CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 marzo 2021, n. 8112
Licenziamento illegittimo – Reintegra e condanna al pagamento delle retribuzioni maturate dal data del licenziamento a quello della effettiva reintegra – Diritto di opzione – Violazione del principio del ne bis in idem
Rilevato che
La Corte di appello di L’Aquila con la sentenza n. 165/2019, per quel che in questa sede rileva, aveva rigettato gli appelli proposti da A.B. srl e C. 2000 srl nonché da A.C. srl in liquidazione avverso le due diverse decisioni con le quali il Tribunale di Chieti aveva respinto le opposizioni proposte dalle predette società avverso il decreto ingiuntivo n. 723/16 ottenuto da P.I. per il pagamento della complessiva somma di E. 51.184,96.
La Corte territoriale aveva premesso che il decreto ingiuntivo in questione traeva origine dalla sentenza n. 457/2014 del Tribunale di Chieti poi confermata dalla Corte di appello ( n. 1136/2015), con la quale era dichiarato illegittimo il licenziamento intimato a P.I., condannate le società alla reintegrazione e condannate le stesse al pagamento delle retribuzioni maturate dal dì del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione. Esponeva altresì che nelle more del giudizio i giudici di legittimità rigettavano il ricorso delle società avverso la sentenza in merito al licenziamento, che la stessa, pertanto, passava in giudicato, e che la lavoratrice esercitava il diritto di opzione rispetto alla reintegrazione.
Il Giudice d’appello valutava quindi che non fosse presente un problema di bis in idem tra due diversi titoli, quali la sentenza di condanna al pagamento delle retribuzioni sino alla reintegrazione e il decreto ingiuntivo in questione, poiché quest’ultimo era comunque relativo a titoli di pagamento ulteriori (indennità per l’esercitata opzione, tfr) e comunque perché anche la condanna al pagamento delle retribuzioni maturate dopo l’illegittimo licenziamento, sebbene già espressa nella sentenza, non era stata quantificata nel suo complesso ammontare ma specificata solo nel criterio mensile di riferimento per la determinazione del quantum.
Avverso tale decisione A.C. in liquidazione proponeva ricorso affidato ad un solo motivo cui resisteva con controricorso P.I.
Veniva depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio.
Entrambe le parti depositavano successiva memoria.
Considerato che
1) Con unico motivo è dedotta la violazione dell’art. 8 l. n.319/80 art. 11; la violazione del principio ne bis in idem; la violazione art. 2909 c.c.e art. 477 c.p.c.in relazione all’art. 360 co.1 n. 3 c.p.c.. Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 co.1 n. 5 c.p.c.).
Parte ricorrente rileva che la corte aquilana ha errato nel non considerare che l’indennità per l’illegittimo licenziamento era stata quantificata già dalla sentenza dichiarativa della suddetta illegittimità e che pertanto il successivo decreto ingiuntivo, almeno su tale parte, costituiva un secondo titolo duplicativo.
Il motivo, con riguardo alla prima violazione denunciata ai sensi dell’art. 360 co.1 n. 3 c.p.c, è inammissibile poiché non chiarisce in che modo le disposizioni richiamate (art. 8 l. n. 319/80 art. 11; art. 477 c.p.c.) siano connesse rispetto alla statuizione impugnata e in che termini siano state violate.
Quanto alla violazione del principio del ne bis in idem deve osservarsi che il primo titolo costituito dalla sentenza conteneva la condanna al pagamento e il criterio di riferimento utile per il calcolo, (retribuzione mensile) ma era carente dell’ulteriore elemento temporale per la sua determinazione, con la conseguenza che, intervenuta nel frattempo l’opzione esercitata dalla lavoratrice e quindi un elemento che non era contenuto nell’originario titolo, era da escludersi ogni ipotesi di duplicazione e di violazione del principio del richiamato principio.
L’assenza dell’elemento temporale finale e la conseguente indeterminatezza del credito, anche incisa dalle ulteriori circostanze intervenute, non avrebbe invero consentito la messa in esecuzione della condanna contenuta in sentenza.
Inammissibile è anche l’ulteriore profilo di censura inerente l’omesso esame della medesima circostanza (indennità risarcitoria già contenuta nella originaria sentenza sul licenziamento). Sul vizio in questione questa Corte ha chiarito che “L’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012 (conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012), introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere decisivo, ossia idoneo a determinare un esito diverso della controversia” (Cass. n.23238/2017)
La decisività del “fatto” omesso assume nel vizio considerato dalla disposizione richiamata rilevanza assoluta poiché determina lo stretto nesso di causalità tra il fatto in questione e la differente decisione ( non solo eventuale ma certa).
Tale condizione deve dunque essere chiaramente allegata dalla parte che invochi il vizio, onerata di rappresentare non soltanto l’omissione compiuta ma la sua assoluta determinazione a modificare l’esito del giudizio.
Sulla base di tali premesse deve quindi escludersi l’omissione denunciata poiché la circostanza relativa alla condanna ed al suo contenuto, già presente nella originaria sentenza dichiarativa del licenziamento, era stata oggetto di specifico esame della corte territoriale che ha espresso la sua valutazione, ampiamente motivando sul punto.
Il ricorso deve pertanto ritenersi infondato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in favore della controricorrente nella misura di cui al dispositivo.
Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in E. 4000,00 per compensi ed E. 200,00 per spese oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.