CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 giugno 2020, n. 12364
Risarcimento dei danni di natura biologica, psichica, morale – Comportamenti di mobbing – Controlli assidui, iniziative disciplinari pretestuose, condotte aggressive – Prova per testi – Erroneità del giudizio espresso sul materiale probatorio offerto dalla parte Inammissibile rilettura delle risultanze processuali
Rilevato che
1. con sentenza n. 463 del 15 maggio 2014, la Corte d’appello di Salerno, in riforma della decisione resa dal locale Tribunale, respingeva la domanda proposta, nei confronti del Comune di Battipaglia nonché di F.M. e N.M. (rispettivamente sottotenente e comandante dei VV.UU.), da Stefania G., agente di polizia municipale, per ottenere la condanna dei predetti al risarcimento dei danni di natura biologica, psichica, morale ed alla vita di relazione derivati da comportamenti di mobbing posti in essere ai suoi danni (sostanziatisi in una vera e propria “persecuzione maniacale” manifestatasi attraverso una generale intolleranza nei suoi confronti, in controlli troppo assidui, in iniziative disciplinari pretestuose, in condotte eccessivamente aggressive riconducibili, in particolare, al sottotenente M.);
2. il Tribunale riteneva che la prova per testi e la documentazione prodotta dalla G. fossero dimostrativi della riconducibilità dei fatti a sostegno della pretesa nell’ambito della nozione di mobbing e condannava in solido i convenuti al risarcimento del danno in favore della G. quantificato in euro 40,000,00;
3. diversamente la Corte territoriale era dell’avviso che le risultanze della prova per testi non confermassero i fatti posti dalla G. a sostegno della domanda;
in particolare evidenziava che, se pure un qualche elemento di supporto alla tesi attorea potesse trarsi dalle dichiarazioni rese dal teste C.F., di professione avvocato ed all’epoca dei fatti legato sentimentalmente alla G., tutte le altre deposizioni testimoniali (fatta eccezione per quella resa, limitatamente ad uno solo degli episodi denunciati, dal teste G.I.) fossero di segno opposto deponendo per l’insussistenza di comportamenti di carattere persecutorio posti in essere dai superiori della G. in danno della stessa; escludeva, poi, che un contributo decisivo potesse trarsi dalla disposta c.t.u. avendo lo stesso consulente, dopo aver diagnosticato una “pregressa reazione da stress” posta in nesso causale con le vicende legate alle vicissitudini lavorative, ammesso che nella produzione in atti non vi fosse alcun riscontro relativo a rapporti inoltrati dal sottufficiale oppure a provvedimenti assunti dall’amministrazione riconducibili ai fatti in discussione;
riteneva che, anche a voler considerare sussistente una situazione di conflittualità con il M., fosse emerso che il superiore gerarchico, nelle varie circostanze, aveva agito nell’ambito dei poteri conferitigli dall’ufficio ricoperto, che in molte occasioni gli interventi erano stati indirizzati anche nei confronti di altri agenti, che le contestate violazioni degli ordini di servizio, soprattutto con riferimento al mancato rispetto degli orari di lavoro, non erano state pretestuose;
evidenziava che, tenuto conto del numero degli episodi denunciati, della dedotta sistematicità delle vessazioni e del periodo di riferimento, il materiale probatorio posto a disposizione del giudice apparisse del tutto insufficiente stante la contraddittorietà delle deposizioni testimoniali e l’inadeguatezza dei riscontri documentali;
escludeva, infine, che fosse emersa una condizione di emarginazione della G. considerato che la sua carriera aveva avuto uno sviluppo regolare;
4. avverso tale sentenza S.G. ha proposto ricorso per cassazione con due motivi;
5. il Comune di Battipaglia ha resistito con controricorso;
6. la ricorrente ha depositato memoria.
Considerato che
1. con i due motivi la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di norme di diritto in punto di mobbing nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, in ordine alla negata sussistenza del mobbing ed ancora vizio di motivazione sotto il profilo dell’erronea valutazione del materiale probatorio (art. 360, nn. 3 e 5); lamenta che la Corte territoriale non abbia riconosciuto nel quadro probatorio offerto gli aspetti del mobbing che, al contrario di quanto illegittimamente ritenuto, si concretizza nell’aggressione o vessazione psicologica con violazioni ostili di carattere sistematico, che abbiano una certa durata, che diano vita ad un fenomeno ad andamento progressivo e che possono sfociare in atti apparentemente poco significativi ma che di fatto ostacolano il normale espletamento dell’attività lavorativa ovvero in atti di contenuto tipico, compiuti cioè dal datore di lavoro o dai superiori, strettamente inerenti la gestione del rapporto di lavoro; censura la sentenza impugnata per non avere soddisfatto l’esigenza di una adeguata motivazione circa la valutazione delle risultanze istruttorie e per non essere chiaramente individuabile l’iter logico-argomentativo che sorregge la decisione;
assume che la Corte territoriale non avrebbe spiegato le ragioni per le quali aveva ritenuto determinate deposizioni testimoniali prevalenti su altre, avrebbe trascurato di considerare la copiosa documentazione prodotta, che certamente rappresentava un “indizio” del rapporto “malato” all’interno del luogo di lavoro, obliterato totalmente elementi che avrebbero condotto ad una diversa decisione ed altresì immotivatamente svalutato l’espletata c.t.u. che aveva ricollegato la sintomatologia ansioso-depressiva agli episodi verificatisi sul luogo di lavoro;
2. i motivi sono inammissibili;
2.1. i rilievi, anche laddove è denunciata la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, sono impostati prospettandosi una diversa valutazione del merito rispetto a quella fornita dalla Corte, ma ciò non integra una valida modalità di proposizione di questioni di legittimità, sollecitandosi piuttosto un’inammissibile rilettura delle risultanze processuali, onde sovvertire l’esito valutativo sfavorevole, ed apprezzamenti di cui è titolare esclusivo il giudice del merito e non certo la Corte di Cassazione (v. Cass., Sez. Un., 25 ottobre 2013, n. 24148);
