CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 febbraio 2021, n. 4890
Licenziamento disciplinare – Interposizione fittizia di manodopera – Separazione delle cause – Mancato rilievo officioso di questioni di puro diritto – Non ipotizzabile la consumazione di altro vizio “processuale” diverso dall’error iuris in iudicando
Rilevato che
1. I.I.K. convenne innanzi al Tribunale di Milano la C. Logistics Italia Srl deducendo di aver prestato attività lavorativa presso il reparto scarico merci dello stabilimento sito in Pomezia, quale addetto ai carrelli elevatori dal 2003 al 2012, formalmente inquadrato alle dipendenze di varie cooperative, l’ultima delle quali – la S. Società Cooperativa a r.l. – pure evocata in giudizio per impugnare il licenziamento disciplinare dalla medesima comminato; l’attore allegò che l’attività prestata si inseriva in rapporti intrattenuti dalla C. con Premium-Net Società Consortile per azioni prima e con P. Logistic società cooperativa poi, alle quali era stata concessa in appalto la gestione del reparto di cui innanzi, appalto espletato mediante una serie di contratti di sub-appalto stipulati con le diverse cooperative di cui era stato socio lavoratore il ricorrente; quest’ultimo chiese, pertanto, che l’adito Tribunale accertasse la “interposizione fittizia di manodopera quale somministrazione irregolare e/o fraudolenta e/o comunque l’appalto irregolare di manodopera o servizi”, azionando plurime domande conseguenziali;
2. il giudice del lavoro di primo grado, integrato il contraddittorio con Premium-Net Società Consortile per azioni e con P. Logistic società cooperativa, acquisì i verbali delle deposizioni testimoniali rese in analogo procedimento instaurato da un collega di lavoro dell’I.I.K. contro C. Logistics Italia Srl; con ordinanza rilevò che “i profili di censura rispetto alla regolarità del rapporto associativo rappresentano, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., questioni pregiudiziali rispetto alla domanda volta ad ottenere l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento”, per cui dispose la separazione dell’impugnativa di licenziamento proposta contro la sola convenuta S. Società cooperativa affinché venisse trattata dal Tribunale delle Imprese dello stesso Ufficio milanese e la prosecuzione del giudizio innanzi a sé per le altre domande; indi, all’esito della successiva udienza di discussione del 21 maggio 2014, le rigettò;
3. la Corte di Appello di Milano, con sentenza pubblicata il 14 settembre 2017, ha respinto l’appello del soccombente;
preliminarmente ha disatteso la doglianza con cui si era lamentata la violazione dell’art. 101, comma 2, c.p.c., per non avere il primo giudice rispettato il contraddittorio decidendo la questione pregiudiziale che aveva portato alla separazione delle cause senza preventivamente sottoporla alle parti;
nel merito ha condiviso l’assunto del Tribunale che aveva escluso l’interposizione fittizia, ritenendo dirimente la testimonianza resa dallo stesso K. nel procedimento promosso da un suo collega di lavoro, confermata anche da altre deposizioni;
4. per la cassazione di tale sentenza propone ricorso I.I.K. con 3 motivi; resistono C.L. Italia srl e Premium-Net Società Consortile per azioni; nessuna attività difensiva svolgono le altre intimate;
Considerato che
1. il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 101, comma 2, c.p.c., per avere la Corte di Appello negato che il primo giudice avesse violato il contraddittorio disponendo la separazione delle domande relative al licenziamento da quelle relative alla interposizione di manodopera, senza preventivamente instaurare il contraddittorio sulla questione;
2. il motivo non può trovare accoglimento; resta fermo il principio stabilito dalle Sezioni unite di questa Corte (sent. n. 20935 del 2009) che ha predicato la validità e non anche la nullità delle sentenze, definite dalla dottrina “della terza via”, nel caso di omessa indicazione alle parti del tema rilevato in via officiosa dal giudice (conf., tra le altre, Cass. n. 17495 del 2011; Cass. n. 8936 del 2013; Cass. n. 2984 del 2016; Cass. n. 17473 del 2018);
la pronuncia ha sancito che “per effetto del solo mancato rilievo officioso (e della conseguente, mancata segnalazione tempestiva alle parti) di questioni di puro diritto non sembra seriamente ipotizzabile, pur a fronte della violazione di un dovere “funzionale” del giudicante, la consumazione di altro vizio “processuale” diverso dall’error iuris in iudicando (ovvero ancora in iudicando de iure procedendo), la cui denuncia in sede di legittimità consentirebbe la cassazione della sentenza se (e solo se) tale error iuris risulti in concreto predicabile perché in concreto consumatosi …. di conseguenza, saranno le sole questioni di fatto ovvero miste, di fatto e di diritto, a legittimare la parte soccombente (a prescindere dalla censura di erroneità della soluzione) a dolersi del decisum sostenendo che la violazione di quel dovere di indicazione ha vulnerato la facoltà di chiedere prove (o, in ipotesi, di ottenere una eventuale rimessione in termini)”;
