CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 marzo 2021, n. 8061
Tributi – IRES – Accertamento – Contratto di stock lending – Mancanza di causa economica – Operazione finalizzata esclusivamente ad ottenere un vantaggio fiscale – Evasione – Sanzioni – Applicazione ius superveniens più favorevole – Depenalizzazione
Rilevato che
1. A seguito di verifica fiscale – incentrata su una operazione di prestito di azioni garantito stipulato dalla B., in qualità di borrower, e dalla società D. Czech s.r.o., lender, avente ad oggetto n. 2500 azioni della società M.B., con sede nella zona franca di Madeira, controllata al 100 per cento dalla D. – l’Agenzia delle entrate emetteva avviso di accertamento a carico della B. Holding s.r.I., per l’anno d’imposta 2004, in qualità di società consolidata, e altro avviso di accertamento a carico della medesima società in qualità di consolidante, recuperando maggior reddito ai fini IRES.
In particolare, l’Ufficio rilevava che l’operazione era finalizzata ad ottenere un duplice vantaggio fiscale, che si concretizzava attraverso una variazione in diminuzione del risultato del conto economico, considerato che i redditi di partecipazione in società, ai sensi dell’art. 89 del t.u.i.r., erano esclusi da tassazione nella misura del 95 per cento dell’importo percepito, risultando imputato alla formazione dell’imponibile Ires solo il 5 per cento dei dividendi ricevuti dalla M.B., e che venivano dedotti dall’imponibile Ires i costi sostenuti per il pagamento della commissione a favore della D..
2. Proposti autonomi ricorsi dalla contribuente, la Commissione provinciale adita li rigettava.
All’esito dell’appello della contribuente, la Commissione tributaria regionale confermava la sentenza di primo grado.
In particolare, i giudici di appello evidenziavano che la commissione annuale che la contribuente si era impegnata a corrispondere «era commisurata ai dividendi distribuiti dalla M.B. quale corrispettivo del prestito delle azioni ed era al di fuori di ogni logica imprenditoriale, in quanto maggiori erano i dividendi, meno guadagnava il prestatario ed oltre una certa soglia subiva una perdita»; escludeva, tuttavia, che fosse ravvisabile un rischio nella distribuzione dei dividendi e nel loro ammontare, in quanto la D. aveva potuto prevedere i risultati della gestione, essendosi l’operazione conclusa poco prima della chiusura dell’esercizio della M.B. e dell’assemblea ordinaria che aveva deliberato sul bilancio della società portoghese.
Dopo avere evidenziato che solo in appello la B. Holding s.r.l. aveva esposto che la M.B. deteneva partecipazioni nella S. C.O. Ltd, con sede nelle Isole Vergini, sottolineava che l’art. 89, comma 3, del t.u.i.r. prevedeva che il regime di quasi intassabilità dei dividendi non si applicava a quelli provenienti da paradisi fiscali e che la B. Holding s.r.l. aveva ritenuto di superare tale ostacolo con il passaggio dei dividendi provenienti dalle Isole Vergini, paese a fiscalità privilegiata (cd. black list), ad una società con sede in Portogallo, tramite una società ceca, con flussi bancari su banca svizzera.
Dava inoltre atto che nella vigenza del contratto il risultato ottenuto si era mantenuto nella opzione che prevedeva l’entità dei dividendi superiore ad euro 550.000,00 ed inferiore ad euro 750.000,00, tanto che la società contribuente aveva ottenuto euro 30.000,00 all’anno con il vantaggio fiscale dell’esclusione da tassazione del 95 per cento dei dividendi distribuiti dalla M.B. e la deduzione integrale del reddito fiscalmente imponibile della fee corrisposta per la perdita della aleatoria scommessa.
Escludeva inoltre la deducibilità dei costi di commissione, considerato che l’attività posta in essere non costituiva solo illecito civile, ma integrava anche fatto illecito di rilevanza penale, ed affermava che il contratto era nullo per mancanza di causa e che, con tale operazione, la contribuente aveva conseguito una perdita maggiore che ai fini Ires aveva consentito l’abbattimento della base imponibile globale del consolidato ed il conseguente mancato pagamento dell’imposta. Confermava, pertanto, gli avvisi di accertamento.
3. Per la cassazione della suddetta decisione ricorre la D. Holding s.r.I., con sei motivi, ulteriormente illustrati con memorie ex art. 380-bis.1. cod. proc. civ. depositate in prossimità dell’adunanza camerale del 29 gennaio 2020 e dell’adunanza camerale del 16 dicembre 2020.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Considerato che
1. Con il primo motivo la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere i giudici di secondo grado omesso di pronunciarsi su tutti i motivi preliminari formulati nell’atto di appello volti a contestare l’illegittimo esercizio del potere di accertamento da parte dell’Ufficio.