2.2. va ricordato al riguardo che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione;
il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394 e negli stessi termini Cass. 10 luglio 2015, n. 14468);
2.3. nel caso di specie la ricorrente, pur denunciando nella rubrica la violazione o falsa applicazione di norme di diritto in punto di mobbing, in realtà assume la erroneità del giudizio espresso sul materiale probatorio offerto dalla parte, giudizio che non può essere rivisto in questa sede, perché il controllo sulla motivazione, tra l’altro nella specie consentito nei ristretti limiti di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. come modificato dall’art. 54 d.l. n. 83/2012, convertito in legge n. 134/2012, non equivale a revisione del ragionamento decisorio;
2.4. hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass., Sez. Un., 22 settembre 2014, n. 19881 e Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris; il vizio di motivazione, quindi, resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza – in cui la motivazione o manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero esista formalmente come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum;
non trova più accesso al sindacato di legittimità della Corte il vizio di mera insufficienza od incompletezza logica dell’impianto motivazionale per inesatta valutazione delle risultanze probatorie, qualora dalla sentenza sia evincibile una “regula juris” che non risulti totalmente avulsa dalla relazione logica tra “premessa(in fatto) -conseguenza(in diritto)” che deve giustificare il “decisum”, concernendo il vizio tipizzato dall’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., nella formulazione attuale, solo l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo nel senso che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia;
l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti;
il motivo, quindi, è validamente formulato ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. solo qualora il ricorrente indichi il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”;
2.5. anche sotto l’indicato ulteriore profilo le censure rivelano una chiara inammissibilità evocando una insufficiente o contraddittoria motivazione (senza che sia neppure dedotta una incompatibilità logica intrinseca al testo motivazionale, in quanto determinata dalla reciproca elisione di affermazioni oggettivamente contrastanti, non altrimenti risolvibile, che impedisca di discernere quale sia il diritto applicato nel caso concreto – si veda già Cass., Sez. Un., 22 dicembre 2010, n. 25984 -) non più sindacabile in sede di legittimità;
peraltro la ricorrente non deduce affatto l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio nei termini sopra considerati, ma ricollega espressamente il vizio di motivazione all’erronea valutazione delle prove, attività demandata al giudice di merito e sottratta al sindacato di legittimità;
2.6. nella specie, la Corte territoriale ha innanzitutto premesso una nozione del mobbing conforme a quella ricorrente nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. ex multis Cass. 12 dicembre 2018, n. 32151; Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684; Cass. 24 novembre 2016, n. 24029; Cass. 6 agosto 2014, n. 17698) secondo cui ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi;
ha, quindi, ritenuto, con valutazione ancorata alle risultanze di causa, puntualmente esaminate, che, per quanto fosse emersa la sussistenza di una situazione conflittuale tra la lavoratrice e il sottotenente M., non ricorresse l’ipotesi posta a fondamento della domanda e cioè quella di un comportamento a effettiva valenza persecutoria caratterizzato da “pretestuose iniziative disciplinari ed esasperati rilievi sui luoghi di lavoro”, essendo risultato: – che il superiore gerarchico aveva agito nell’ambito dei poteri conferitigli dall’ufficio ricoperto; – che in molte occasioni gli interventi erano stati indirizzati anche nei confronti di altri agenti; – che le contestate violazioni degli ordini di servizio che la G. aveva posto a base del preteso mobbing, e soprattutto quelle relative al mancato rispetto dell’orario di lavoro, non erano apparse pretestuose, tanto che i ritardi erano stati confermati, anche se poi erano risultati giustificati; – che le condotte aggressive o, comunque, eccessive tenute dal M. in occasione delle contestazioni non avevano trovato, se non in un caso, la indispensabile conferma (essendo, per lo più, mancata nei testi la cognizione diretta dei fatti);
ad avviso della Corte territoriale, pertanto, non era stata fornita una prova sufficiente da parte della G., sulla quale incombeva il relativo onere, di un comportamento, posto in essere ai suoi danni dai superiori gerarchici, intenzionalmente ed in giustificatamente ostile, avente le caratteristiche oggettive della prevaricazione e della vessatorietà, connotato da plurime condotte emulative e pretestuose, irrilevanti essendo al tal fine le mere posizioni divergenti e/o conflittuali connesse alle ordinarie dinamiche relazionali all’interno dell’ambiente lavorativo;
2.7. si tratta di motivazione, corretta in diritto, che indubbiamente soddisfa il minimo costituzionale imposto dall’art. 111 Cost. e dall’art. 132 cod. proc. civ. ;
3. da tanto consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;
4. la regolamentazione delle spese segue la soccombenza ;
5. ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo risultante dalla I. 24 dicembre 2012, n. 228, ricorrono le condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
dichiara il ricorso inammissibile ; condanna la ricorrente al pagamento, in favore del Comune controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo prescritto a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.