CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 22 marzo 2022, n. 9198
Tributi – Accertamento – Impresa familiare – Maggior reddito – Imputazione pro-quota al titolare ed ai familiari – Esclusione – Imputazione al solo titolare dell’impresa
Rilevato che
A seguito di controllo della documentazione presentata da M.P., in risposta ad apposito questionario notificatogli, la Direzione provinciale di Livorno – essendo emersa, tra l’altro, l’omessa registrazione da parte dell’impresa familiare di una fattura, contenente la voce “anticipo parziale partnership”, equiparabile a un anticipo sull’indennità di fine rapporto, tassabile al momento della percezione- emise avviso di accertamento, rettificando i redditi dichiarati dal contribuente nell’anno 2008, per maggiori IRPEF, IRAP e IVA, oltre addizionali, sanzioni e interessi.
L’avviso di accertamento venne impugnato dal contribuente il quale eccepì il difetto di legittimazione passiva per le riprese a tassazione IRPEF corrispondenti al 49% dei maggiori redditi accertati, spettanti al coniuge. Nel merito, invece, M.P. contestava che la somma, percepita come anticipo parziale partnership, fosse equiparabile all’indennità di fine rapporto, mentre nessuna contestazione venne effettuata sugli altri recuperi dell’Ufficio per i quali il contribuente provvide a effettuare un versamento, ricalcolando le imposte dovute, nei limiti della quota del 51% degli imponibili.
La Commissione tributaria provinciale accolse parzialmente il ricorso, confermando l’imponibile accertato in euro 73.440,68 da assoggettarsi a tassazione separata.
La decisione, appellata da M.P., è stata integralmente confermata dalla Commissione tributaria regionale della Toscana, sezione di Livorno (d’ora in poi C.T.R.), con la sentenza indicata in epigrafe.
Il Giudice di appello, per quello che ancora rileva, riteneva infondata l’eccezione di difetto di legittimazione passiva in relazione all’imputazione del residuo 49% di reddito ulteriore, accertato al titolare dell’impresa familiare, invece che ai familiari partecipanti, in quanto, in tale forma di impresa, l’imprenditore era solo il titolare e non i collaboratori.
Riteneva, ancora, che la sentenza appellata – che pur confermando l’accertato ne aveva disposto l’assoggettamento a tassazione separata – non era viziata da extrapetizione e che dal rigetto dell’appello conseguiva anche la reiezione della domanda proposta ex art. 96 cod.proc.civ.
Avverso la sentenza M.P. ha proposto ricorso su cinque motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Il ricorso è stato avviato, ai sensi dell’art.380 bis-1 cod.proc.civ., alla trattazione in camera di consiglio, in prossimità della quale il ricorrente ha depositato memoria.
Considerato che
1. con il primo motivo di ricorso -rubricato: violazione dell’art. 132 co. 1 nr. 4 c.p.c. e 36 co. 1 nr.4 d.igs.31 dicembre 1992 n. 546, in relazione all’art. 360 co. 1 nr.4 c.p.c.- si lamenta che la C.T.R. non abbia motivato, se non apparentemente e contraddittoriamente, la ritenuta possibilità del Giudice tributario di riqualificare un maggior reddito accertato quale reddito di impresa, concorrente alla formazione del reddito complessivo, in reddito di lavoro autonomo soggetto a tassazione separata.
2. Con il secondo motivo, sulla base delle stesse disposizioni di legge, dedotte come violate con il primo mezzo, si evidenzia la mera apparenza della motivazione, laddove la C.T.R. aveva ritenuto l’appellante legittimato passivo quanto alla quota del 49% del maggior reddito d’impresa prodotto in regime di azienda familiare ai sensi dell’art.230 bis cod.civ. e dell’art.5, quarto comma, del d.P.R. n.917 del 1986.
