CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 febbraio 2022, n. 6063
Tributi – Accertamento – Contratto di stock lending agreement – Conseguimento di vantaggi fiscali senza ulteriori apprezzabili ragioni economiche – Nullità
Rilevato che
1. La B. s.r.l. ricorre, con sei motivi, per la cassazione della sentenza n. 375/06/2016 della Commissione tributaria regionale del Veneto, depositata in data 16 marzo 2016, che ha rigettato l’appello della contribuente contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Vicenza, che aveva rigettato il ricorso della medesima società avverso l’avviso di accertamento notificatole dall’Agenzia delle Entrate ed avente ad oggetto l’Ires, l’Iva e l’Irap di cui all’anno d’imposta 2007.
E’ in atti memoria della ricorrente.
Considerato che
1. Preliminarmente, si rileva che i primi quattro motivi attengono alla decisione della sentenza impugnata in ordine all’identico rilievo, di cui all’accertamento, pertinente il contratto di stock lending concluso dalla contribuente e vanno pertanto trattati congiuntamente. Nella sentenza impugnata il giudice a quo richiama in fatto la descrizione della fattispecie contenuta nell’avviso di accertamento, rappresentata dal contratto di prestito alla B. s.r.l. di azioni della società T.C. e S. s.a., società avente sede nella zona franca di Madeira, da parte della DFD Czech, società di diritto ceco, che era titolare dei titoli azionari prestati.
La CTR conferma « l’invalidità del contratto che sostanzialmente è stato posto in essere allo scopo di conseguire indebiti vantaggi fiscali, senza ulteriori apprezzabili ragioni economiche e con un’alea che, in concreto, attese le modalità dell’operazione e le evidenti asimmetrie informative riscontrate tra le parti, si è apprezzata come inesistente».
2. Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 37-bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e/o del principio di abuso del diritto insito nell’ordinamento e/o dell’art. 10 bis legge 27 luglio 2000, n. 212, per avere la CTR erroneamente rigettato il motivo d’appello relativo all’eccepita nullità dell’atto impositivo, a causa della mancata previa insaturazione del contraddittorio preventivo, non avendo l’Ufficio richiesto alla contribuente i chiarimenti previsti a pena di nullità dalle predette disposizioni, espressioni di un principio da applicare, secondo la ricorrente, ad ogni tipologia di accertamento antielusivo. Inoltre, aggiunge la ricorrente, la CTR avrebbe anche errato nell’affermare che nel caso di specie un contraddittorio vi era stato comunque, attraverso la formulazione, da parte della contribuente, di un’istanza di accertamento per adesione, atteso che quest’ultima si collocava in una fase successiva all’emissione ed alla notifica dell’avviso d’accertamento, e non preventiva.
3. Con il secondo motivo di ricorso la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 36 d.lgs. n. 546 del 1992, perché la motivazione resa dalla CTR non avrebbe «preso atto delle contrastanti deduzioni di B., rinviando pedissequamente alle indicazioni dell’Amministrazione finanziaria».
4. Con il terzo motivo di ricorso la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 10, terzo comma, della legge n. 212 del 2000 e degli artt. 2697, 2727 e 2729 cod. civ., per avere la CTR «ritenuto che l’inesistenza di alea e la finalità del contratto (conseguimento di asseriti indebiti vantaggi fiscali senza ulteriori apprezzabili ragioni economiche) conducano all’invalidità dello stesso.».
5. Con il quarto motivo di ricorso la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 7, primo comma, della legge n. 212 del 2000; dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990; e dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, perché la CTR «nonostante abbia preso atto dell’esposizione di tesi accusatorie differenti, ha ritenuto motivato l’accertamento e non violato il diritto di difesa.».
6. I motivi di ricorso, esaminati congiuntamente perché connessi, sono in parte inammissibili ed in parte infondati e vanno rigettati, anche se la motivazione della decisione impugnata deve essere corretta, ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ.
