CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 gennaio 2019, n. 1849
Licenziamento per giusta causa – Intercettazioni – Reintegra – Indennità pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto – Regolarizzazione contributiva
Rilevato che
1. Il Tribunale di Verona aveva respinto l’opposizione di cui alla I. 92/12, proposta da M.G. avverso l’ordinanza resa in fase sommaria di rigetto della domanda del predetto, intesa all’accertamento dell’insussistenza dei fatti contestati ed alla declaratoria di illegittimità ed inefficacia del licenziamento per giusta causa intimatogli il 4.2.2015;
2. con sentenza del 14.6.2017, la Corte di appello di Venezia, in riforma dell’appellata sentenza, annullava il recesso e condannava la società appellata a reintegrare il G. nel suo posto di lavoro ed a corrispondergli un’indennità pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, nonché alla regolarizzazione contributiva dalla data del licenziamento sino alla reintegrazione;
3. osservava la Corte che il Tribunale aveva rilevato la mancanza di prove delle condotte contestate con riferimento alla asserita sottrazione di due lavelli in data 31.1.2014 e 5.2.2014 e che il lavoratore non aveva fornito plausibile spiegazione della sottrazione di un miscelatore, non contestando neanche il contenuto delle conversazioni telefoniche intercettate; il giudice di primo grado aveva aggiunto che, non rientrando la richiesta di acquisto del miscelatore fra i compiti allo stesso assegnati, non era dato comprendere il motivo per il quale la consegna dell’oggetto fosse stata effettuata con modalità singolari quali quelle emerse in istruttoria (il miscelatore era stato riposto nel suo armadietto) e senza alcuna verifica del pagamento da parte dell’acquirente;
4. premesso ciò, la Corte rilevava che ben poteva il convincimento del giudice avvenire sulla base degli atti assunti nel corso delle indagini preliminari, anche senza che vi fosse stato il vaglio critico del dibattimento, e che le intercettazioni telefoniche effettuate in un procedimento penale erano pienamente utilizzabili nel procedimento disciplinare, non ostandovi i limiti previsti dall’art. 270 c.p.p. per il procedimento penale;
5. aggiungeva che, tuttavia, la valutazione di tali intercettazioni era stata oggetto di contestazione da parte del reclamante, che pur non ne aveva contestato il contenuto, e che pertanto era stato dato corso ad istruttoria, che non era stata idonea a sorreggere quanto fatto oggetto di contestazione e rilevanza in ordine alla sottrazione di un miscelatore da parte del reclamato, e che la società, oltre all’uscita dall’azienda del miscelatore o alla sua sottrazione furtiva, non aveva provato che la stessa fosse avvenuta a fini delittuosi con la complicità del reclamato e previo accordo in tal senso; l’unica circostanza di fatto provata atteneva alla richiesta del collega A. al G. di disponibilità di un miscelatore con successivo invio di messaggio elettronico fotografico dello stesso, pur se lo stesso A. aveva riferito che il pagamento del prezzo del miscelatore di scarto avrebbe dovuto essere da lui pagato rivolgendosi al caporeparto, il che non era avvenuto perchè non aveva trovato il miscelatore nel posto concordato; anche uno dei carabinieri addetti all’indagine aveva dichiarato in sede istruttoria che l’utenza telefonica del G. non era stata sottoposta ad intercettazione telefonica e che il rinvio a giudizio dello stesso era stato disposto perché era stato collegato al furto di due lavelli; Il teste R. aveva, poi, dichiarato di avere richiesto a G.N. e non al reclamante un miscelatore di scarto e la circostanza era stata confermata dallo stesso G.;
6. la Corte d’appello concludeva nel senso che, pure a volere tenere presenti gli atti penali, doveva pervenirsi ad un giudizio di insussistenza del fatto come contestato e posto a base del licenziamento, con conseguente emanazione del provvedimento di cui al quarto comma dell’art. 18 I. 300/70;
7. di tale decisione domanda la cassazione la società, affidando l’impugnazione a quattro motivi, cui resiste, con controricorso, il G., che ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis. 1 c.p.c..