In particolare, sostiene che la Commissione regionale avrebbe omesso di statuire sul motivo di appello con cui era stata eccepita la nullità degli avvisi di accertamento per violazione dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, domanda che era stata respinta in primo grado sulla base della considerazione che «la ritenuta nullità del contratto inficia l’eccezione ….di mancata richiesta di chiarimenti da parte dell’Ufficio prevista in caso di elusione fiscale ex art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, ma non nell’ipotesi, come accertata, di frode fiscale», nonché sul motivo di appello con cui era stata dedotta la nullità degli atti impositivi per violazione del principio di imparzialità e dei principi di buona fede e collaborazione da parte dell’Amministrazione finanziaria.
1.1. La censura è infondata.
1.2. Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass., sez. 1, 13/10/2017, n. 24155; Cass., sez. 5, 6/12/2017, n. 29191; Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20718).
1.3. Nel caso in esame, la Commissione regionale, affermando che il contratto di prestito di azioni concluso dalla odierna ricorrente con la F. s.r.o. è nullo per mancanza di causa e confermando le riprese a tassazione operate dall’Amministrazione finanziaria con gli avvisi di accertamento impugnati, ha implicitamente ritenuto di disattendere le doglianze fatte valere con i motivi di appello non espressamente esaminati e, pertanto, non è configurabile il vizio di cui all’art. 112 cod. proc. civ.
2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione del Regolamento n. 1553/89/CE del Consiglio del 29 maggio 1989, concernente il regime uniforme definitivo di riscossione delle risorse proprie provenienti dell’imposta sul valore aggiunto, nonché degli artt. 37-bis, 39, 42 del d.P.R. 20 settembre 1973, n. 600, dell’art. 10, comma 3, della I. 27 luglio 2000, n. 212 e degli artt. 1325, 1343, 1344 e 1345 cod. civ. e 12 delle preleggi.
Sostiene che, diversamente da quanto ritenuto dai giudici di secondo grado, i contratti conclusi per scopi esclusivamente fiscali non possono reputarsi nulli per mancanza di causa o per illiceità della causa o perché conclusi in frode alla legge e che, laddove questa Corte ha ritenuto contestabile la nullità del negozio per frode alla legge tributaria (Cass., sez. 5, 26/10/2005, n. 20816; Cass., sez. U, 26/06/2009, n. 15029), lo ha fatto con riguardo a operazioni poste in essere prima della entrata in vigore della norma antielusiva dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973; lo specifico regime d’inopponibilità dei negozi conclusi in frode alla legge tributaria introdotta da tale ultima norma preclude l’applicazione per le operazioni così individuate del principio di nullità dei negozi per frode alla legge sancito dall’art. 1344 cod. civ.
Formula, quindi, il seguente quesito di diritto: «Stabilisca Codesta Ecc.ma Corte se nel caso in cui, come nella specie, l’Ufficio contesti ad una Società fiscalmente residente la nullità del contratto di prestito delle azioni concluso con altra società residente nell’Unione europea sul presupposto che tale contratto sarebbe stato concluso unicamente allo scopo di garantire alla società residente indebiti vantaggi tributari, esorbitando dalla normale logica commerciale, violi e falsamente applichi il Regolamento n. 1553/89/CE, gli artt. 37-bis, 39, 42 del d.P.R. 20 settembre 1973, n. 600, l’art. 10, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del contribuente), nonché gli artt. 1325, 1343, 1344 e 1345 c.c. e l’art. 12 delle Preleggi la sentenza della CTR che, come quella impugnata nel presente giudizio, stabilisca che tale contratto sarebbe nullo perché volto esclusivamente a perseguire vantaggi di carattere fiscale; anziché ritenere che la violazione delle disposizioni di carattere fiscale non comporta mai la nullità del contratto posto in essere dal contribuente, in quanto l’Amministrazione finanziaria, per eccepire l’inopponibilità degli effetti di tale contratto, è tenuta altresì a dimostrare l’aggiramento di specifici divieti ed obblighi tributari nonché il conseguimento di un vantaggio fiscale indebito perché ottenuto in elusione di tali divieti ed obblighi» .
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1325, 1343, 1344, 1345, 1362, 1367, 1414, 1418, 1813, 1815 e 1933 cod. civ., per avere i giudici di secondo grado negato di poter sussumere il contratto di prestito di azioni nella tipologia del mutuo disciplinato dall’art. 1815 cod. civ., ritenendo che configurasse invece un contratto atipico a carattere aleatorio.
