CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 22 giugno 2021, n. 17855
Tributi – IRPEF – Istanza di rimborso – Incentivo all’esodo – Richiesta di riliquidazione delle imposte per ritenute operate dal datore di lavoro – Onere di prova a carico del contribuente di effettiva tassazione delle somme. – Contenzioso tributario – Giudice del rinvio – Vincolo di pronuncia in relazione ai principi enunciati dalla Corte di Cassazione
Rilevato che
1. B.I., ex dipendente del Banco di Napoli, in data 31 maggio 1999 accettava la proposta di esodo volontario incentivato con conseguente risoluzione anticipata del rapporto di lavoro. In base all’accordo sottoscritto presso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale le doveva essere corrisposto, a titolo di incentivo e di sostegno al reddito, “un importo netto” corrispondente a quello dovuto per la prosecuzione volontaria dei contributi necessari a maturare i requisiti minimi per la pensione Inps di anzianità e vecchiaia. Trattandosi di “importo netto”, gravava sul datore di lavoro l’onere economico della “lordizzazione” del contributo stesso che, quindi, doveva essere maggiorato dell’onere fiscale; tale contributo, in quanto componente reddituale di incentivo all’esodo, era assoggettato ai criteri della tassazione separata. Ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. n. 47 del 2000, a partire da 2001, si consentiva al contribuente di dedurre integralmente dal reddito complessivo i contributi versati facoltativamente alla gestione previdenziale di appartenenza, equiparandoli ai contributi obbligatori. Tuttavia, in sede di compilazione del modello CUD la banca, quale sostituto d’imposta, aveva erroneamente inserito la somma versata a titolo di contribuzione volontaria tra i redditi soggetti a tassazione ordinaria, con la conseguente diminuzione dell’ammontare del credito d’imposta spettante al contribuente, causando una maggiore tassazione. In particolare, la ricorrente nell’anno 2005 aveva un reddito totale di euro 65.154,48, sicché da tale reddito avrebbe potuto dedurre l’intera somma di euro 137.918,71, versata a titolo di contribuzione volontaria, riducendo l’imponibile a 0,00. Pertanto, le ritenute Irpef applicate di euro 20.800,24 non andavano versate al fisco, ma dovevano essere restituite interamente alla contribuente. Con istanza presentata in data 27 dicembre 2006 la ricorrente aveva chiesto alla Amministrazione finanziaria di procedere alla riliquidazione dell’Irpef e delle relative addizionali per l’anno 2005, con rimborso derivante dal riconoscimento della deduzione del contributo Inps versato dal datore di lavoro per suo conto.
2. La contribuente aveva, quindi, proposto ricorso avverso il silenzio rifiuto e il giudice di prime cure aveva accolto la domanda di rimborso. Il giudice d’appello rigettava il gravame proposto dall’ufficio.
3. La Corte di cassazione, con ordinanza n. 7133, depositata il 26 marzo 2013 cassava la decisione impugnata e rinviava ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Campania. In particolare, evidenziava che incombeva sulla contribuente l’onere di provare la sussistenza del diritto alla riliquidazione ed al rimborso, dovendo dimostrare che in concreto era stata effettuata la ritenuta sulle somme da parte del sostituto di imposta.
4. Il giudice del rinvio rigettava l’appello dell’Ufficio in quanto l’importo da corrispondere alla contribuente, a titolo di incentivo e di sostegno al reddito, in forza dell’accordo sottoscritto presso il Ministero del lavoro e della previdenza sociale, costituiva un “importo netto”, corrispondente a quello dovuto per la prosecuzione volontaria dei contributi necessari a maturare i requisiti minimi per la pensione Inps di anzianità e vecchiaia. Trattandosi di “importo netto” gravava sul datore di lavoro l’onere economico della “lordizzazione” del contributo stesso che doveva, quindi, essere maggiorato dell’onere fiscale che, in quanto componente reddituale di incentivo all’esodo, era soggetto ai criteri della tassazione separata.
5. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.