Considerato che
1. deve essere, preliminarmente, rilevata la tardività della memoria della società, con la quale è stata prodotta sentenza penale di primo grado di condanna del G., che non rientra tra la documentazione acquisibile agli atti di causa ai sensi dell’art. 372 c.p.c. e come tale va ritenuta inammissibile;
2. con il primo motivo, la società denunzia violazione degli artt. 111, co. 6, Cost., 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. per illogicità della motivazione in ordine alla mancata ammissione/valutazione degli atti del procedimento penale (intercettazioni telefoniche e sentenza penale di condanna di A.A.) ai fini della prova dei fatti integranti la giusta causa di licenziamento; nullità della sentenza ex art. 360, n. 4, c.p.c., per omessa motivazione sul punto, ex art. 132 n. 4 c.p.c., sostenendo che i passaggi argomentativi della sentenza gravata, che avevano fondato il giudizio di inutilizzabilità civilistica degli accertamenti compiuti in sede penale su affermazioni della S. C. adita, inconciliabili con tale tesi (platealmente smentita in Cass. 5317/17, le cui motivazioni erano state testualmente trascritte in sentenza, senza che i giudici di appello si fossero avveduti di tale contraddizione), erano tali da configurare palese ed insanabile illogicità della pronunzia, in quanto mancante di motivazione, inficiata da vizio logico tale da renderne meramente apparente il supporto argomentativo;
3. con il secondo motivo, la società lamenta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in ordine alla mancata ammissione/valutazione degli atti del procedimento penale (intercettazioni telefoniche e sentenze di condanna) ai fini della prova dei fatti integranti la giusta causa di licenziamento, adducendo che, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, l’uso di prove acquisite in un giudizio penale non è escluso da alcuna norma, e richiamando una serie di pronunce della S. C. confermative del principio affermato;
4. con il terzo motivo, la ricorrente ascrive alla sentenza impugnata omesso esame, ai sensi dell’art. 360, n. 5 c.p.c., dei documenti (trascrizioni delle intercettazioni telefoniche disposte nel procedimento penale e sentenza penale di condanna nei confronti di A.A.) che dimostrerebbero la sussistenza dell’addebito posto a base del licenziamento, assumendo che i fatti storici risultanti dai documenti prodotti risultano decisivi per il giudizio in quanto dimostrativi della sussistenza dell’addebito quale delineato nella lettera di contestazione e che le risultanze probatorie illegittimamente pretermesse in sede di reclamo, se valutate nel quadro del divieto di fare uscire prodotti difettosi dall’azienda senza preventivo pagamento, della particolare procedura per la vendita dei miscelatori, quale riferito in sede sommaria da altro teste, e dell’inesistenza per il G. di alcun ruolo che ne autorizzasse il prelievo dell’apparecchio, dovevano condurre a diversi esiti;
5. con il quarto motivo, si duole della violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 111, co. 6, Cost., 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. in ordine alla mancata valutazione degli atti del procedimento penale (intercettazioni telefoniche e sentenza di condanna) ai fini della formazione del convincimento del giudice anche in ordine all’attendibilità delle deposizioni testimoniali acquisite; viene dedotto ulteriormente omesso esame degli atti in questione.