6.1. La fattispecie in esame ha ad oggetto la stipula di un contratto denominato stock lending agreement tra la odierna ricorrente e la società ceca DFD, che consiste in un prestito di titoli contro pagamento di una commissione (fee) e contestuale costituzione da parte del mutuatario (borrower) di una garanzia, rappresentata da denaro o da altri titoli di valore complessivamente superiore a quello dei titoli ricevuti in prestito, chiamata Collaterale, a favore del mutuante (lender), a garanzia dell’obbligo di restituzione dei titoli ricevuti.
Come già chiarito da questa Corte, « I vantaggi che il contratto di stock lending consente di conseguire al soggetto che presta i titoli vanno individuati nella possibilità di beneficiare di margini reddituali senza assumere ulteriori rischi di mercato rispetto a quelli già presenti in portafoglio, mantenendo inalterata la flessibilità nella gestione dell’investimento senza ostacolare in alcun modo le scelte operative. Autorevole dottrina, occupandosi dell’argomento, ha posto in rilievo che la fattispecie in esame è di norma caratterizzata dall’assenza di qualsiasi alea contrattuale in ordine al versamento della commissione, ben sapendo le parti sin dalla conclusione del contratto che il prestatario dovrà pagare la fee, sia che l’importo di tale commissione sarà più o meno equivalente al valore dei dividendi distribuiti.
Si è, pertanto, ritenuto che, sul piano civilistico, l’operazione sia sostanzialmente «neutrale» per il prestatario che ottiene unicamente un vantaggio fiscale, che gli deriva dalla intassabilità dei dividendi riscossi e dalla integrale deducibilità della commissione versata al prestatore.» (Cass. 13/04/2021, n. 9628, in motivazione).
6.2. Nel caso di specie, la ricorrente ha sottoscritto con la società ceca DFD Czech un contratto di prestito di azioni della T. (società portoghese, con sede nella zona franca di Madeira, di cui era unica azionista la DFD Czech). Il contratto tra le società prevedeva che se la T. avesse distribuito dividendi inferiori ad € 765.000,00, B. s.r.l. non avrebbe dovuto corrispondere alla DFD Czech alcuna commissione (fee); se, invece, la T. avesse distribuito dividendi per un ammontare superiore ad € 765.000,00, B. s.r.l. avrebbe dovuto corrispondere alla DFD Czech una fee di importo pari agli stessi utili, maggiorata di una posta pari al 6,912% dell’ammontare di questi ultimi, ma comunque non superiore ad € 1.160.000,00.
Dal punto di vista fiscale, la commissione pagata dalla stessa B. s.r.l. alla DFD Czech veniva integralmente dedotta ex art. 109 del d.P.R. n. 917 del 1986, a fronte di dividendi esclusi ai sensi e nei limiti di cui all’articolo 89 d.P.R. n. 917 del 1986.
6.3. Come rilevato la CTR, con la decisione impugnata in questa sede, ha confermato l’invalidità del contratto, ritenendo che esso fosse stato concluso sostanzialmente allo scopo di conseguire indebiti vantaggi fiscali, senza ulteriori apprezzabili ragioni economiche e senza alea, per l’asimmetria informativa a favore della società lender, che controllava interamente la società dalla quale provenivano i dividendi.
6.4. Tanto premesso, ritiene il collegio che la decisione impugnata sia da confermare, sebbene la motivazione vada corretta, ex art. 384 cod. proc. civ. Deve, innanzitutto, rilevarsi che sfugge alla disponibilità delle parti e spetta al giudice la determinazione della norma in base alla quale si deve giudicare la singola fattispecie. Nel caso in esame, sostanzialmente le parti concordano sull’esistenza e sul contenuto degli accordi di prestito di azioni, mentre controvertono soltanto sull’individuazione della soluzione giuridica di riferimento, in ordine alla quale la Corte ritiene, come già argomentato nelle precedenti decisioni su analoghe questioni, che l’operazione in esame debba essere traguardata ai sensi del combinato disposto degli artt. 109, comma 8, ed 89 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.