I giudici, ad avviso della ricorrente, hanno in tal modo violato non solo l’art. 1362 cod. civ., perché hanno interpretato il contratto in modo opposto alla comune intenzione delle parti contraenti desumibile dal tenore letterale delle clausole, ma anche l’art. 1815 cod. civ., avendo ritenuto che la determinazione del corrispettivo costituisca elemento essenziale del contratto di mutuo, come tale idoneo ad incidere sulla sua causa.
Le parti, aggiunge la ricorrente, hanno, in realtà, inteso concludere un contratto di mutuo e la circostanza che la commissione annuale fosse commisurata ai dividendi distribuiti dalla M.B. non mutava la natura del contratto da quella tipica di prestito di azioni a quella atipica di scommessa, essendo ben possibile nel contratto di mutuo la pattuizione di un corrispettivo non prefissato, ma variabile; peraltro il contratto non aveva causa di scommessa, poiché non presentava gli elementi essenziali di tale negozio.
La nullità del contratto per mancanza o illiceità della causa – secondo la ricorrente – neppure può dipendere dal fatto che, a prescindere dagli effetti fiscali, generi per una delle parti una perdita economica, essendo esclusa l’esistenza di un principio di equivalenza delle prestazioni nei contratti a prestazioni corrispettive.
Formula, quindi, il seguente quesito di diritto: «Stabilisca Codesta Ecc.ma Corte se: nel caso di contratto di prestito di azioni regolato dal diritto italiano che preveda una remunerazione variabile per il mutuante in dipendenza dell’ammontare dei dividendi distribuiti dalle azioni oggetto del prestito, tale per cui detta remunerazione, in ipotesi, potrebbe risultare superiore all’ammontare dei dividendi medesimi ma che tuttavia, nel caso di specie, è risultata inferiore a quello dei dividendi ricevuti, con la conseguenza che il mutuatario ha conseguito un risultato economico complessivamente positivo; viola e falsamente applica gli artt. 1325, 1343, 1344, 1345, 1362, 1367, 1813, 1815 e 1933 c.c. la sentenza della CTR che, come nel caso di specie, ritiene che tale contratto abbia natura di negozio aleatorio tipico, e lo ritenga perciò nullo sia per assenza dell’elemento essenziale costituito da un’alea effettiva sia per illiceità ovvero per assenza della causa, in quanto volto esclusivamente ad attribuire vantaggi tributari a favore del mutuatario, oltre che meramente simulato non essendosi dato luogo alla consegna materiale delle azioni in quanto costituite in pegno presso il mutuante; anziché ritenere tale contratto configurare un negozio tipico di mutuo regolato dagli artt. 1813 e ss. c.c., di talché non soltanto né l’alea sottostante la determinazione del corrispettivo a favore del mutuante né la materiale consegna delle azioni ne costituiscono elementi essenziali, ma non ne è consentito neppure il sindacato circa la meritevolezza della relativa causa assegnata per legge, essendo peraltro lecito sotto il profilo civilistico, ed in disparte ogni considerazione di carattere fiscale, tenere conto nella determinazione dei corrispettivi dei negozi traslativi degli effetti fiscali di tale negozio nella misura in cui incidono sul valore economico dei beni e dei diritti trasferiti».
4. Preliminarmente, va rilevato che l’art. 366-bis cod. proc. civ., introdotto dall’art. 6 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, e contenente la previsione della formulazione del quesito di diritto, come condizione di ammissibilità del ricorso per cassazione, si applica ratione temporis ai ricorsi proposti avverso sentenze e provvedimenti pubblicati a decorrere dal 2 marzo 2006 (data di entrata in vigore del medesimo decreto) e fino al 4 luglio 2009 (data dalla quale opera la successiva abrogazione della norma, disposta dall’art. 47 della legge 18 giugno 2009, n. 69) (Cass., sez. 5, 19/11/2014, n. 24597).
5. Il secondo ed il terzo motivo, che possono essere scrutinati congiuntamente perché connessi, sono infondati, anche se la motivazione della decisione impugnata deve essere corretta, ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ.
5.1. E’ opportuno esaminare la figura negoziale di cui si discute.
La fattispecie in esame ha ad oggetto la stipula di un contratto denominato stock lending agreement tra la odierna ricorrente e la società ceca D. s.r.o., che consiste in un prestito di titoli contro pagamento di una commissione (fee) e contestuale costituzione da parte del mutuatario (borrower) di una garanzia, rappresentata da denaro o da altri titoli di valore complessivamente superiore a quello dei titoli ricevuti in prestito, chiamata Collaterale, a favore del mutuante (lender), a garanzia dell’obbligo di restituzione dei titoli ricevuti.