6. il ricorso è infondato;
7. quanto al primo motivo, è sufficiente osservare che l’iter argomentativo seguito nella sentenza oggetto della presente impugnazione è difforme da quello descritto dalla ricorrente, in quanto i principi di cui alla citata pronuncia della S. C. vengono condivisi dalla Corte territoriale, che, tuttavia, rileva che le risultanze degli atti del giudizio penale, tra cui le intercettazioni, pacificamente utilizzabili dal giudice civile, erano state nella specie contestate in sede di rilevi mossi dal reclamante alla valutazione delle stesse, ciò che aveva portato la Corte del merito ad espletare l’istruttoria in sede di giudizio civile, il cui esito non era stato di conforto alle prove acquisite nel procedimento penale e nello specifico nella fase delle indagini preliminari;
8. tale procedere argomentativo non pecca di contraddittorietà ed incoerenza, come assunto dalla ricorrente, in quanto il principio affermato dalla pronunzia della S. C., che sarebbe stato contraddittoriamente interpretato ed applicato, è quello alla cui stregua il giudice del lavoro, ai fini della formazione del proprio convincimento in ordine alla sussistenza di una giusta causa di licenziamento, può valutare gli atti delle indagini preliminari e le intercettazioni telefoniche ivi assunte, anche ove sia mancato il vaglio critico del dibattimento, in quanto la parte può sempre contestare nel giudizio civile i fatti acquisiti in un procedimento penale (in tali termini Cass. 5317/2017 cit.); da tale principio emerge quindi che in caso di contestazione, come nella specie, gli atti delle indagini preliminari e le intercettazioni possono ben essere sottoposte a nuovo esame al cospetto di ulteriori prove emerse nel giudizio in sede civile, nell’ambito di una valutazione complessiva che può condurre anche a disattenderne o sminuirne la valenza probatoria con riferimento al caso esaminato. Ciò trova conferma in ulteriori pronunce della S.C., affermative del principio secondo cui il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente (come nella specie), le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali, e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento in quanto il procedimento penale è stato definito ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., potendo la parte, del resto, contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale (cfr. Cass. 30.1.2013 n. 2168, in senso conforme Cass. 2.2.2016 n. 1948);
9. nel secondo motivo, vengono ribaditi i principi che si sostengono disattesi dalla Corte territoriale, ma la critica è supportata da valutazioni che vanno disattese al pari di quelle vagliate in rapporto alle censure avanzate con il precedente motivo: ed invero, per come sopra osservato, il principio della utilizzabilità delle emergenze probatorie penali non e contraddetto da quanto la sentenza impugnata ha argomentato in ordine alla rilevanza delle prove acquisite nelle indagini preliminari nel giudizio riguardante il provvedimento disciplinare adottato nei confronti del lavoratore, pur con le precisazioni effettuate per l’ipotesi di contestazione da parte del soggetto nei cui confronti le stesse vengano utilizzate;
10. le violazioni denunziate non integrano, poi, I’omesso esame di fatti intesi correttamente ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., vizio dedotto nel terzo motivo, nella nuova formulazione, lamentandosi, nella sostanza, vizi di motivazione non più rientranti nel catalogo di quelli denunziabili con il richiamo alla violazione del n. 5 del citato articolo di legge, in quanto la censura sollecita esclusivamente una rivisitazione del materiale istruttorio affinché se ne fornisca una valutazione diversa da quella accolta dalla sentenza impugnata;
11. infine, quanto all’accertamento sfavorevole alla ricorrente società sul merito della domanda di illegittimità del recesso, lo stesso si sottrae a qualsiasi sindacato ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. (riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134), applicabile ratione temporis, secondo l’interpretazione fornitane da Cass, s.u. 8053/2014, il quale postula l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti. La censura che investe la valutazione delle prove (attività regolata, invece, dagli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.) può essere fatta valere ai sensi del numero 5 del medesimo art. 360 (cfr. Cass. 17.6.2013 n. 15107);
12. invero, una violazione o falsa applicazione di norme di legge processuale, non può dipendere o essere in qualche modo dimostrata dall’erronea valutazione del materiale probatorio. Al contrario, un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. può porsi solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito:
– abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge;
– abbia fatto ricorso alla propria scienza privata ovvero ritenuto necessitanti di prova fatti dati per pacifici;
– abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione: nessuna di tali situazioni è rappresentata nei motivi anzidetti, sicché le relative doglianze sono mal poste; nella specie, la violazione delle norme denunciate è tratta, in maniera incongrua e apodittica, dal mero confronto con le conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito, di tal che la stessa – ad onta dei richiami normativi in essi contenuti – si risolve nel sollecitare una generale rivisitazione del materiale di causa e nel chiederne un nuovo apprezzamento nel merito, operazione, come già detto, non consentita in sede di legittimità;
13. per tutte le svolte considerazioni, il ricorso deve essere respinto;
14. le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo.
15. sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 5000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art.13, comma 1bis, del citato D.P.R..
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