Infatti, in fattispecie analoga, questa Corte ha già ritenuto, con orientamento consolidato da una serie di pronunce conformi, che «In tema di imposte sui redditi, l’operazione di “stock lending”, ossia di prestito di azioni, che preveda, a favore del mutuatario, il diritto all’incasso dei dividendi dietro versamento al mutuante di una commissione (corrispondente, o meno, all’ammontare dei dividendi riscossi) realizza il medesimo fenomeno economico dell’usufrutto di azioni, senza che rilevi, ai fini tributari, che in un caso si verta su un diritto reale e, nell’altro, su un diritto di credito, sicché è soggetta ai limiti previsti dall’art. 109, comma 8, del d.P.R. n. 917 del 1986, restando il versamento della commissione costo indeducibile.» (Cass. 12/05/2017, n. 11872; conformi Cass. 28/09/2020, n. 20424; Cass. 23/03/2021, n. 8061; Cass. 13/04/2021, n. 9628; Cass. 09/06/2021, n.16145).
Nella formulazione vigente ratione temporis , il comma 8 dell’art. 109 d.P.R. n. 917 del 1986 dispone: « In deroga al comma 5 non è deducibile il costo sostenuto per l’acquisto del diritto d’usufrutto o altro diritto analogo relativamente ad una partecipazione societaria da cui derivino utili esclusi ai sensi dell’articolo 89».
Come è stato evidenziato nei citati arresti giurisprudenziali, l’usufrutto di azioni è un’ operazione finanziaria con la quale viene concesso il diritto a percepire i dividendi distribuiti da un’altra società, a fronte di un corrispettivo comprensivo del valore attuale dei flussi futuri di utili. Il cedente, pertanto, percepisce anticipatamente l’entità del dividendo sotto forma di corrispettivo per la cessione dell’usufrutto e il cessionario inscrive in bilancio, nell’attivo patrimoniale immateriale, il corrispondente onere. Il predetto comma 8 dell’art. 109 dispone l’indeducibilità tributaria del costo così sostenuto, quando vengano in rilievo partecipazioni societarie da cui derivino utili esclusi da tassazione, individuando un parallelismo tra la deducibilità del costo dell’usufrutto su azioni ed imponibilità dei dividendi derivanti dalla sottostante partecipazione.
Anche nel contratto di stock lending, come nell’usufrutto di azioni, il trasferimento (temporaneo) della titolarità del diritto a percepire il dividendo si associa ad un costo, rappresentato dalla commissione.
Il fenomeno, ad un’analisi economica e giuridico-tributaria oggettiva e sostanziale, è dunque lo stesso, senza che assuma rilievo, ai fini tributari (gli unici che qui rilevano, non essendovi la necessità di una declinatoria civilistica sul contratto), la circostanza che nell’un caso si verta su un diritto reale e, nell’altro, in un diritto di credito, anche perché la stessa disposizione citata si riferisce letteralmente «ad altro diritto analogo», senza ulteriori connotazioni, « sicché non va intesa come meramente confinata ai soli diritti reali (interpretazione che, del resto, avrebbe una valenza abrogatoria), non deponendo in tal senso né la lettera, né lo spirito della disposizione», per cui l’interpretazione adottata non realizza alcuna impropria estensione analogica del dettato della norma (Cass. n. 11872 del 2017, cit.).
Pertanto, il costo sostenuto ( ovvero la commissione) dal prestatario (borrower) per l’operazione di stock lending deve ritenersi indeducibile come quello sostenuto dall’usufruttuario per l’acquisto del diritto d’usufrutto.
Non sembra fondata la considerazione, avanzata in dottrina, che critica l’indeducibilità del cd. “manufactured dividend”, sostenendo che la pronuncia di questa Corte (Cass. n. 11872 del 2017, cit.), che per prima ha ricondotto la fattispecie in esame alla violazione dell’art.109, comma 8, d.P.R. n. 917 del 1986, avrebbe travisato le ragioni dell’indeducibilità del costo dell’usufrutto su partecipazioni, che non si collegherebbe alla percezione, da parte dell’usufruttuario, di dividendi esclusi da imposta, ma alla simmetrica intassabilità della plusvalenza in capo al soggetto che ha costituito l’usufrutto.