3. I mezzi, afferendo entrambi a vizi attinenti alla motivazione della sentenza, possono trattarsi congiuntamente e sono infondati. Per la giurisprudenza consolidata di questa Corte (cfr. Cass. n.1756 del 27/01/2006; id n.9113 del 06/06/2012; id n.9105 del 07/04/2017; id n. 13248 del 30/06/2020) ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, ovvero indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento.
3.1. Nella specie, per entrambi i capi di sentenza impugnata, dalla lettura della motivazione emerge che il Giudice di appello abbia argomentato la sua decisione. Nel primo capo, affermando che la richiesta di applicazione del regime di tassazione separata era contenuta nel ricorso introduttivo (v.pag. 5 della sentenza) proposto dal contribuente e, nel secondo, che la sussistenza della legittimazione passiva trova titolo nell’essere titolare dell’impresa familiare (v.pag.4 della sentenza).
4. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, ai sensi dell’art.360, primo comma, num.3 cod.proc.civ., la violazione o falsa applicazione degli artt.230 bis cod.civ. e 5, quarto comma, del d.P.R. n.917 del 1986, laddove la C.T.R. aveva affermato che il maggior reddito accertato, prodotto in regime di impresa familiare, dovesse essere assoggettato a tassazione unicamente presso l’imprenditore e non presso i collaboratori, senza che fosse mai stata contestata l’esistenza, in fatto e in diritto, dei presupposti formali e sostanziali previsti dall’art.5, quarto comma, del d.P.R. n.917/1986.
4.1 La censura è infondata. La sentenza impugnata si muove lungo il solco interpretativo tracciato dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte che, anche di recente (cfr. Cass n. 34222 del 20/12/2019) ha ribadito che <<in materia di impresa familiare, il reddito percepito dal titolare, che è pari al reddito conseguito dall’impresa al netto delle quote di competenza dei familiari collaboratori, costituisce un reddito d’impresa, mentre le quote spettanti ai collaboratori – che non sono contitolari dell’impresa familiare – costituiscono redditi di puro lavoro, non assimilabili a quello di impresa, e devono essere assoggettati all’imposizione nei limiti dei redditi dichiarati dall’imprenditore; ne consegue che, dal punto di vista fiscale, in caso di accertamento di un maggior reddito imprenditoriale, lo stesso deve essere riferito soltanto al titolare dell’impresa, rimanendo escluso che possa essere attribuito “prò quota” agli altri familiari collaboratori aventi diritto alla partecipazione agli utili d’impresa>> (v., in senso conforme, anche Cass.n.7995 del 2017).
5. Con il quarto motivo, articolato ai sensi deirart.360, primo comma, num.4, cod.proc.civ., si deduce la violazione degli articoli 112 e 164 cod.proc.civ.; 41, secondo comma; 42, secondo comma, e 43 del d.P.R. n.600 del 1973; 1, comma 412 della legge n.311 del 2004 ad opera della C.T.R. laddove aveva affermato che al Giudice tributario, nel contesto di un processo di impugnazione-merito, era consentito riqualificare il maggior reddito di impresa accertato come reddito di impresa concorrente alla formazione del reddito di lavoro autonomo assoggettato a tassazione separata.