6. Resiste con controricorso la contribuente.
Considerato che
1. Anzitutto, deve essere rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione per asserita tardività, sollevata dalla controricorrente.
Invero, il termine “lungo” per impugnare ai sensi dell’art. 327 c.p.c. era quello annuale e non quelle semestrale introdotto solo con la legge n. 69 del 2009, applicabile solo ai giudizi di primo grado introdotti a decorrere dal 4 luglio 2009, quindi iniziati con atto di citazione notificato o ricorso depositato ( o notificato nel processo tributario) a decorrere dal 4 luglio 2009 (Cass., sez. 6-5, 10 agosto 2017, n. 19959).
Infatti, per questa Corte, in materia di cosiddetto termine lungo di impugnazione, l’art. 327 cod. proc. civ., come novellato dall’art. 46 della legge n. 69 del 2009 mediante riduzione del termine da un anno a sei mesi, si applica, ai sensi dell’art. 58 della medesima legge, ai giudizi instaurati, e non alle impugnazioni proposte, a decorrere dal 4 luglio 2009, essendo quindi ancora valido il termine annuale qualora l’atto introduttivo del giudizio di primo grado sia anteriore a quella data (Cass., sez. 2, 4 maggio 2012, n. 6784).
Né il giudizio di rinvio costituisce un giudizio “nuovo”, rappresentando solo la continuazione del giudizio di merito.
Si è affermato, sul punto, che, in tema di incidenza dello “ius superveniens” sul giudizio di rinvio, mentre nell’ipotesi di rinvio cd. prosecutorio (o proprio) ex art. 383, comma 1, c.p.c., il giudice non deve tener conto delle modifiche processuali “medio tempore” intervenute, vertendosi in una fase ulteriore dell’originario procedimento (introdotto secondo le regole in quel momento vigenti), nel caso rinvio cd. restitutorio (o improprio) ex art. 383, comma 3; c.p.c., le sopravvenienze normative incidono, invece, sul nuovo processo che si svolge dinanzi al primo giudice, cui la causa sia stata rimessa in conseguenza dell’annullamento dell’intero procedimento – nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, oltre il termine di sei mesi previsto dalla nuova formulazione dell’art. 327 c.p.c., come “medio tempore” novellato dalla l. n. 69 del 2009, avverso sentenza emessa dalla CTP a seguito di rinvio improprio da parte della Cassazione, conseguente alla violazione della regola sul litisconsorzio necessario tra soci e s.a.s. nell’ambito di processo tributario – (Cass., sez. 6-5, 15 ottobre 2020, n. 22407).
Nel caso in esame, si è in presenza di un rinvio “prosecutorio proprio”, sicché il termine per il ricorso per cassazione, dopo il giudizio di rinvio, è quello annuale di cui all’art. 327 c.p.c., prima delle modifiche di cui alla legge n. 69 del 2009.