Tale argomento non pare sostenibile di fronte al dato testuale della norma, che equipara il “diritto di usufrutto” ad ogni “altro analogo diritto” e fa discendere l’indeducibilità del costo per l’acquisto del diritto al fatto che dalla partecipazione acquisita derivino utili esenti, ai sensi del ridetto art. 89, senza che al riguardo spieghi alcuna incidenza (diversamente da quanto opinato da parte ricorrente nella memoria illustrativa) il regime di imposizione cui è assoggettato il “prestatore” delle azioni (cfr. Cass. 09/06/2021, n.16145, cit., in motivazione, al punto 16.4).
Del resto, la considerazione sul senso della “simmetria fiscale”, che sarebbe stata infranta dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità che prende le mosse dalla sentenza del 2017, non si adatta alla fattispecie in esame, perché, se è vera l’intassabilità della plusvalenza in capo al soggetto che ha costituito l’usufrutto, mediante lo strumento indiretto del prestito titoli con commissioni non vi potrebbe mai essere in radice qualsivoglia plusvalenza, non essendovi un contratto traslativo.
Anche la circostanza che il legislatore abbia introdotto nel tempo specifiche clausola antielusive per l’ipotesi, ad esempio, di dividend washing, nei contratti di pronti contro termine o nelle vendite di partecipazioni con patto di riacquisto, non contrasta con l’interpretazione normativa prospettata, ma significa soltanto che, a parte la clausola generale estensiva dell’art.109, comma 8, d.P.R. n. 917 del 1986, si è voluta dare regolamentazione specifica a talune fattispecie di confine, altrimenti difficilmente qualificabili.
6.5. Dunque il fulcro della ripresa a tassazione – pur nel contesto della qualificazione giuridica dell’operazione, ai fini fiscali, ai sensi del combinato disposto degli artt. 109, comma 8, ed 89 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917- continua ad individuarsi, in fatto, nel medesimo presupposto, ovvero nella contestazione dell’indebita deduzione integrale dal reddito fiscalmente imponibile della fee corrisposta. Ciò che costituisce ( al netto delle argomentazioni – già definite irrilevanti nei citati arresti di legittimità- spese per ricondurre la fattispecie in esame a figure negoziali nulle sotto il profilo civilistico, ovvero ad ipotesi elusive) il nucleo dell’avviso d’accertamento e della motivazione della sentenza impugnata.
Non vi è, dunque, motivo per discostarsi dalle precedenti pronunce di questa Corte già ampiamente citate.
6.6. Per quanto fin qui detto, e per quanto infra si aggiungerà, ricondotto il contratto di stock lending nel perimetro dell’art. 109, comma 8, d.P.R. n. 917 del 1986, il ricorso va complessivamente rigettato.
Infatti divengono inammissibili, perché irrilevanti, le doglianze della contribuente nella parte in cui censurano, per vari aspetti, la violazione della disposizione antielusiva dettata dall’art. 37-bis d.P.R. n. 600 del 1973, non applicandosi quest’ultima al caso de quo, anche per il riflesso conseguente sul procedimento che conduce all’emissione dell’atto impositivo ed alla parte motiva di quest’ultimo.
Per tali motivi è quindi inammissibile il primo motivo, nel quale la dedotta violazione del contraddittorio preventivo è espressamente fondata sugli obblighi procedimentali specificamente correlati alle fattispecie normative di elusione o abuso del diritto espressamente evocate (dandosi nel contempo atto, come nella stessa sentenza impugnata, dell’attivazione del contraddittorio preventivo ai sensi dell’art. 12, comma 7, legge n. 212 del 2000).
