CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 agosto 2018, n. 21162
Licenziamento – Indennità omnicomprensiva – Tutela applicabile al lavoratore
Rilevato
che con sentenza in data 25 maggio 2016, la Corte d’appello di Roma condannava E.L. s.p.a. al pagamento, in favore di P.C., di un’indennità omnicomprensiva, ai sensi del novellato art. 18, quinto comma I. 300/1970, in misura pari a quattordici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre rivalutazione e interessi legali dal 2 aprile 2016; rigettava nel resto il reclamo principale del secondo e integralmente il reclamo incidentale della società avverso la sentenza di primo grado (così parzialmente riformandola), che aveva rigettato l’opposizione del lavoratore all’ordinanza, emessa dallo stesso Tribunale ai sensi dell’art. 1, comma 49 I. 92/2012 (di accertamento dell’illegittimità, siccome tardivo, del licenziamento intimato da E.L. s.p.a. a P.C. l’11 agosto 2014, di risoluzione da tale data del rapporto di lavoro e di condanna della prima al pagamento, in favore del secondo, di un’indennità omnicomprensiva in misura di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto) e parimenti respinto l’opposizione riconvenzionale della società datrice (di accertamento della risoluzione del rapporto di lavoro tra le parti il 7 maggio 2014 per effetto delle valide dimissioni del lavoratore del 6 maggio 2014 o, in subordine, della legittimità del licenziamento intimatogli l’11 agosto 2014, erroneamente ritenuto tardivo; di restituzione della somma di € 18.900,72 corrisposta al lavoratore in esecuzione dell’ordinanza);
che avverso tale sentenza il lavoratore ricorreva per cassazione con cinque motivi, cui resisteva la società con controricorso contenente ricorso incidentale con cinque motivi;
che entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c.;
Considerato
che il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 18, primo comma I. 300/1970, per la nullità del licenziamento intimato tardivamente (nella ritenuta natura della tempestiva intimazione di elemento costitutivo della fattispecie, integrante nullità) da sanzionare pertanto con la tutela reintegratoria e non risarcitoria, sia pure piena, a norma dell’art. 18, quinto comma I. fall.; ma soprattutto per la natura ritorsiva, erroneamente esclusa, del licenziamento conseguente alla notificazione del (primo) ricorso del lavoratore di impugnazione di nullità o inefficacia delle dimissioni rese e del licenziamento orale (primo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 18, quarto comma I. 300/1970, 2119 c.c., 5 I. 604/1966, per la spettanza al lavoratore della tutela reintegratoria nella ricorrenza dell’ipotesi di insussistenza degli estremi del giustificato motivo soggettivo né della giusta causa, in difetto di prova, a carico datoriale, della sussistenza di entrambi i fatti contestati (indebita appropriazione di banconote e falsa accusa di abusivo riempimento del foglio in bianco sottoscritto dal lavoratore con le sue dimissioni), siccome neppure accertato il primo (e tanto sufficiente per la congiunta contestazione) e “scriminato” il secondo dall’esercizio del diritto di difesa del lavoratore (secondo motivo); violazione e falsa applicazione delle norme in materia di licenziamento per giusta causa e di esercizio del diritto di difesa ed omesso esame e approfondimento istruttorio su fatto decisivo e controverso, in particolare riferimento al mancato accertamento, nella non corretta ricostruzione dell’effettivo andamento della vicenda interruttiva del rapporto tra le parti (anche per l’ammissione solo parziale delle prove orali dedotte), del vizio del consenso del lavoratore nella sottoscrizione delle dimissioni, sotto minaccia di denuncia penale, senza neppure la possibilità di una piena esplicazione della propria attività difensiva, per il mancato accoglimento datoriale della specifica richiesta del suo difensore di una copia dell’atto di dimissioni (terzo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 24 Cost., 7 I. 300/1970, per il mancato riconoscimento dell’esimente del diritto di difesa del lavoratore, nell’impugnazione del licenziamento illegittimamente intimatogli, in quanto esercitato in via stragiudiziale (quarto motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 1 I. 92/2012, 18 l. 300/1970, per insussistenza del fatto, in difetto dell’elemento soggettivo (per l’esercizio del diritto di difesa del lavoratore) e violazione e falsa applicazione degli artt. 225 CCNL di settore e 30 l. 183/2010, per mancanza di proporzionalità del fatto, neppure ricompreso tra quelli tipizzati come sanzionabili con licenziamento disciplinare (quinto motivo);