1. Con il primo motivo di ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, anche in relazione all’art. 384 c.p.c., comma 2 (art. 360, primo comma, numeri 3 e 4, c.p.c.)”, in quanto il giudice del rinvio ha ritenuto fondata la domanda di rimborso proposta dalla contribuente, senza applicare il principio di diritto enucleato dalla Corte di cassazione, in ordine alla necessità che fosse fornita da parte contribuente la prova della sussistenza dei presupposti per la domanda di rimborso, violando, oltre al disposto di cui all’art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, anche il principio posto dall’art. 384 c.p.c., in base al quale giudice del rinvio deve uniformarsi al principio di diritto e, comunque, a quanto statuito dalla Corte. Pertanto, l’unico accertamento devoluto al giudizio del rinvio era quello di verificare se la contribuente, cui era accollato l’onere della prova, avesse o meno assolto a tale onere probatorio afferente al versamento dell’indebita imposta. Al contrario la Commissione regionale ha totalmente ignorato quanto affermato dalla Suprema Corte, tornando a far valere il concetto di “lordizzazione” ed ignorando del tutto quanto affermato dall’Ufficio in tutti i gradi di giudizio. Invero, il reddito in questione non è stato mai assoggettato a tassazione, né ordinaria, né separata sicché, ai sensi degli articoli 37 e 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, disciplinanti il rimborso di imposte sui redditi, nessun rimborso può competere alla contribuente per ritenute “mai operate” dalla sostituto (Banco di Napoli); infatti, per operare un rimborso, deve esserci necessariamente un’imposta trattenuta o versata, tanto è vero che il termine di decadenza per la presentazione dell’istanza di rimborso delle imposte sui redditi in caso di versamenti diretti, previsto dall’art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, decorre dalla data di ” versamento” dell’acconto ovvero del saldo, a seconda dei casi. Poiché, però, nel caso in esame, non sono state trattenute le imposte, viene meno automaticamente anche il presupposto del rimborso. Tra l’altro, non solo non ci può essere rimborso per somme mai trattenute dal sostituto, ma, anzi, l’Ufficio dovrebbe assoggettare il reddito a tassazione separata con conseguente iscrizione a ruolo. Ipotesi questa non realizzabile in concreto, stante regime di decadenza imposto per il recupero coattivo delle imposte non versate. Anzi, in questo caso, più che di imposte non versate si tratterebbe di imposte neppure dichiarate. Quanto ai contributi volontari si evidenzia che la ricorrente non li ha indicati in deduzione dal reddito dichiarato con il modello 730, mentre gli stessi, totalmente deducibili dal reddito lordo, dovevano essere indicati al rigo E 18 del modello 730, nel quale la parte ha indicato soltanto l’importo di euro 52,00. Né contribuente ha provveduto a modificare la dichiarazione dei redditi, come sarebbe stato possibile sensi dell’art. 2, comma 8-bis del d.P.R. n. 322 del 1998.
2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione e falsa applicazione dell’art. 36, d.lgs. n. 546 del 1992, dell’art. 132 c.p.c., dell’art. 118 disposizioni di attuazione c.p.c. e dell’art. 111 della Costituzione, anche in relazione all’art. 384 c.p.c., comma 2 (art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.)”, in quanto la sentenza impugnata risulterebbe soltanto apparentemente motivata. Il giudice del rinvio avrebbe acriticamente sposato la tesi della contribuente, ignorando quanto statuito dalla Suprema corte, che aveva annullato la sentenza di appello per la riscontrata sussistenza del vizio di motivazione. Il giudice del rinvio, invece, ha rigettato l’appello dell’Ufficio, condividendo proprio la motivazione del giudice di primo grado, già ritenuta dalla Corte insufficiente lacunosa.
La sentenza impugnata, dunque, si è collocata in contrasto con i principi indicati dalla Corte nella sentenza di annullamento con rinvio, ritenendo fondata istanza di rimborso, senza però fornire alcuna motivazione congrua, logica ed esauriente in ordine alla sussistenza del presupposto fattuale del preteso diritto. In tal modo il giudice del rinvio ha completamente travisato la realtà dei fatti. L’iter logico-argomentativo posto a base della pronuncia è del tutto errato nella motivazione della decisione, non investendo la questione controversa nei suoi termini effettivi, come delineati dalla Corte, sicché non è assolutamente idonea a dare conto di quanto deciso.
2.1. Va affrontata preliminarmente la censura sulla motivazione apparente della sentenza pronunciata dal giudice del rinvio, in quanto logicamente pregiudiziale rispetto all’esame del primo motivo.
2.2. Il secondo motivo è infondato.
2.3. Infatti, è vero che la sentenza del giudice del rinvio non ha fatto corretta applicazione del principio di diritto sancito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 7333 del 26 marzo 2013, tuttavia tale decisione reca una motivazione graficamente intellegibile, con l’indicazione di alcuni dei dati di fatto posti alla base della fattispecie esaminata, seppure erroneamente valutati. Pertanto, sussiste una motivazione, non solo graficamente visibile, ma anche con una struttura che la rende intellegibile, anche se non condivisibile, come si vedrà di seguito.