6.7. Il secondo motivo è pure inammissibile. Nella sostanza, la ricorrente pare lamentarsi della natura meramente apparente della motivazione resa dalla CTR, perché avrebbe pedissequamente rinviato alle indicazioni dell’Ufficio. Tuttavia, la motivazione della sentenza impugnata, sul punto, è, in parte, formulata per relationem non alle difese dell’Amministrazione, ma alla sentenza di primo grado, peraltro non in modo acritico, avendo premesso le ragioni critiche dell’appellante, in conformità all’orientamento di questa Corte (Cass. 05/08/2019, n. 20883, ex plurimis).
Ragioni che, peraltro, si risolvono comunque nella ritenuta infondatezza dei presupposti relativi alla invalidità del contratto, la cui rilevanza è comunque superata dalla sussunzione del rapporto nella fattispecie legale di cui all’art. 109, comma 8, d.P.R. n. 917 del 1986.
Inoltre, ove la sentenza di appello sia motivata per relationem alla pronuncia di primo grado, al fine ritenere assolto l’onere ex art. 366, n. 6, cod. proc. civ. occorre che la censura identifichi il tenore della motivazione del primo giudice specificamente condivisa dal giudice di appello, nonché le critiche ad essa mosse con l’atto di gravame, che è necessario individuare per evidenziare che, con la resa motivazione, il giudice di secondo grado ha, in realtà, eluso i suoi doveri motivazionali (Cass. 20/03/2017, n. 7074). Il motivo in decisione non soddisfa tale onere.
6.8. Inammissibili per irrilevanza, alla luce delle argomentazioni sulla natura dell’operazione già esplicate, sono pure le censure attinenti all’interpretazione ed alla qualificazione della natura del contratto da un punto di vista strettamente civilistico, nonché alla sua validità ed efficacia (anche con riferimento alla mancanza o all’illiceità della causa o alla frode alla legge). E’ pertanto inammissibile il terzo motivo.
6.9. Inammissibile è altresì il quarto motivo, che censura la CTR per non avere ritenuto l’atto impositivo illegittimo per l’esposizione, al suo interno, di “tesi accusatorie differenti”. Invero la CTR, al riguardo, ha espressamente escluso che i pretesi vizi della motivazione dell’accertamento abbiano inciso negativamente sull’effettivo diritto di difesa della contribuente, con argomentazione che dunque escludere che la pretesa alternatività delle ragioni giustificatrici della pretesa erariale ( valutate dal giudice a quo come «distinti percorsi argomentativi in diritto») abbia dato luogo ad un esercizio della difesa della controparte difficile o talora impossibile (cfr. Cass. 30/11/2009, n. 25197). Il motivo in esame, nel censurare tale conclusione, non specifica come sarebbe stata concretamente lesa la sua difesa, limitandosi ad una considerazione astratta “a titolo d’esempio”.
Va infine ribadito che il ridetto inquadramento del presupposto dell’imposizione nel contesto dell’art. 109, comma 8, d.P.R. n. 917 del 1986, rende sostanzialmente irrilevanti le questioni relative alla diversa qualificazione giuridica della medesima fattispecie concreta, anche con riferimento alla parte motiva dell’atto impositivo.
7. Passando ai motivi di ricorso che attingono rilievi diversi da quello sullo stock lending, con il quinto motivo la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 109 , quinto comma , d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, per avere la CTR «ritenuto indeducibili per difetto del requisito dell’inerenza i costi riferibili a beni da cui sono derivati ricavi che hanno concorso a formare il reddito sottoposto ad imposizione».
Il motivo, relativo al rilievo sull’indeducibilità di costi per acquisto di arredamento di immobili ceduti dalla società ai soci, è inammissibile perché non attinge la ratio decidendi espressa dalla CTR per relationem con la sentenza di primo grado (riprodotta in parte qua nel mezzo), non fondata in astratto sull’esclusione della deducibilità ed inerenza, ma in concreto sulla circostanza che non risulta che la spesa per i mobili sia avvenuta prima della cessione ai soci dei beni immobili arredati, ed il costo quindi sia riconducibile alla contribuente, piuttosto che ai soci, titolari degli immobili che venivano arredati.