che a propria volta la società, in via di ricorso incidentale, deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 51 I. 92/2012, per inammissibilità, siccome nuova, della domanda di tutela risarcitoria ai sensi dell’art. 18, quinto comma l. 300/1970 proposta dal lavoratore per la prima volta in fase di opposizione all’ordinanza all’esito della fase sommaria del giudizio di primo grado, con erronea pronuncia del Tribunale, viziata di ultrapetizione (primo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c., 1, comma 51 I. 92/2012, 18, quinto comma l. 300/1970, per vizio di ultrapetizione della sentenza impugnata nella pronuncia di condanna risarcitoria non richiesta, a fronte della erroneamente ritenuta tardività del licenziamento (secondo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 4, comma 21 I. 92/2012, 1334, 1335 c.c., 7 I. 300/1970, 2119 c.c., 115 c.p.c. ed omesso esame di fatto decisivo e controverso, per l’erroneamente ravvisata illegittimità del licenziamento per tardività, non essendo stata considerata la tempestiva (ri)attivazione del procedimento disciplinare con un nuova contestazione (il 23 luglio 2014) soltanto dopo il ricevimento (il 18 luglio 2014) della notificazione del secondo ricorso di impugnazione del licenziamento, nel difetto di interesse datoriale di coltivare la (prima) contestazione del 9 maggio 2014, per l’intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro a seguito dell’omessa tempestiva comunicazione della revoca delle dimissioni nel termine di sette giorni prescritto (terzo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. in relazione all’art. 227 CCNL di settore, 2119 c.c. e 18 I. 300/1970, per ritenuta tardività del licenziamento intimato sull’erroneo presupposto di soggezione al termine di quindici giorni previsto dalla norma collettiva soltanto per le sanzioni conservative e non estensibile all’ipotesi di licenziamento per giusta causa (quarto motivo); violazione e falsa applicazione dell’art. 18, quinto e sesto comma I. 300/1970, come mod. dall’art. 1, comma 42 I. 92/2012, per erronea qualificazione del difetto di tempestività del licenziamento alla stregua di elemento costitutivo del recesso e non di sua formalità, con applicazione della tutela indennitaria prevista, non già come correttamente dal sesto comma (c.d. attenuata o debole), ma dal quinto dell’art. 18 I. 300/1970 (cd. piena o forte), per giunta incongruamente aumentata da dodici a quattordici mensilità (quinto motivo);
che, in via preliminare, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso, per tardività della notificazione (2 agosto 2016) rispetto alla comunicazione via PEC della sentenza di primo grado (25 maggio 2016) e quindi oltre i sessanta giorni prescritti;
che il procedimento notificatorio è stato, infatti, tempestivamente avviato (il 22 luglio 2016) e immediatamente coltivato (Cass. s.u. 24 luglio 2009, n. 17352; Cass. s.u. 15 luglio 2016, n. 14594), a seguito del trasferimento del difensore dall’indirizzo di domiciliazione in altro, con la richiesta di notificazione ivi il 28 luglio 2016 e sua esecuzione a mani di un collega di studio presso il nuovo indirizzo il 2 agosto 2016;
che, secondo un esame rispettoso della pregiudizialità logico-giuridica delle questioni devolute, deve essere seguito l’ordine in appresso indicato, con avvio dal congiunto esame, per ragioni di stretta connessione, del terzo e del quarto motivo di ricorso incidentale;
che il collegio ritiene che essi siano inammissibili;
che il primo dei due mezzi qui scrutinati è assolutamente generico, in violazione del principio di specificità prescritto, appunto a pena di inammissibilità, dell’art. 366, primo comma, n. 4 c.p.c., che esige l’illustrazione del motivo con esposizione degli argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con la sentenza impugnata e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della sentenza (Cass. 22 settembre 2014, n. 19959; Cass. 19 agosto 2009, n. 18421; Cass. 3 luglio 2008, n. 18202);
