CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 22 luglio 2020, n. 15586
Tributi – Accertamento – Attività di commercio al dettaglio di abbigliamento – Pagamenti con moneta elettronica superiori agli scontrini emessi
Rilevato
La ricorrente, esercente in forma di impresa familiare attività di commercio al dettaglio di capi d’abbigliamento, per l’anno d’imposta 2005 era attinta da avviso di accertamento del reddito, redatto in forma analitico-induttiva sulla scorta del confronto tra gli scontrini emessi nel 2005 e i pagamenti ricevuti con moneta elettronica nello stesso periodo. Da tale raffronto emergevano, in particolare, maggiori pagamenti per €.62.560,00 per i quali non erano stati emessi scontrini fiscali. Rideterminato il reddito in €.70.302,00 a fronte dei dichiarati €.18.168,00, l’Ufficio procedeva al recupero delle maggiori imposte e all’irrogazionl delle relative sanzioni.
Investita della impugnazione dell’avviso, la CTP si pronunciava in favore della contribuente, ritenendo da un lato non idoneo il metodo di accertamento utilizzato dall’Agenzia, che era basato unicamente sul raffronto tra scontrini e pagamenti POS o tramite carte di credito; dall’altro che l’evasione sarebbe configurabile solo in relazione ai pagamenti per contanti e non anche in presenza di moneta elettronica in considerazione della sua tracciabilità. Per questo imputava la discrepanza tra scontrini e pagamenti rilevata dall’Ufficio semplicemente ad un differimento nella stampa dello scontrino rispetto al momento del pagamento.
Su appello dell’Agenzia della Entrate, la CTR riformava la sentenza, rimarcando l’obbligo di emissione dello scontrino anche in caso di differimento della consegna delle merci e non apprezzando le tesi della contribuente circa lavori sartoriali sui capi venduti.
Ricorre la contribuente affidandosi a tre motivi, cui replica l’Avvocatura.
In prossimità dell’udienza, la contribuente ha depositato memoria.
Considerato
0. Occorre in via preliminare dichiarare inammissibilità del ricorso nei confronti del Ministero dell’Economia e della Finanze – MEF in quanto soggetto privo di legittimazione passiva.
1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta violazione o falsa applicazione di norme di diritto di cui all’art.39, 1° comma, lett.d) d.P.R. 29 Settembre 1973 n.600; all’art.54 d.P.R. 26 ottobre 1972, n.633; 9 e 25 d. lgs. 15 dicembre 1997 n.446; violazione o falsa applicazione di norme di diritto di cui agli artt. 2727 e 2729 cod. civ. (artt. 62 d. lgs 31 dicembre 1992 n.546 e 360 n.3 cod. proc. civ.).
In buona sostanza si ritiene che sia stato violato il divieto di doppia presunzione, perché il fatto noto della discordanza tra ricavi contabilizzati e pagamenti elettronici, preso a riferimento dall’Ufficio per procedere all’accertamento analitico induttivo, non costituirebbe fatto univoco e certo da cui dedurre il maggior reddito, ma sarebbe esso stesso a sua volta il risultato di una presunzione.
Il motivo è infondato.
La Commissione territoriale, in vero, ha evidenziato come a fronte di pagamenti tramite POS e carte di credito in numero superiore agli scontrini emessi, la contribuente non abbia saputo produrre gli scontrini mancanti, anche eventualmente emessi in un secondo momento, né abbia giustificato validamente la loro mancanza, specie con riferimento alle richiamate attività sartoriali.
Quello rilevato dai giudici di appello è, dunque, correttamente inquadrato e valutato come fatto noto determinante per il sorgere della presunzione di maggiori ricavi.
2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione o falsa applicazione di norme di diritto di cui all’art. 2697 cod.civ. (artt.63 d. lgs. 31 dicembre 1992 n.546 e 360 n.3 cod. proc. civ.), in quanto la CTR avrebbe ritenuto assolto l’onere della prova da parte dell’Ufficio circa i maggiori ricavi semplicemente affermando il maggior numero di incassi POS rispetto agli scontrini emessi.
Il motivo è infondato.
L’orientamento di questa Corte, cui si intende dare continuità, è nel senso che all’Ufficio spetta solo fornire indizi che, ove non contestati dal contribuente, valgono come presunzioni.
Il dato oggettivo di pagamenti tramite POS e carte di credito in numero superiore agli scontrini emessi è stato inquadrato e valutato come fatto noto determinante per il sorgere della presunzione di maggiori ricavi, che ha fatto nascere in capo alla contribuente l’onere di provare, con idonea documentazione, l’assenza di qualsiasi discordanza e di giustificare con documenti fiscali tutti gli incassi rilevati dall’Ufficio; onere che la contribuente ha cercato di adempiere solo sminuendolo nella sua portata, ipotizzando l’emissione di scontrini in tempi diversi rispetto al pagamento effettuato in sede di vendita del capo di abbigliamento, ma senza fornire alcuna prova documentale e giustificativa di tali pagamenti, o anche dimostrando l’avvenuta registrazione e contabilizzazione dei ricavi provenienti dai pagamento con moneta elettronica (Cfr. Cass. n. 21078/2018, n. 20109/2018).
Non vi è, dunque, stata la lamentata violazione delle regole in punto di onere della prova.
3. Con il terzo motivo si rileva la omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio consistente nell’avvenuta (e contestata) sussistenza di maggiori ricavi corrispondenti al complessivo ammontare del divario tra (date di) scontrini emessi e (date di) pagamento ottenuti con l’utilizzo di carte di credito e bancomat (artt. 62 d. lgs. 31 dicembre 1992 n.546 e 360 n.5 cod. proc. civ.). In buona sostanza la insufficienza di motivazione risiederebbe nel mancato apprezzamento delle ragioni della contribuente circa la possibile discrepanza fra incasso ed emissione del titolo fiscale. Il motivo è inammissibile.
La ricorrente, invero, nella censura in esame contrappone a quella della CTR una sua valutazione di merito non scrutinabile in cassazione. Emerge, peraltro, dal testo della sentenza (esemplificativamente alla fine pagina 4 e inizio pagina 5) che la commissione territoriale abbia esaminato compiutamente gli assunti della contribuente, avendo la CTR preso puntuale posizione su di essi, con una valutazione immune da vizi logico-giuridici.
4. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.
5. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
dichiara il ricorso inammissibile nei confronti del Ministero per l’Economia e Finanza, nel merito lo rigetta. Condanna la ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio che liquida in €.5.600,00 (cinquemilaseicento), oltre spese prenotate a debito.
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