CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 aprile 2018, n. 10083
Licenziamento intimato oralmente – Immediato ripristino del rapporto e al pagamento delle retribuzioni maturate – Notificazione della sentenza di primo grado
Rilevato
che con sentenza 10 febbraio 2016, la Corte d’appello di Napoli dichiarava inammissibile l’appello proposto da A.F.M. s.r.l. avverso la sentenza di primo grado, che, previo accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra il prestatore G.M. e la predetta società, aveva dichiarato l’inefficacia del licenziamento intimato oralmente il 6 dicembre 2001 e condannato la società datrice all’immediato ripristino del rapporto e al pagamento, in favore del lavoratore, delle retribuzioni maturate dal 2 novembre 2006 all’effettivo ripristino, a titolo risarcitorio e della somma di € 11.391,64, a titolo di differenze retributive; che avverso tale sentenza la società ricorreva per cassazione con unico motivo, cui resisteva il lavoratore con controricorso;
che il pubblico ministero comunicava le sue conclusioni scritte, ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c.;
che la società comunicava memoria ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c., peraltro inammissibile in quanto fuori termine;
Considerato
che la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 137, 141, 160 c.p.c., per omessa notificazione della sentenza di primo grado (da cui fatto decorrere il termine breve di impugnazione, erroneamente ritenuta inammissibile), in assenza della sua attestazione dall’ufficiale giudiziario, che sulla copia da consegnare al destinatario, aveva vergato di suo pugno (dopo la predisposta dicitura “a richiesta come innanzi ho notificato copia dell’antescritto atto a”) “anzi come da originale”, neppure oggetto di deposito, avendo il lavoratore appellato ad esso assolto con la sola copia della sentenza asseritamente notificata, che avrebbe dovuto avere il destinatario, in realtà mai attinto da rituale notificazione, per l’indicazione erronea nella richiesta della città e del numero civico di suo indirizzo; che in via preliminare il ricorso deve essere ritenuto ammissibile, per la chiara risultanza della qualità del soggetto sottoscrittore (S.M.) della procura in calce dall’intestazione del ricorso, in cui la parte s.r.l. A.F.M. dichiara di essere rappresentata dal “suo amministratore unico e legale rappresentante sig. S.M.” (a fortiori da: Cass. 16 marzo 2012, n. 4199; Cass. 7 novembre 2013, n. 25036; Cass. 5 luglio 2017, n. 16634); che ritiene il collegio che il motivo sia tuttavia inammissibile;
che non è stata confutata la prima ratio decidendi di inammissibilità dell’appello per tardività, per l’ampia decorrenza dal 9 luglio 2013 (data di deposito della sentenza del Tribunale contestuale all’udienza di discussione: penultimo capoverso di pg. 1 della sentenza) del termine semestrale prescritto dal novellato art. 327, primo comma c.p.c., applicabile ratione temporis, attesa la sua maturazione, in caso di decisione del giudice all’udienza di discussione della causa con la lettura del dispositivo e delle ragioni in fatto e diritto della decisione, in analogia con lo schema dell’art. 281 sexies c.p.c., dalla data della pronuncia: equivalente, unitamente alla sottoscrizione del relativo verbale da parte del giudice, alla pubblicazione prescritta nei casi ordinari dall’art. 133 c.p.c. e pertanto esonerante la cancelleria dalla comunicazione della sentenza (Cass. 30 maggio 2017, n. 13617);
che è noto il principio secondo cui, qualora la decisione di merito si fondi su una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza (o addirittura mancanza di specifica formulazione) delle censure mosse ad una delle rationes decidendi renda inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, per intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (Cass. 3 novembre 2011, n. 22753; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2108; Cass. 29 marzo 2013, n. 7931; Cass. 21 dicembre 2015, n. 25613); che pertanto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza;
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la società alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15 % e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
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