che esso omette, infatti, di confutare, sotto il profilo di tempestività del licenziamento in luogo della sua tardività erroneamente ritenuta, la ravvisata inammissibilità del motivo formulato in sede di reclamo, avente il medesimo oggetto di doglianza, per l’accertata non contestazione della società reclamante incidentale del puntuale argomento del Tribunale in base al quale è stata accertata la tardività del licenziamento: argomento (al primo capoverso di pg. 17 della sentenza) integrante la prima ratio decidendi, seguita poi dalla seconda (“Peraltro … ”Dunque … al secondo e terzo capoverso di pg. 17 della sentenza), sola delle due, autonome, ad essere stata confutata;
che lo stesso discorso vale per il profilo, sempre nel primo motivo scrutinato, relativo alla pretesa omissione di tempestiva comunicazione della revoca delle dimissioni, nel termine di sette giorni, ai fini dell’intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro: anche qui, oggetto di censura è stata la sola prima ratio decidendi (prescrizione del termine di sette giorni per la sola adozione dell’atto di revoca, non anche per la sua comunicazione: ult. capoverso, prima parte di pg. 17 della sentenza), non anche la seconda, addirittura assorbente (“In ogni caso tale questione non può essere affrontata in questa sede … “: seconda parte dello stesso capoverso);
che è noto infatti che, qualora la decisione di merito si fondi su una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza (o addirittura la mancanza di specifica formulazione) delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, quelle relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (Cass. 3 novembre 2011, n. 22753; Cass. 14 febbraio 2012, n. 210; Cass. 29 marzo 2013, n. 79318; Cass. 19 febbraio 2016, n. 3307);
che la questione devoluta con il secondo motivo congiuntamente scrutinato (quarto incidentale) è nuova, non essendo stata trattata dalla sentenza impugnata, né avendo il ricorrente indicato, né tanto meno trascritto in quali atti l’avrebbe dedotta in primo grado e coltivata in appello: con riflesso sulla genericità del motivo, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso e pertanto della prescrizione dell’art. 366, primo comma, n. 4 e n. 6 c.p.c. (11 gennaio 2007, n. 324; Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675);
che anche il primo e il secondo motivo incidentali possono, per ragioni di stretta connessione, essere congiuntamente esaminati;
che essi sono infondati;
che occorre premettere che l’interpretazione della domanda, anche a fini selettivi della tutela applicabile al lavoratore che abbia tempestivamente impugnato il licenziamento intimatogli, rientra nel potere di valutazione del giudice di merito (Cass. 24 luglio 2012, n. 12944), quale espressione del principio generale per il quale, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, egli non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse siano contenute, ma deve per converso avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (Cass. 2 novembre 2005, n. 21208; Cass. 14 novembre 2011, n. 23794; Cass. 7 gennaio 2016, n. 118): pertanto è corretta l’affermazione della Corte territoriale, in esatta applicazione del suenunciato principio di diritto in via adesiva al Tribunale (sub p.to 3.1, quinto capoverso di pg. 16 della sentenza);
che la composizione strutturale del giudizio di primo grado, nel cd. “rito Fornero”, in una prima fase ad istruttoria sommaria, diretta ad assicurare una più rapida tutela al lavoratore e in una seconda, a cognizione piena, che costituisce una prosecuzione della precedente fase, consente la deduzione, non integrante domanda nuova inammissibile per mutamento della causa petendi, di ulteriori motivi di invalidità del licenziamento impugnato e pertanto di ragioni ulteriori di sua censura o comunque ad esso connesse (a superamento di un primo orientamento contrario, di Cass. 28 settembre 2015, n. 19142, in più condivisibile e ormai consolidato indirizzo: Cass. 11 dicembre 2015, n. 25046; Cass. 30 settembre 2016, n. 19552; Cass. 21 novembre 2017, n. 27655);
che anche il primo motivo principale e il quinto incidentale possono, per ragioni di stretta connessione, essere congiuntamente esaminati;
che essi sono infondati;