3. Il primo motivo è fondato.
3.1. Invero, la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 7633 del 26 marzo 2013, ha tracciato in modo chiaro, con l’enunciazione di precisi principi di diritto, lo steccato entro il quale il giudice del rinvio, avrebbe dovuto adottare la sua decisione.
In particolare, nel paragrafo cinque della sentenza della Corte di cassazione si evidenzia che “la decisione impugnata sembra aver fatto malgoverno dei richiamati principi, non avendo considerato che incombeva sulla contribuente l’onere di provare la sussistenza del diritto alla riliquidazione ed al rimborso e non avendo esplicitato alla stregua di quali elementi e considerazioni logiche è stato ritenuto sussistente il presupposto fattuale del preteso diritto, tenuto conto della posizione processuale assunta dall’Amministrazione finanziaria nel giudizio di merito e del fatto che la contribuente assume di aver agito per il rimborso del maggior prelievo fiscale, causato dall’indebita aggiunta alla tassazione ordinaria di un imponibile da tassare separatamente”.
Tale principio di diritto è stato preceduto dalla considerazione che secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale il processo tributario, anche nel caso in cui abbia ad oggetto una domanda di rimborso, costituisce sempre un giudizio di impugnazione di un atto autoritativo, per cui è l’atto impugnato (o il silenzio serbato dall’ufficio sull’istanza del contribuente) ad esprimere la posizione processuale dell’Amministrazione in giudizio. Tale posizione può essere modificata con un idoneo atto di autotutela; sicché, ove l’onere della prova dei fatti costitutivi della pretesa fatta valere in giudizio non incombe alla Amministrazione finanziaria, quest’ultima non ha l’onere di contestare espressamente i fatti affermati dal contribuente, “incombendo sul contribuente che chiede rimborso l’onere di provare la sussistenza dei relativi presupposti”. Questo era il contenuto della “relazione” sulla manifesta fondatezza del ricorso per cassazione, da decidere in camera di consiglio ai sensi degli articoli 375 e 380 bis c.p.c., all’epoca vigenti.
Il collegio ha condiviso pienamente il contenuto della relazione, affermando che “alla stregua dei richiamati e condivisi principi, il ricorso va accolto, per manifesta fondatezza del mezzo con cui si denuncia il vizio di motivazione, non risultando le espressioni utilizzate, di per sé idonee a giustificare il deciso”. Si è precisato, infine, che il giudice del rinvio, “procederà al riesame e, quindi, adeguandosi ai richiamati principi, deciderà nel merito”.
Pertanto, la sentenza impugnata era stata cassata sia per violazione di legge, in ordine alla scorretta applicazione del principio di distribuzione dell’onere della prova, sia per vizio di motivazione (con riferimento alla motivazione cfr. paragrafo 4 bis della ordinanza della Cassazione n. 7633 del 2013 “considerando che ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunziabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 5 cpcp, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi senza un’approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento“). Inoltre, in tale ordinanza si è sottolineato che “illogica ed incongrua, in particolare, appare l’espressione utilizzata in motivazione per la quale <<il Banco di Napoli non ha assoggettato l’importo lordo né a tassazione ordinaria né a tassazione separata>>, ma poi il giudice d’appello aveva rigettato il gravame dell’Agenzia delle entrate.
Nell’ordinanza si faceva, infatti, riferimento anche al vizio di motivazione (” alla stregua dei richiamati e condivisi principi, il ricorso va accolto, per manifesta fondatezza del mezzo con cui si denuncia il vizio di motivazione, non risultando le espressioni utilizzate, di per sé idonee a giustificare deciso”).