Alla scadenza il mutuatario restituisce al mutuante altrettanti titoli della stessa specie e quantità dei titoli ricevuti e il mutuante ritrasferisce al mutuatario i beni oggetto della garanzia. Se il collaterale è costituito da cash, il lender ha il dovere di remunerarlo al borrower ad un tasso di mercato. Se invece il collaterale fornito è Non-cash non viene richiesta alcuna remunerazione. Il contratto si caratterizza altresì per il fatto che è necessario che il rapporto esistente tra il valore dei titoli mutuati e il valore dei beni costituiti a garanzia rimanga inalterato nel corso della durata dell’operazione; ne consegue che entrambe le parti saranno obbligate ad integrare la garanzia originariamente prestata (in caso di apprezzamento dei titoli oggetto del prestito) o a restituire l’eccedenza (in caso di deprezzamento).
Con riguardo alla durata, possono aversi due diverse tipologie di contratto: a) prestiti aperti (on open basis), che non hanno durata stabilita, per cui il borrower può chiudere l’operazione in qualsiasi momento (return) e il lender può chiedere la restituzione dei titoli in qualunque momento (recall); oppure b) prestiti chiusi, che hanno una durata stabilita a priori, per cui i contraenti non possono chiudere l’operazione in anticipo e neppure rinegoziare il tasso; le fee maturate sui prestiti, come pure gli interessi sulla garanzia cash (rebate), vengono pagati e incassati mensilmente e non alla scadenza di ogni singola operazione.
5.2. I vantaggi che il contratto di stock lending consente di conseguire al soggetto che presta i titoli vanno individuati nella possibilità di beneficiare di margini reddituali senza assumere ulteriori rischi di mercato rispetto a quelli già presenti in portafoglio, mantenendo inalterata la flessibilità nella gestione dell’investimento senza ostacolare in alcun modo le scelte operative.
Autorevole dottrina, occupandosi dell’argomento, ha posto in rilievo che la fattispecie in esame è di norma caratterizzata dall’assenza di qualsiasi alea contrattuale in ordine al versamento della commissione, ben sapendo le parti sin dalla conclusione del contratto che il prestatario dovrà pagare la fee, sia che l’importo di tale commissione sarà più o meno equivalente al valore dei dividendi distribuiti. Si è, pertanto, ritenuto che, sul piano civilistico, l’operazione sia sostanzialmente «neutrale» per il prestatario che ottiene unicamente un vantaggio fiscale, che gli deriva dalla intassabilità dei dividendi riscossi e dalla integrale deducibilità della commissione versata al prestatore.
5.3. Le caratteristiche del contratto hanno indotto a mettere in dubbio la liceità di questa figura negoziale, che è stata ricondotta alternativamente al contratto simulato, al contratto nullo perché privo di causa (per mancanza ab origine dell’alea) e a quello in frode alla legge, tanto che si è ipotizzato che l’operazione potesse farsi rientrare tra le fattispecie delittuose previste dal d.lgs. n. 74 del 2000, ed in particolare nell’ipotesi di reato di dichiarazione fraudolenta qualificata di cui all’art. 3 del citato decreto legislativo.
La Terza sezione penale di questa Corte, tuttavia, con la sentenza n. 40272 del 7 ottobre 2015, ha escluso che tale operazione possa integrare una condotta penalmente rilevante, in quanto il nuovo art. 10-bis aggiunto alla legge 27 giugno 2000, n. 212, cd. Statuto del contribuente, dall’art. 1 del d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, esclude espressamente che le operazioni che siano prive di sostanza economica e realizzino vantaggi fiscali indebiti possano dar luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie.
Nella pronuncia, in particolare, dopo avere dato atto che con «l’emanazione di tale disposizione si è data attuazione alla disposizione dell’art. 5 della legge 11 marzo 2014, n. 23 che aveva delegato il Governo ad attuare la revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto dell’abuso del diritto, fornendo una definizione onnicomprensiva delle operazioni abusive» — dovendosi considerare tali le operazioni che, «pur nel rispetto formale delle norme fiscali», sono «prive di sostanza economica» in quanto sono «inidonee a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali» e che realizzano «essenzialmente vantaggi fiscali» qualificabili come «indebiti» in quanto «in contrasto con le finalità delle norme fiscali e con i principi dell’ordinamento tributario» — si afferma che l’operazione in esame «non è né inesistente, né simulata, ma esistente e voluta» e che presenta «tutti gli elementi che il nuovo art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente considera essenziali per la configurabilità di un’operazione abusiva, laddove considera tali, le operazioni che “pur nel rispetto formale delle norme fiscali”, siano prive di sostanza economica e volte essenzialmente alla realizzazione di un vantaggio fiscale indebito».