Inoltre il motivo propone questioni che, nella sostanza, attengono la ricostruzione operata in fatto dal giudice a quo, che non sono censurate in questa sede ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ.. Né, peraltro, avrebbero potuto esserlo, vertendosi in fattispecie di c.d. “doppia conforme” e non avendo la ricorrente evidenziato eventuali differenze nelle ragioni poste a base degli accertamenti in fatto di cui ai due gradi di merito (cfr. Cass. 22/12/2016, n. 26774, ex plurimis).
8. Con il sesto motivo di ricorso la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 cod. civ., per non avere la CTR «preso atto dell’illegittimità della pretesa finanziaria per difetto di prova», relativamente al rilievo con il quale sono stati recuperati a tassazione maggiori ricavi, non dichiarati, derivanti dalla rettifica del prezzo di cessione di immobili ai soci della stessa contribuente.
Infatti la CTR ha ritenuto che la prova della contestata “sottofatturazione” degli immobili alienati ai soci potesse ricavarsi sia dalla notevole differenza tra il prezzo di vendita dei beni dichiarato e quello «complessivo di acquisto e di ristrutturazione» già sopportato dalla contribuente alienante, per la quale la cessione al corrispettivo esplicitato nell’atto evidenziava ampiamente una condotta antieconomica; sia dal raffronto con i valori di cui all’osservatorio del mercato immobiliare (o.m.i.), peraltro confrontati con dati di immobili delle stesse caratteristiche desunti da riviste di settore.
Sostiene invece la ricorrente che anche il valore indicato dall’Ufficio sarebbe a sua volta inferiore rispetto a quello derivante dal «complessivo di acquisto e di ristrutturazione»; che i valori o.m.i. avrebbero una rilevanza meramente indiziaria; che i dati utilizzati per il ricalcolo si riferirebbero ad immobili in ottimo stato di conservazione, mentre questo non sarebbe il caso degli immobili in questione; infine, che gli immobili delle stesse caratteristiche desunti da riviste di settore sarebbero in realtà incompatibili con quelli del caso concreto.
Il motivo è inammissibile, in quanto mira, nella sostanza (ma anche dichiaratamente nella rubrica) ad attingere la valutazione del giudice a quo in ordine alle prove, ciò che non è consentito in questa sede, se non nei limitati spazi consentiti dal vigente art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., nel caso di specie non dedotto e, in ipotesi, neppure ammissibile, vertendosi in caso di c.d. doppia conformità delle decisioni di merito, rilevante ai sensi dell’art. 348 ter, quinto comma cod. proc. civ., applicabile ratione temporis, né avendo comunque la ricorrente dedotto ed evidenziato che le sentenze di primo e di secondo grado siano fondate su ragioni di fatto tra loro diverse (Cass. 22/12/2016, n. 26774, ex plurimis).
Ulteriormente inammissibile, e comunque infondata, è in particolare la denunciata violazione dell’art. 2697 cod. civ., poiché « In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c.» (Cass. 23/10/2018, n. 26769 del 23/10/2018).
Né comunque, nel caso di specie, vi è stata inversione dell’onere della prova, che il giudice di appello ha imputato all’Ufficio, dando atto che quest’ultimo lo ha assolto.
Inammissibile ulteriormente è anche la denuncia della pretesa violazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., con la quale non viene invero evidenziata puntualmente un’ eventuale carenza del ragionamento inferenziale condiviso dalla CTR ai fini della prova logica, ma si contesta sic et simpliciter l’apprezzamento del giudice del merito circa la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, in questi termini incensurabile in sede di legittimità (Cass. 17/01/2019, n. 1234; Cass. 13/02/2020, n. 3541).
Non appare peraltro rilevante, sotto il profilo logico, la circostanza che anche il valore dell’Ufficio, sebbene superiore a quello dichiarato dalla contribuente, sia, a detta della ricorrente, comunque inferiore al predetto “costo complessivo”, giacché ciò non esclude, ma anzi conforta, la palese antieconomicità dello stesso prezzo dichiarato e, a rigore, renderebbe piuttosto logico anche l’incremento del prezzo accertato, ciò che la contribuente non ha evidentemente interesse a sostenere.
