prova, asserendosi non aver le dipendenti dimostrato di aver svolto attività diverse dall’ordinario con riguardo al diritto all’incremento aggiuntivo;
– i due motivi, da esaminarsi congiuntamente per l’intima connessione, non possono trovare accoglimento;
– prescindendo dalla considerazione che congrua è la lettura comparata dei due contratti succedutisi nel tempo effettuata dalla Corte d’Appello, da cui è stata desunta l’insussistenza di qualsivoglia contrasto fra le due discipline, va rilevato che la motivazione del giudice di secondo grado trova il proprio ubi consistam in una valutazione di merito relativa all’allegato carattere “semplice ed ordinario” dei corsi tenuti dal gennaio 2003, in assenza, secondo la Corte, di qualsivoglia elemento a sostegno della maggiore complessità ed innovatività di quelli tenuti in precedenza: valutazione, questa, tipicamente fattuale e non censurabile in sede di legittimità al pari della ritenuta mancata dimostrazione del carattere non ordinario dell’attività svolta;
– d’altra parte, il ricorso non coglie se si considera la motivazione offerta dalla Corte ed il fatto che, per costante giurisprudenza di legittimità, (cfr., fra le più recenti, Cass. n. 20335 del 2017, con particolare riguardo alla duplice prospettazione del difetto di motivazione e della violazione di legge) il vizio relativo all’incongruità della motivazione di cui all’art. n. 360, n. 5, cod. proc. civ., comporta un giudizio sulla ricostruzione del fatto giuridicamente rilevante e sussiste quando il percorso argomentativo adottato nella sentenza di merito presenti lacune ed incoerenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione, o comunque, qualora si addebiti alla ricostruzione di essere stata effettuata in un sistema la cui incongruità emerge appunto dall’insufficiente, contraddittoria o omessa motivazione della sentenza;
– invece, attiene alla violazione di legge, la deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente una attività interpretativa della stessa;
– nella specie, la stessa piana lettura delle modalità di formulazione dei motivi considerati induce ad escludere, ictu oculi, là dove è proposta, la erronea sussunzione nelle disposizioni normative mentovate della fattispecie considerata, apparendo, piuttosto, chiarissima l’istanza volta ad ottenere una inammissibile revisio prioris instantiae;
– in particolare, poi, la Corte chiarisce che non è necessario per il singolo lavoratore, al fine di ottenere le voci retributive in questione, dimostrare di aver svolto la propria opera nell’ambito di una delle quattro tipologie di cui all’art. 8 lett. E del CCNL 1996 ma, invece, che l’incentivo è previsto in favore di coloro che prestano la loro opera “nelle sedi operative caratterizzate da una forte presenza di attività innovative e/o complessità operative” senza però specificare quali siano queste sedi: evidentemente, dice la Corte, la contrattazione regionale ha valutato che tutte le sedi della Sardegna presentino quelle caratteristiche;
– con il secondo motivo di ricorso si deduce l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, allegandosi la mancata dimostrazione, da parte delle lavoratrici, dello svolgimento di attività che potessero giustificare la pretesa di incentivo, mentre con il quarto motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ. e la violazione dell’art. 2697 cod. civ., oltre all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti con riguardo alle prove addotte;
– i due motivi, da esaminarsi congiuntamente per l’intima connessione, sono inammissibili;
– va rilevato, al riguardo, non solo quanto già affermato in tema di distinzione fra violazione di legge e vizio di motivazione, ancora una volta non rispettata, ma anche che, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., disposto dall’art. 54 co 1, lett. b), del DL 22 giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134 che ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte – formatasi in materia di ricorso straordinario – in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità ( fra le più recenti, Cass. n. 23940 del 2017), restando ogni valutazione sulle istanze istruttorie sottratta al giudice di legittimità;
– con il quinto motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in tema di ferie non godute nonché omesso esame degli atti di causa sub specie di violazione dell’art. 360 n. 3 e n. 5 cod. proc. civ.;
– con riguardo al primo profilo va rilevato che parte ricorrente, nel dedurre la violazione di legge con riguardo alla genericamente descritta normativa in tema di diritto alle ferie, in realtà, mira ad ottenere una inammissibile rivisitazione del merito ed in particolare in ordine all’apprezzamento fattuale compiuto dal giudice di secondo grado circa lo svolgimento dell’attività lavorativa quale presupposto per la percezione dell’indennità relativa alle ferie non godute, mentre, anche in ordine al desunto omesso esame, non può non richiamarsi quanto già affermato in tema di nuova formulazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. e della impossibilità per il giudice di legittimità di sostituirsi a quello di merito nella ammissione e valutazione delle prove;
– con il sesto motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 2948 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. e l’omesso esame di elementi decisivi per il giudizio ex art. 360 n. 5;
– la piana lettura della motivazione di secondo grado induce ad affermare che la Corte d’appello abbia condiviso la valutazione di merito effettuata dal giudice di primo grado mediante la quale si escludeva che la T. avesse allegato elementi a sostegno della pretesa prescrizione non essendo stati neanche indicati il numero di dipendenti della sede di Oristano e della T. nel suo complesso ed essendo stata ritenuta tardiva l’allegazione degli stessi in grado di appello, aspetti, questi, che escludono di poter ritenere sussistente ciascuna delle due violazioni nonché di intervenire con una nuova e diversa valutazione di merito in sede di legittimità;
– con il settimo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 91, 329, 336, 342 e 346 cod. proc. civ., asserendosi l’erronea rideterminazione delle spese anche relative al primo grado per effetto dell’intervenuta “triplicazione” delle stesse;
– il motivo non può trovare accoglimento;
– va premesso, al riguardo, che il giudice di appello, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d’ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della lite poiché la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale, mentre, in caso di conferma della sentenza impugnata, la decisione sulle spese può essere modificata soltanto se il relativo capo della sentenza abbia costituito oggetto di specifico motivo d’impugnazione (Sul punto, da ultimo, Cass. n. 9064 del 12 aprile 2018);
– d’altro canto, in tema di liquidazione delle spese giudiziali ai sensi del d.m. n. 140 del 2012, la disciplina secondo cui i parametri specifici per la determinazione del compenso sono, “di regola”, quelli di cui alla allegata tabella A, la quale contiene tre importi pari, rispettivamente, ai valori minimi, medi e massimi liquidabili, con possibilità per il giudice di diminuire o aumentare “ulteriormente” il compenso in considerazione delle circostanze concrete, va intesa nel senso che l’esercizio del potere discrezionale del giudice contenuto tra i valori minimi e massimi non è soggetto a sindacato in sede di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice medesimo decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario, in tal caso, che siano controllabili sia le ragioni dello scostamento dalla “forcella” di tariffa, sia le ragioni che ne giustifichino la misura (in questi termini, Cass. n. 12537 del 10 maggio 2019);
– alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, il ricorso deve essere respinto;
– le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo;
– sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dell’articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
respinge il ricorso. Condanna la società ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore delle controricorrenti, che liquida in complessivi euro 3800,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13.
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