che, pure configurandosi l’immediatezza del licenziamento quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro (Cass. 6 novembre 2014, n. 23669, sia pure in obiter), in quanto la non immediatezza del provvedimento espulsivo può indurre ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore, fermo sempre il concreto accertamento del giudice di merito in ordine alla compatibilità del ritardo con l’acquisizione e la valutazione dei fatti, alla complessità della struttura datoriale ed alla globale considerazione delle circostanze (Cass. 1 luglio 2010, n. 15649; Cass. 10 settembre 2013, n. 20719), non sussiste alcuna delle ipotesi tassativamente previste dal testo novellato dell’art. 18, primo comma I. 300/1970;
che il difetto di tempestività accertato non ha, in riferimento a quanto appena argomentato, natura di vizio genetico ma funzionale della fattispecie sanzionatola, ma neppure costituisce elemento essenziale della giusta causa o del giustificato motivo, tale da integrare insussistenza (tanto meno manifesta) del fatto contestato o posto a i il base del licenziamento (arg. ex Cass. s.u. 27 dicembre 2017, n. 30985): con la conseguenza della corretta applicazione, in quanto elemento costitutivo e non di natura formale o procedurale, della tutela indennitaria prevista dal quinto e non dal sesto comma dell’art. 18 I. 300/1970;
che, quanto all’ipotesi dedotta di licenziamento ritorsivo, esso postula, a differenza della nullità del licenziamento discriminatorio (che deriva direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l’art. 4 della I. 604/1966, l’art. 15 l. 300/1970, l’art. 3 della l. 108/1990, nonché di diritto europeo, quali quelle contenute nella direttiva n. 76/207/CEE sulle discriminazioni di genere: Cass. 5 aprile 2016, n. 6575), la sussistenza di un motivo illecito determinante a norma dell’art. 1345 c.c., il quale deve avere appunto un carattere di illiceità ed essere l’esclusiva ragione di intimazione del licenziamento: non bastando l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo, ma essendo necessario che questo risulti comprovato e che possa da solo sorreggere il licenziamento (Cass. 17 novembre 2017, n. 27325; Cass. 27 febbraio 2015, n. 3986);
che nel caso di specie, esso è stato escluso per accertamento in fatto della Corte territoriale (e prima del Tribunale), in corretta applicazione dei suenunciati principi di diritto, sulla base di argomentate ragioni (esposte al p.to 2.5 di pg. 11 della sentenza), che lo rendono insindacabile in sede di legittimità;
che il secondo motivo principale è infondato;
che, qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa sulla contestazione al dipendente di diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, ciascuno di essi autonomamente considerato costituisce base idonea per giustificare la sanzione, salvo che la parte che vi abbia interesse provi che soltanto presi in considerazione congiuntamente, per la loro complessiva gravità, essi siano tali da non consentire la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro: sicché, ove emerga l’infondatezza di uno o più degli addebiti contestati, quelli residui mantengono la loro astratta idoneità a giustificare il recesso (Cass. 18 settembre 2007, n. 19343; Cass. 30 maggio 2014, n. 12195; Cass. 28 luglio 2017, n. 18836);
che nel caso di specie, la Corte territoriale, in esatta applicazione del suenunciato principio (al p.to 2.7, quarto capoverso di pg. 12 della sentenza), ha accertato, senza una puntuale censura del lavoratore ricorrente principale sul punto, il difetto di prova, a carico del medesimo, della scarsa rilevanza disciplinare della falsa accusa rivolta alla società, al contrario ritenuta di gravità tale essa sola, da “giustificare ampiamente il licenziamento” (così, sub 2.7, quinto e sesto capoverso di pg. 12 della sentenza);
che il terzo motivo è inammissibile;
che è generica la deduzione (senza neppure indicazione delle norme, né tanto meno illustrazione) della violazione di legge denunciata, in difetto dei requisiti propri (Cass. 16 gennaio 2007, n. 828; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass, 15 gennaio 2015, n. 635);