Per questa Corte, infatti, nel giudizio di rinvio, i limiti dei poteri attribuiti al giudice sono diversi a seconda che la sentenza di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per l’una e per l’altra ragione: nella prima ipotesi, il giudice di rinvio è tenuto solo ad uniformarsi al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo; nel caso, invece, di cassazione con rinvio per vizio di motivazione, da solo o cumulato con il vizio di violazione di legge, il giudice è investito del potere di valutare liberamente i fatti già accertati ed anche d’indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo, in relazione alla pronuncia da emettere in sostituzione di quella cassata (Cass., 6 luglio 2017, n. 16660; Cass., 3 giugno 2020, n. 10549). In tale ultima ipotesi, di annullamento sia per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, sia per vizi di motivazione, la potestas iudicandi del giudice del rinvio, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione ex novo dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità (Cass., sez. 2, 14 gennaio 2020, n. 448).
Tra l’altro, per le sezioni unite di questa Corte, in caso di ricorso per cassazione avverso la pronuncia del giudice di rinvio per violazione della precedente statuizione di annullamento, il sindacato della S.C. si risolve nel controllo dei poteri propri del suddetto giudice, poteri che, nell’ipotesi di rinvio per vizio di motivazione, si estendono non solo alla libera valutazione dei fatti già accertati, ma anche alla indagine su altri fatti, con il solo limite del divieto di fondare la decisione sugli stessi elementi già censurati del provvedimento impugnato e con la preclusione rispetto ai fatti che il principio di diritto eventualmente enunciato presuppone come pacifici o accertati definitivamente (Cass., sez.un., 3 settembre 2020, n. 18303).
Inoltre, per questa Corte nell’ipotesi di annullamento con rinvio per violazione di norme di diritto, la pronuncia della Corte di cassazione vincola al principio affermato ed ai relativi presupposti in fatto, sicché il giudice di rinvio deve uniformarsi non solo alla regola giuridica enunciata, ma anche alle premesse logico-giuridiche della decisione adottata, attenendosi agli accertamenti già compresi nell’ambito di tale enunciazione (Cass., sez. 5, 24 luglio 2018, n. 19594).
3.2. Il giudice del rinvio, discostandosi dai principi indicati in modo chiaro dalla Corte di cassazione, non ha applicato il principio dell’onere della prova, in quanto, trattandosi di materia di rimborsi, era onere del contribuente dimostrare che il Banco di Napoli avesse in concreto effettuato la trattenuta, come ritenuta alla fonte, quale sostituto d’imposta, sulla somma versata in favore della contribuente. Del resto, il Banco di Napoli ha negato di aver effettuato tale trattenuta ed ha dichiarato di non avere mai assoggettato il reddito a tassazione, né ordinaria, né separata. Deve, dunque, accertarsi se la contribuente abbia o meno assolto il proprio onere probatorio afferente al versamento dell’indebita imposta.
È chiaro, infatti, che nessun rimborso può competere alla contribuente se le ritenute non sono state mai operate dal sostituto, in quanto, per operare un rimborso, deve esserci necessariamente un’imposta trattenuta o versata. Il presupposto dell’istanza di rimborso consiste nell’avvenuto indebito versamento di somme in favore del Fisco, sicché la contribuente deve dimostrare o che le ritenute sono state effettuate dal datore di lavoro oppure di aver effettuato versamenti diretti in favore del fisco.
Del resto, per questa Corte è onere del contribuente dimostrare l’avvenuta effettuazione di ritenute per le quali chiedere il rimborso. In mancanza di tale prova, dunque, non può procedersi alla riliquidazione dell’imposta (Cass., 20 luglio 2018, n. 19349, proprio in relazione a fattispecie attinente ad altro dipendente del Banco di Napoli). Inoltre, trattandosi di liti di rimborso, la contribuente deve adempiere al proprio onere probatorio, quale attore in senso sostanziale, avendo affermato di avere diritto alla riliquidazione del prelievo fiscale cui sarebbe stato assoggettato nell’anno di riferimento, quale presupposto del proprio diritto al rimborso (Cass., sez. 5, 29 marzo 2019, n. 8831, sempre in relazione alla posizione di altro dipendente del Banco di Napoli; anche Cass., sez. 6-5, 14 novembre 2013, n. 25565).
4. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, che dovrà adeguarsi al principio di diritto di cui al paragrafo 3.2. e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo; rigetta il secondo; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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