pertanto il ricorrente in cassazione, se avesse ritenuto la questione trattata d’ufficio, senza interpello, di mero diritto, non avrebbe potuto limitarsi a dedurre la violazione dell’art. 101, comma 2, c.p.c., quale errore di attività del giudice, ma, piuttosto, avrebbe dovuto censurare l’errore di diritto eventualmente compiuto dal giudice nella soluzione adottata; ove mai, invece, avesse ritenuto che la questione fosse di fatto ovvero mista, avrebbe dovuto evidenziare quale era stato il pregiudizio concreto e apprezzabile portato alle sue prerogative processuali, in termini di lesione del diritto di difesa, in coerenza con una concezione del processo che ripudia il collegamento del danno processuale alla mera irregolarità e in sintonia con i parametri, oggi recepiti anche in ambito costituzionale e sovranazionale, di effettività, funzionalità e celerità dei modelli procedurali (cfr. Cass. n. 4506 del 2016); nulla di ciò ha prospettato parte ricorrente, senza neanche considerare che la separazione delle domande è questione di diritto e l’esercizio del potere discrezionale che lo dispone non è censurabile in sede di legittimità (Cass. n. 4465 del 1997; Cass. n. 11831 del 2003; Cass. n. 19299 del 2006; Cass. n. 8446 del 2019); inoltre la Corte territoriale ha comunque ritenuto “essere stato proprio (l’appellante I.) ad introdurre la questione processuale del rapporto associativo in relazione alla quale le parti convenute, costituendosi, ne hanno contestato la fondatezza”, evidentemente valutando che la questione era stata sottoposta al contraddittorio, con un apprezzamento del contenuto degli atti processuali che spetta al giudice del merito;
3. il secondo motivo denuncia: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 244 c.p.c. e 2697 c.c., erronea inversione dell’onere della prova relativamente alla non genuinità del rapporto associativo. Violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 230 e 244 c.p.c., in relazione alla applicazione della normativa di cui all’articolo 2 della legge n. 142 del 2001, anziché quella stabilita di cui agli artt. 7-8 della legge n. 300 del 1970 (articolo 360, n. 3, c.p.c.)”; si sostiene che la Corte territoriale avrebbe erroneamente condiviso l’assunto del primo giudice che avrebbe “invertito l’onere probatorio in merito alla dimostrazione della non genuinità del rapporto associativo, ponendolo a carico del socio lavoratore”,
4. il motivo è inammissibile;
esso, oltre ad essere inconferente rispetto alla fondamentale ratio decidendi della sentenza impugnata che sta tutta nella mancanza di prova della dedotta interposizione fittizia di manodopera piuttosto che nell’assenza di un genuino rapporto associativo con le cooperative, invoca impropriamente e promiscuamente sia la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. che dell’art. 2697 c.c.;
in tema di valutazione delle prove il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012 (tra le altre v. Cass. n. 23940 del 2017); disposizione quest’ultima che, per i giudizi di appello instaurati dopo il trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge 7 agosto 2012 n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, neanche può essere invocata nella specie rispetto ad un appello promosso dal ricorrente dopo la data sopra indicata (art. 54, comma 2, del richiamato d.l. n. 83/2012), con ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello che conferma la decisione di primo grado, ove il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., in base al quale il vizio di cui all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme; v. Cass. n. 23021 del 2014);
quanto alla violazione dell’art. 2697 c.c. essa è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella specie parte ricorrente critica l’apprezzamento operato dai giudici del merito opponendo una diversa valutazione;
5. parimenti inammissibile il terzo motivo con cui si denuncia “violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 230 e 244 c.p.c. su questione dirimente e decisiva”, sostenendo che la sentenza impugnata avrebbe “erroneamente valutato la prova testimoniale e quella documentale e ha quindi travisato i fatti e gli atti”;
infatti, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa;
l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (tra le recenti: Cass. n. 3340 del 2019);
il riferimento del ricorrente alla pretesa erronea valutazione di prove testimoniali e documentali conclama che egli solo formalmente denuncia un error in iudicando, mentre nella sostanza si duole di come i giudici del merito abbiano apprezzato i fatti, invocando un sindacato precluso a questa Corte di legittimità;
6. conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo in favore di ciascuna delle controricorrenti; nulla per le spese delle altre società intimate che non hanno svolto attività difensiva; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%, in favore di ciascuna delle controricorrenti.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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