Si è, pertanto, ritenuto che la condotta non può che essere considerata come penalmente irrilevante in forza della statuizione di irrilevanza penale delle operazioni abusive sancita dal comma 13 dell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, ma che la scelta del legislatore di depenalizzare le operazioni integranti abuso del diritto non è stata accompagnata dalla previsione della asanzionabilità assoluta delle predette operazioni, essendo rimasta salva l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie.
6. Tanto premesso, nella specie, sulla base di quanto emerge dalla sentenza impugnata e dallo stesso ricorso, risulta pacifico che: a) in data 14 ottobre 2004 la odierna ricorrente ha concluso con la società ceca D. s.r.o. un contratto di prestito avente ad oggetto n. 2500 azioni che la seconda deteneva nella M.B., società portoghese fiscalmente residente a Madeira – controllata al 100 per cento dalla D. Czech – rappresentative di una partecipazione pari al 5 per cento del relativo capitale sociale; b) per effetto del contratto di stock lending, la D. si è obbligata a trasferire alla B. la proprietà delle azioni ricevute in prestito, riservandosi l’esercizio dei diritti di voto, mentre la B. si è obbligata a corrispondere, a fronte del prestito delle azioni, una commissione annuale di importo variabile commisurata ai dividendi annualmente distribuiti dalla M.B.; c) al prestito dei titoli era legata una pattuizione in forza della quale, laddove l’ammontare dei dividendi distribuiti in ciascun anno da M.B. fosse risultato inferiore a euro 550.000,00, la B. non avrebbe dovuto corrispondere alcuna commissione a D. s.r.o.; nel caso, invece, in cui l’ammontare dei dividendi distribuiti in ciascun anno fosse risultato superiore a euro 550.000,00, ma inferiore a euro 750.000,00, avrebbe dovuto corrispondere a D. s.r.l. una commissione pari ai dividendi diminuiti di 30.000,00 euro; nel caso in cui l’ammontare dei dividendi distribuiti in ciascun anno da M.B. fosse risultato superiore a euro 750.000,00, la B. avrebbe dovuto corrispondere a D. una commissione pari all’ammontare di tali dividendi aumentati di una percentuale pari al 9 per cento, ma, in ogni caso, non superiore a euro 1.150.000,00; d) al fine di assicurare l’adempimento delle obbligazioni derivanti dal contratto di prestito di azioni, la B. si è altresì obbligata a depositare sul proprio conto corrente intrattenuto presso la Banca di Gestione Patrimoniale S.A., appartenente al gruppo Credit Suisse, una garanzia in denaro pari alla perdita massima realizzabile di euro 95.000,00 (cd. collateral) ed a conferire mandato irrevocabile a tale Banca di pagare a D. l’ammontare della commissione che le sarebbe spettata, escutendo la garanzia in denaro; e) le parti hanno fissato al 31 gennaio 2007 la scadenza del contratto di prestito delle azioni, stabilendo che B. avrebbe ritrasferito a D. la proprietà delle azioni della stessa quantità e qualità di quelle ricevute in prestito alla predetta scadenza.
Dando esecuzione al contratto, la D. ha trasferito la proprietà delle partecipazioni azionarie emesse dalla M.B. alla B., la quale nell’anno 2004 ha riscosso dividendi di importo pari ad euro 649.751,63, corrispondendo, quindi, a D. una commissione pari ad euro 619.751,63. Nella dichiarazione relativa al periodo d’imposta 2004 la B. ha imputato alla formazione dell’imponibile IRES i dividendi percepiti, limitatamente al 5 per cento del relativo ammontare, ai sensi dell’art. 89, comma 3, del t.u.i.r., mentre l’intero importo della commissione versata è stato esposto quale costo.
7. La Commissione tributaria, con la decisione impugnata in questa sede, nel valutare la complessiva operazione sopra descritta, ha affermato che con il contratto in esame la contribuente ha ottenuto il vantaggio fiscale dell’esclusione da tassazione del 95 per cento dei dividendi distribuiti dalla M.B. e la deduzione integrale dal reddito fiscalmente imponibile della fee corrisposta ed ha ritenuto che questi vantaggi fiscali costituiscono la «vera causa del contratto sottoscritto», «nullo per mancanza di causa», e che «la formale aleatorietà risulta inficiata dalla potestà della contraente D. di organizzare e condurre le condizioni previste contrattualmente». I giudici di appello, prendendo le mosse dalla tesi difensiva dell’Amministrazione finanziaria, la quale aveva dedotto che l’operazione aveva natura aleatoria perché la causa principale del contratto era una vera e propria scommessa, basata sul verificarsi o meno di un evento aleatorio individuato nella distribuzione dei dividendi da parte della società portoghese M.B., hanno ritenuto che, in concreto, tale aleatorietà non è ravvisabile, in quanto la D. s.r.o., socia al 100 per cento della M.B. che aveva emesso i titoli oggetto di prestito, aveva potuto prevedere i risultati della gestione e l’ammontare dei dividendi da distribuire.