che il motivo consiste piuttosto in una contestazione, in funzione di una diversa ricostruzione del fatto, del suo concreto accertamento e della valutazione probatoria compiuti dalla Corte territoriale e sorretti da un ragionamento argomentativo corretto (per le ragioni esposte dal p.to 2.8 al p.to 2.12 a pgg. da 12 a 15 della sentenza: pure scrutinato in quest’ultimo punto anche il denunciato vizio del consenso, coartato da minaccia, con la conseguente inesistenza di alcuna omissione di esame di tale fatto): nella sottesa ma evidente sollecitazione di un riesame del merito, insindacabile in sede di legittimità (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694), tanto più nei rigorosi limiti devolutivi prescritti dal novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439), applicabile ratione temporis;
che il quarto motivo è infondato;
che non sussiste la violazione denunciata, per l’accertata falsità dell’accusa del lavoratore alla società datrice di abusivo riempimento di foglio in bianco a giustificazione delle dimissioni rassegnate il 6 maggio 2014, poi dichiarate inefficaci a causa di mancata convalida, a norma dell’art. 4, diciassettesimo comma l. 92/2012: posto che un tale comportamento non integra esercizio del diritto di difesa, né in relazione alla dedotta volontà datoriale di risolvere per questa via il rapporto di lavoro (rimasta indimostrata e comunque per eccedenza della condotta, di palese illiceità: come in particolare ritenuto sub 2.8, 2.9, 2.14 a pag. 13 e 15 della sentenza), né tanto meno in relazione al licenziamento disciplinare successivamente intimato proprio per tale ragione (oltre che per altro addebito non provato);
che sono pertanto inconferenti i principi di diritto richiamati, in ordine all’ambito del diritto di difesa, esercitabile anche con memorie contenenti espressioni sconvenienti ed offensive (pure soggette alla disciplina stabilita dall’art. 89 c.p.c., ma) non integranti giusta causa di licenziamento e della sua natura, anche nel caso di specie, di causa di non punibilità, a norma dell’art. 598 c.p., quale specifica applicazione del più generale principio della natura scriminante dell’esercizio del diritto, ai sensi dell’art. 51 c.p. (Cass. 26 gennaio 2007, n. 1757; Cass. 11 dicembre 2014, n. 26106), oltre che per le ragioni esposte dalla Corte capitolina, per la loro palese non pertinenza;
che il quinto motivo è parimenti infondato;
che la Corte territoriale ha accertato in fatto tanto la ricorrenza dell’elemento soggettivo che il rispetto del principio di proporzionalità, con adeguate argomentazioni (esposte sub p.ti 2.13 e 2.15 a pg. 15 della sentenza): con la conseguente insindacabilità in sede di legittimità;
che, quanto al profilo di censura di esclusione della giusta causa per mancata tipizzazione in alcuna ipotesi stabilita dal CCNL, in disparte la mancata specifica indicazione, né tanto meno trascrizione (non avendo trattato la questione la sentenza impugnata, semplicemente limitatasi ad una sua rapida menzione quale uno dei fondamenti decisionali della sentenza di primo grado: a pg. 7 lett. k) dell’atto in cui essa sarebbe stata prospettata in grado di appello, con riflesso sulla sua genericità in violazione del principio di autosufficienza e pertanto della prescrizione dell’art. 366, primo comma, n. 4 e n. 6 c.p.c. (11 gennaio 2007, n. 324; Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675), esso pure è infondato;
che non esiste, infatti, un principio per il quale non si configurerebbe giusta causa di licenziamento, che è nozione legale, in mancanza di ipotesi tipizzate nel contratto collettivo: posto che anzi il giudice di merito deve (per la loro valenza meramente esemplificativa, non preclusiva della sua valutazione in ordine all’idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore: Cass. 18 febbraio 2011, n. 4060; Cass. 12 febbraio 2016, n. 2830) tenerne semplicemente conto, a norma dell’art. 30, terzo comma I. 183/2010; non essendo egli soggetto ad alcun vincolo diverso dal (non) poter accertare un licenziamento per giusta causa, quando questo costituisca sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione (Cass. 29 settembre 2005, n. 19053; Cass. 4 aprile 2017, n. 8718);
che dalle superiori argomentazioni discende allora coerente il rigetto di entrambi i ricorsi e la compensazione delle spese del giudizio tra le parti, reciprocamente soccombenti;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale e quello incidentale; dichiara interamente compensate le spese del giudizio tra le parti.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e incidentale, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
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