5.1. La censura non merita accoglimento. Invero, è principio consolidato di questa Corte (di recente ribadito da Cass.n. 18777 del 2020; id.n.ri 7696 del 2020, 21290 del 2020, 8510 del 2021) quello secondo cui «Il processo tributario è annoverabile tra quelli di “impugnazione-merito”, in quanto diretto ad una decisione sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente sia dell’accertamento dell’Ufficio, sicché il giudice, ove ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi al suo annullamento, ma deve esaminare nel merito la pretesa e ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte, restando, peraltro, esclusa dall’art. 35, comma 3, ultimo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992, la pronuncia di una sentenza parziale solo sull’ “an” o di una condanna generica» (Cass. n. 13294 del 28/06/2016, Rv. 640171; in termini, tra le tante, Cass. n. 24611 del 2014, n. 26157 del 2013, n. 13034 del 2012 nonché Cass., Sez. U., n. 13916 del 2006). Principio, questo, che muove sulla scia di quello, analogamente condivisibile, secondo cui «Il processo tributario è a cognizione piena e tende all’accertamento sostanziale del rapporto controverso, con la conseguenza che solo quando l’atto di accertamento sia affetto da vizi formali a tal punto gravi da impedire l’identificazione dei presupposti impositivi e precludere l’esame del merito del rapporto tributario – come nel caso in cui vi sia difetto assoluto o totale carenza di motivazione – il giudizio deve concludersi con una pronuncia di semplice invalidazione, ostandovi altrimenti il principio di economia dei mezzi processuali, che consente al giudice di avvalersi dei propri poteri valutativi ed estimativi ai fini della decisione e, in forza dei poteri istruttori attribuiti dall’art. 7 del d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, di acquisire “aliunde” i relativi elementi, prescindendo dagli accertamenti dell’Ufficio e sostituendo la propria valutazione a quella operata dallo stesso» (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 11935 del 13/07/2012).
Pertanto, quando «il giudice […] ravvisata l’infondatezza parziale della pretesa dell’amministrazione», o questa comunque emerga dagli atti, «non deve né può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve quantificare la pretesa tributaria entro i limiti posti dal “petitum” delle parti» (Cass. n. 17072 del 2010), dando «alla pretesa dell’amministrazione un contenuto quantitativo diverso da quello sostenuto dalle parti contendenti, avvalendosi degli ordinari poteri di indagine e di valutazione dei fatti e delle prove consentiti dagli artt. 115 e 116 c.p.c., […] in tal modo determinando il reddito effettivo del contribuente, e senza che ciò costituisca attività amministrativa di nuovo accertamento, rappresentando invece soltanto l’esercizio dei poteri di controllo, di valutazione e di determinazione del quantum della pretesa tributaria» (Cass. n. 1852 del 2008), oppure costituisca violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, essendo chiaramente consentito al giudice tributario, in un giudizio che non è solo “sull’atto”, da annullare, ma anche e principalmente sul rapporto sostanziale tra amministrazione finanziaria e contribuente, la riduzione della pretesa avanzata dalla prima con l’atto impositivo.
5.2 La sentenza impugnata, che, con ampia motivazione in diritto, ha ritenuto corretta la sentenza di primo grado (che, a sua volta, determinando l’imponibile, ne aveva anche statuito l’assoggettamento a tassazione separata) è conforme ai superiori principi, espressamente richiamati, anche laddove esclude la dedotta extrapetizione, dando atto che il contribuente, sin dal ricorso introduttivo, aveva dedotto che i redditi pari a euro 73.440,68, in quanto assimilabili a indennità di fine rapporto avrebbero dovuto essere imputati a tassazione separata.
6. Con il quinto motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art.360, primo comma, num.5 cod.proc.civ., la violazione degli artt. 1, comma 412 della legge n.311 del 2004 e 36 bis del d.p.r. n.600 del 1973. Si censura la sentenza impugnata laddove la C.T.R. aveva avallato la pretesa tributaria, azionata tramite avviso di accertamento, mentre avrebbe dovuto annullare l’atto in quanto non emesso mediante la procedura di liquidazione di cui al citato articolo 36 bis.
6.1 La censura è infondata alla luce dei principi illustrati per rigettare il quarto motivo di ricorso, dovendosi, peraltro verso, ribadire l’ulteriore principio secondo cui nessuna illegittimità può ravvisarsi nell’operato dell’Amministrazione allorquando venga seguita una procedura più garantista per il contribuente, come nel caso in esame.
7.In conclusione, alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso va rigettato.
8.Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente alla refusione in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese che liquida in complessivi euro 5.600 (cinquemilaseicento), oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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