A tale conclusione i giudici di appello sono pervenuti sulla base della considerazione che al momento in cui è stato concluso il contratto l’esercizio della società portoghese M.B. era prossimo alla chiusura (30 novembre) ed era imminente la assemblea ordinaria che avrebbe deliberato l’approvazione del bilancio della M.B., per cui la società F. era in possesso delle informazioni che le consentivano di sapere se vi fossero utili e a quanto ammontassero.
Infatti, la società ceca D., controllando direttamente la società portoghese, era in grado di conoscere, ancor prima di concludere il contratto, l’andamento economico della società controllata ed aveva, quindi, il potere di stabilire se l’evento incerto, ossia la distribuzione dei dividendi, al quale era subordinato il pagamento del corrispettivo per la concessione in godimento delle azioni da parte della B. Holding s.p.a., potesse o meno verificarsi.
Alla luce di tale ricostruzione fattuale, i giudici di merito hanno escluso la esistenza dell’alea del contratto e hanno ritenuto il contratto nullo per difetto di causa, trascurando, tuttavia, di considerare che la fattispecie in esame integra una ipotesi di evasione d’imposta.
Come questa Corte ha già avuto modo di rilevare in fattispecie analoga a quella in esame (Cass., sez. 5, 12/05/2017, n. 11872), risulta del tutto irrilevante ricondurre la fattispecie in esame a figure negoziali nulle sotto il profilo civilistico, come sostiene l’Agenzia delle entrate – che assume che la causa principale del contratto sarebbe una vera e propria scommessa, basata sul verificarsi o meno di un evento aleatorio individuato nella distribuzione dei dividendi da parte della società portoghese M.B. — ovvero ad ipotesi elusive (art. 37-bis d.P.R. n. 600 del 1973), poiché l’operazione, da inquadrarsi nel contratto di stock lending di cui si è detto, è piuttosto finalizzata a consentire l’applicazione ai dividendi del citato art. 89 del t.u.i.r., con conseguente concorso alla formazione dell’imponibile nella sola misura del 5 per cento degli utili, ed a realizzare un indebito risparmio di imposta discendente dalla integrale deduzione dei costi di commissione, in violazione dell’art. 109, comma 8, del d.P.R. n. 917 del 1986, ratione temporis applicabile, con conseguente variazione dell’imponibile IRES, che costituisce l’autentico fondamento del recupero a tassazione.
Occorre quindi ribadire che «l’operazione di stock lending, ossia di prestito di azioni che preveda a favore del mutuatario il diritto all’incasso dei dividendi dietro versamento al mutuante di una commissione (corrispondente o meno all’ammontare dei dividendi riscossi), realizza il medesimo fenomeno economico dell’usufrutto di azioni, senza che rilevi, ai fini tributari, che nell’un caso si verta su un diritto reale e, nell’altro, su un diritto di credito, sicché è soggetta ai limiti previsti dall’art. 109, comma 8, t.u.i.r., restando il versamento della commissione costo indeducibile» (Cass., sez. 5, 12/05/2017, n. 11872, cit.; Cass., sez. 5, 28/09/2020, n. 20424).
8. Con il quarto motivo la ricorrente deduce contraddittorietà della motivazione in relazione all’accertamento di un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.), laddove la sentenza, pur avendo accertato che la contribuente ha conseguito un vantaggio economico dall’operazione in oggetto, di importo a circa euro 30.000,00 per ciascun anno di vigenza del contratto stesso, ha poi affermato che si sarebbe verificata «la perdita dell’aleatoria scommessa» e che l’unico vantaggio perseguito con il contratto sarebbe stato quello fiscale.
9. Con il quinto motivo la ricorrente ripropone la medesima censura sotto forma di omesso esame di una circostanza decisiva ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.
10. Il quarto ed il quinto motivo, che possono essere trattati unitariamente perché connessi, sono inammissibili.
La nuova formulazione del vizio di legittimità, introdotta dall’art. 54, comma 1, lett. b), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazione nella I. 7 agosto 2012, n. 134, limita la impugnazione alla sola ipotesi di «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», per cui al di fuori di tale omissione, rimane estranea al vizio ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. la censura di «contraddittorietà» della motivazione (Cass., sez. 3, 12/10/2017, n. 23940).
