CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 maggio 2018, n. 12863
Tributi – Accertamento – Studi di settore – Scostamento – Percentuale di ricarico – Capacità contributiva
Rilevato che
Con sentenza in data 6 giugno 2016 la Commissione tributaria regionale della Campania respingeva l’appello proposto dalla N.D. srl avverso la sentenza n. 6218/5/14 della Commissione tributaria provinciale di Caserta che ne aveva respinto il ricorso contro l’avviso di accertamento per II.DD. ed IVA 2008. La CTR, nella parte che qui rileva, osservava in particolare che, contrariamente a quanto affermato dall’appellante, l’Ente impositore aveva correttamente applicato la metodologia accertativa di cui agli artt. 39, d.P.R. 600/1973, 54, d.P.R. 633/1972, basandosi in concreto la medesima sulla mancata redazione dell’inventario secondo i criteri dettati dall’art. 15, d.P.R. 600/1973, sullo scostamento dallo studio di settore con conseguente ricalcolo della percentuale di ricarico, la cui correttezza confermava, ed infine sulla maggior capacità contributiva evidenziata dai soci rispetto alle loro coeve dichiarazioni reddituali, a fronte di ingenti somme versate alla società contribuente stessa.
Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione la società contribuente deducendo due motivi.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Considerato che
Con il primo ed il secondo motivo —ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.- la ricorrente si duole della violazione/falsa applicazione, rispettivamente, degli artt. 2729, cod. civ., 39, d.P.R. 600/1973, 54, 55, d.P.R. 633/1972 ed ancora degli artt. 39, d.P.R. 600/1973, 55, d.P.R. 633/1972, 62 sexies, d.l. 331/1993, poiché la CTR ha ritenuto corretto il metodo accertativo seguito dall’Ente impositore rispetto ad ogni singolo elemento di valutazione presuntiva ed in particolare rispetto alla irregolare formazione dell’inventario di esercizio, allo scostamento dallo studio di settore, alle somme versate dai soci nella società ed alla rideterminazione induttiva della percentuale di ricarico.
Le censure, da esaminarsi congiuntamente per stretta connessione, sono in parte inammissibili ed in parte infondate.
Esaminandone singolarmente i singoli aspetti, va evidenziato che:
– quanto al rilievo della irregolare compilazione dell’inventario annuale, va ribadito che «In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’inventano e il bilancio costituiscono scritture contabili distinte, aventi contenuto e finalità diverse, ai sensi dell’art. 15 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e dell’art. 2217 del codice civile, ed alla cui redazione sono obbligati i soggetti indicati nel primo comma dell’art. 13 del citato d.P.R. n. 600 del 1973, con la conseguenza che la violazione consistente nell’omessa redazione dell’inventario non può ritenersi sanata, né resa meramente formale, dall’avvenuta redazione del bilancio» (Sez. 5, Sentenza n. 8273 del 26/05/2003, Rv. 563549 – 01).
Il caso di specie è esattamente sovrapponbile, in ordine a tale specifico profilo di fatto, al principio di diritto di cui a tale arresto giurisprudenziale. Risulta infatti accertato dalla CTR campana che nel registro degli inventari esibito dalla società contribuente ai verificatori era riportato il solo bilancio di esercizio, ma non vi erano di contro le registrazioni previste dall’art. 15, d.P.R. 600/1973, in particolare secondo le disposizioni puntuali del secondo comma di tale disposizione legislativa (consistenza dei beni raggruppati per categorie omogenee, valore di ciascun gruppo). La ricorrente travisa completamente il senso del rilievo de quo, facendo riferimento alla normativa sulle scritture di magazzino, non affatto pertinente al rilievo stesso;
– quanto allo scostamento dallo studio di settore, va ribadito che «I parametri o studi di settore previsti dall’art. 3, commi 181 e 187, della l. n. 549 del 1995, rappresentando la risultante dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni, rilevano valori che, quando eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico-induttivo, ex art. 39, comma 1, lett. d, del d.P.R. n. 600 del 1973, che deve essere necessariamente svolto in contraddittorio con il contribuente, sul quale, nella fase amministrativa e, soprattutto, contenziosa, incombe l’onere di allegare e provare, senza limitazioni di mezzi e di contenuto, la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, mentre all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’applicabilità dello “standard” prescelto al caso concreto oggetto di accertamento. (Principio affermato ai sensi dell’art. 360 bis, comma 1, n. 1, c.p.c.)» (Su,. 5, Sentenza n. 14288 del 13/07/2016, Rv. 640541 – 01). Il giudice tributario di appello ha puntualmente analizzato le rispettive difese delle parti in ordine al punto di merito de quo, correttamente applicando il principio di diritto di cui a tale arresto giurisprudenziale, con particolare riguardo ai rispettivi oneri probatori delle parti medesime;
– quanto alla “capacità contributiva” dei soci ossia in ordine alla valutazione dell’elemento indiziario costituito dall’incongruenza tra redditi dichiarati dai soci e versamenti fatti dai medesimi alla società verificata, si deve osservare che su tale punto la CFR campana ha espresso una valutazione di puro merito, che sicuramente non è revisionabile in questa sede secondo il principio di diritto che «Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione» (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 9097 del 07/04/2017, Rv. 643792 – 01);
– quanto alla questione della determinazione della percentuale di ricarico, va ribadito che «In tema di imposte dirette, in caso di omessa presentazione del prospetto analitico delle rimanenze iniziali e finali, l’Ufficio può procedere ad accertamento di tipo induttivo, attraverso una determinazione della percentuale di ricarico dei prezzi di vendita rispetto a quelli di acquisito, purché questa sia fondata su un campione di merci rappresentativo ed adeguato per qualità e quantità rispetto al fatturato complessivo, su percentuali di ricarico dei singoli beni obiettivamente rilevate dai documenti esaminati e su criteri di computo della percentuale di ricarico del campione logicamente condivisibili, siano essi fondati su una media aritmetica o ponderale» (Sez. 5, Sentenza n. 7653 del 16/05/2012, Rv. 622442 – 01). Il giudice tributario di appello, accertata detta carenza inerente l’inventario, ha fatto quindi corretta applicazione del principio di diritto di cui a tale arresto giurisprudenziale. Per altro verso, relativamente alla valutazione del criterio utililizzato dall’agenzia fiscale per la determinazione della percentuale di ricarico, la sentenza impugnata risulta altresì conforme all’ulteriore principio di diritto che «In tema di rettifica della dichiarazione IVA, la determinazione in via presuntiva della percentuale di ricarico effettiva sul prezzo della merce venduta, in sede di accertamento induttivo, deve avvenire adottando un criterio che sia: (a) coerente con la natura e le caratteristiche dei beni presi in esame; (b) applicato ad un campione di beni scelti in modo appropriato; (c) fondato su una media aritmetica o ponderale, scelta in base alla composizione del campione di beni; tale modalità di determinazione della reale percentuale di ricarico prescinde del tutto dalla circostanza che la contabilità dell’imprenditore risulti formalmente regolare» (Sez. 5, Sentenza n. 3197 del 11/02/2013, Rv. 625430 – 01).
Ciò considerato, va più in generale rilevato che le censure comunque collidono con il principio di diritto che «In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura é possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione» (ex multis Sez. 5, n. 26110 del 2015).
In conclusione il ricorso deve essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.600 oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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