Quanto poi ai valori o.m.i., questa Corte ha più volte affermato che in tema di accertamento dei redditi d’impresa, in seguito alla modifica dell’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 ad opera dell’art. 24, comma 5, della l. n. 88 del 2009, che, con effetto retroattivo, stante la sua finalità di adeguamento al diritto dell’Unione europea, ha eliminato la presunzione legale relativa (introdotta dall’art. 35, comma 3, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modifiche, dalla l. 4 agosto 2006, n. 248) di corrispondenza del corrispettivo della cessione di beni immobili al valore normale degli stessi (così ripristinando il precedente quadro normativo in base al quale, in generale, l’esistenza di attività non dichiarate può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti), l’accertamento di un maggior reddito derivante dalla predetta cessione di beni immobili non può essere fondato soltanto sulla sussistenza di uno scostamento tra il corrispettivo dichiarato nell’atto di compravendita ed il valore normale del bene quale risulta dalle quotazioni OMI, ma richiede la sussistenza di ulteriori elementi indiziari gravi, precisi e concordanti ( cfr., ex plurimis, Cass. 12/04/2017, n. 9474; Cass. 21/12/2016, n. 26487; Cass. 12/11/2014, n. 24054; Cass. 11/05/2018, n. 11439, in materia d’imposta di registro; Cass. 25/1/2019,n. 2155; Cass. 19/09/2019, n. 23379, in materia d’imposta sul valore aggiunto).
Inoltre, con specifico riferimento all’imposta sul valore aggiunto, questa Corte ha, anche recentemente, più volte ritenuto che: «In tema di accertamento dell’IVA, la riformulazione dell’art. 54, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 ad opera della l. n. 88 del 2009 (comunitaria 2008), ha eliminato – con effetto retroattivo, stante la finalità di adeguamento al diritto unionale – la stima basata sul valore normale nelle transazioni immobiliari, sicché la prova dell’esistenza di attività non dichiarate, derivanti da cessioni di immobili, può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, secondo gli ordinari criteri di accertamento induttivo, che non sono esclusi dall’art. 273 della direttiva 2006/112/Cee, dovendo gli Stati membri assicurare l’integrale riscossione del tributo armonizzato e l’efficacia della lotta contro l’evasione.» (Cass., 04/04/2019, n. 9453; conforme Cass. 02/04/2020, n. 7655). E, nelle medesime pronunce, questa Corte ha anche richiamato, in motivazione, la giurisprudenza eurounitaria (Corte giustizia 05/10/2016, C.-576/15, Маya Маrinova ET; Corte giustizia 20/03/2018, C-524/15, Luca Menci; Corte giustizia 21/11/2018, C.-648/16, Fortunata Silvia Fontana), sottolineando che « l’art. 273 della direttiva CE 2006/112/CEE non esclude che l’imponibile IVA possa essere accertato induttivamente (GCUE, C. 648/16), dovendo gli Stati membri assicurare l’integrale riscossione del tributo armonizzato e l’efficacia della lotta contro l’evasione (GCUE, C. 576/15 e C. 524/15)» (Cass., 04/04/2019, n. 9453, cit. e Cass. 02/04/2020, n. 7655, cit.).
Tanto premesso, nel caso di specie la CTR si è uniformata a tali principi, inserendo la rilevanza indiziaria delle stime in questione nel complesso di ulteriori elementi indiziari valutati nel loro complesso.
La pretesa inidoneità indiziaria del concorrente riferimento al valore di immobili delle medesime caratteristiche è stata solo genericamente dedotta nel ricorso, in termini di astratta “incompatibilità” e senza riferimenti autosufficienti sul punto. Lo stesso deve dirsi per il riferimento allo stato di manutenzione degli immobili, non evincibile dalla mera indicazione, generica e non autosufficiente, delle date di costruzione, di imprecisati lavori di manutenzione e di rilascio della certificazione di abitabilità.
9. Il regolamento delle spese di giudizio di legittimità segue la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.800,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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