Nel caso di specie la ricorrente non indica il «fatto storico» controverso e decisivo che potrebbe condurre ad una diversa decisione, ma si limita a criticare il discorso argomentativo giustificativo della decisione adottata, per cui la censura così come formulata non è inquadrabile nel paradigma del riformato art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.
11. Con il sesto motivo la contribuente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 109 del t.u.i.r. e dell’art. 14, commi 4 e 4-bis, della I. 24 dicembre 1993, n. 537, per avere i giudici di appello escluso la deducibilità delle commissioni pagate alla D. s.r.o.
Evidenzia che il comma 5 dell’art. 109 del t.u.i.r. considera i componenti negativi di reddito come inerenti alla determinazione dell’imponibile Ires per il semplice fatto che si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che fruiscano di un regime di esclusione e che, d’altro canto, i commi 4 e 4- bis dell’art. 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 confermano la piena deducibilità dei costi derivanti da contratti illeciti.
Aggiunge che neppure può sostenersi che le commissioni per il prestito delle azioni non sarebbero deducibili ai sensi del comma 4-bis dell’art. 14 della legge n. 537 del 1993 per essere riconducibili ad atti qualificabili come reato per il fatto che la sentenza impugnato ha osservato che «nel caso di specie, non si tratta di illecito di natura solo civile in quanto tale deduzione ha comportato violazioni di natura penale segnalate alla Procura»; e ciò perché né l’Ufficio, né i giudici di appello hanno fatto discendere da tale circostanza la ripresa a tassazione operata.
Formula, quindi, il seguente quesito di diritto: «Stabilisca Codesta Ecc.ma Corte se in un caso in cui, come nella specie, l’Ufficio recuperi a tassazione gli oneri sostenuti in relazione ad un contratto di prestito di azioni, nonché disconosca la parziale esclusione dall’imponibile dei dividendi percepiti in base alle azioni oggetto di prestito, in quanto ritiene civilisticamente nullo tale contratto di prestito; viola e falsamente applica gli artt. 109 del TUIR e dell’art. 14, commi 4 e 4-bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 la sentenza della CTR che, come nella specie, confermi l’operato dell’Ufficio ritenendo applicabile il divieto di deduzione dei costi da reato in quanto la deduzione di tali costi ha comportato una denuncia alla procura della Repubblica; anziché ritenere che il divieto in questione scatti soltanto laddove i costi derivino da acquisti di beni e servizi direttamente utilizzati per il compimento di delitti per i quali il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale e che da tale divieto derivi il corollario secondo cui sono pienamente rilevanti agli effetti fiscali i componenti negativi di reddito derivanti da atti e contratti solo civilisticamente illeciti».
11.1. Il motivo è infondato.
11.2. Il comma 5 dell’art. 109 del t.u.i.r. prevede che « 5. Le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi.
Se si riferiscono indistintamente ad attività o beni produttivi di proventi computabili e ad attività o beni produttivi di proventi non computabili in quanto esenti nella determinazione del reddito sono deducibili per la parte corrispondente al rapporto di cui ai commi 1, 2, 3 dell’articolo 96…».
Il successivo comma 8, poi, dispone: «8. In deroga al comma 5 non è deducibile il costo sostenuto per l’acquisto del diritto d’usufrutto o altro diritto analogo relativamente ad una partecipazione societaria da cui derivino utili esclusi ai sensi dell’articolo 89». Come chiarito da questa Corte con le pronunce già citate (Cass., sez. 5, 12/05/2017, n. 11872; Cass., sez. 5, 28/09/2020, n. 20424), alle quali si deve dare continuità, in ragione dell’insussistenza, nella presente fattispecie, di presupposti di fatto e di diritto diversi che possano giustificare una diversa valutazione, «L’usufrutto di azioni è una operazione finanziaria con la quale viene concesso il diritto a percepire i dividendi distribuiti da un’altra società a fronte di un corrispettivo comprensivo del valore attuale dei flussi futuri di utili. Il cedente, pertanto, percepisce anticipatamente l’entità del dividendo sotto forma di corrispettivo per la cessione dell’usufrutto e il cessionario iscrive in bilancio, nell’attivo patrimoniale immateriale, il corrispondente onere. L’art. 109, comma 8, cit., dispone l’indeducibilità tributaria del costo così sostenuto quando vengano in rilievo partecipazioni societarie da cui derivino utili esclusi da tassazione: individua, in altri termini, un parallelismo tra la deducibilità del costo dell’usufrutto su azioni e l’imponibilità dei dividendi derivanti dalla sottostante partecipazione. Nel contratto di stock lending, corrispondentemente, il prestito dei titoli si associa al diritto di percepire i relativi dividendi da parte del mutuatario, mentre il mutuante ha diritto al pagamento di una commissione in relazione al dividendo incassato».
Il contratto di stock lending, al pari dell’usufrutto di azioni, trasferisce (temporaneamente) la titolarità del diritto al dividendo e per ottenere la relativa riscossione è previsto un costo, sicché il fenomeno economico è lo stesso, senza che assuma rilievo, ai fini tributari, la circostanza che nell’un caso si verta in un diritto reale e, nell’altro, in un diritto di credito; «ciò che conta, del resto, è solo che ad un’analisi economica e giuridico tributaria oggettiva e sostanziale il contratto si dimostri del tutto eccentrico rispetto alle norme sulla deduzione delle quote di ammortamento e sul credito di imposta sui dividendi. Parimenti, pertanto, i costi sostenuti (i.e. la commissione) per l’operazione di stock lending debbono ritenersi indeducibili».
L’applicazione alla fattispecie in esame del citato comma 8 dell’art. 109 del t.u.i.r. non configura, d’altro canto, una impropria estensione analogica del dettato della norma, che si riferisce letteralmente «ad altro diritto analogo», senza ulteriori connotazioni, sicché non va intesa come meramente confinata ai soli diritti reali (interpretazione che, del resto, avrebbe una valenza abrogatoria), non deponendo in tal senso né la lettera, né lo spirito della disposizione (Cass. n. 11872 del 2017, cit.).
Ne deriva che il contratto non è nullo per mancanza di causa o per violazioni di norme imperative, né l’operazione deve essere considerata elusiva, dovendosi piuttosto ritenere che i costi sostenuti per l’operazione di stock lending sono indeducibili ai sensi dell’art. 109, comma 8, del t.u.i.r..
La motivazione della decisione impugnata deve quindi in tal senso essere corretta.
12. Da ultimo, va rilevato che con la memoria ex art. 380-bis.1. cod.proc. civ., la contribuente chiede la rideterminazione delle sanzioni previa applicazione della disciplina introdotta dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, ad essa più favorevole. Come questa Corte ha chiarito, la modifica normativa in esame non opera in maniera generalizzata in favor rei, con la conseguenza che la mera affermazione di uno ius superveniens più favorevole non consente di operare sic et simpliciter la trasformazione della sanzione irrogata in sanzione illegale, in assenza di specifica deduzione dell’applicabilità in concreto di una sanzione tributaria inferiore rispetto a quella applicata (Cass., sez. 5, 12/04/2017, n. 9505; Cass., sez. 5, 28/06/2018, n. 17143; Cass., sez. 6-5, 11/11/2019, n. 29046).
Nel caso in esame, tuttavia, la ricorrente ha ritrascritto in modo puntuale nella memoria uno stralcio dell’avviso di accertamento indicante le violazioni accertate e le sanzioni in concreto irrogate e, richiamando la sanzione più favorevole introdotta dallo ius superveniens, ha anche rideterminato la misura della sanzione in concreto applicabile che risulta inferiore a quella irrogata.
Ne consegue che la richiesta, formulata in memoria, merita accoglimento, in ragione del trattamento più favorevole introdotto dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, norma sopravvenuta alla pronuncia in esame. Infatti, l’applicabilità in pendenza del presente giudizio, è consentita dall’art. 32, comma 1, del citato decreto, come modificato dall’art. 1, comma 133, della I. 28 dicembre 2015, n. 208, in conformità all’indirizzo di questa Corte, secondo cui, in applicazione del principio del favor rei, trova applicazione il trattamento più favorevole assicurato dallo ius superveniens, a condizione che vi sia un giudizio ancora in corso ed il provvedimento impugnato non sia quindi divenuto definitivo (Cass., sez. 6-5, 27/06/2017, n. 15978; Cass., sez. 5, 21/12/2016, n. 26479; Cass., sez. 5, 9/08/2016, n. 16679; Cass., sez. 5, 24/07/2013, n. 17972).
13. Conclusivamente, rigettati i motivi del ricorso, la causa va rimessa alla competente Commissione tributaria regionale che dovrà procedere alla rideterminazione delle sanzioni secondo parametri edittali che risultino proporzionati e adeguati rispetto al trattamento più favorevole sopravvenuto, anche nel caso in cui esse rientrino quantitativamente nella nuova cornice sanzionatoria. Il giudice del rinvio dovrà, altresì, provvedere alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità
P.Q.M.
pronunciando sul ricorso, rigetta i motivi proposti e, accolta l’istanza di applicazione dello ius superveniens con riguardo alle sanzioni irrogate, cassa la sentenza impugnata limitatamente alle sanzioni e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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