CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 febbraio 2021, n. 4971
Tributi – Reddito di impresa – Costi deducibili – Compensi spettanti agli amministratori della società – Esercizio di competenza – Deducibilità – Principio di cassa
Rilevato che
– l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, depositata il 12 dicembre 2011, di reiezione dell’appello dalla medesima proposto avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso della G.B. s.p.a. per l’annullamento dell’avviso di accertamento con cui era stata rettificata la dichiarazione presentata per l’anno 2005 e recuperate le imposte non versate;
– dall’esame della sentenza impugnata si evince che con l’atto impositivo l’Ufficio aveva contestato l’omessa contabilizzazione di ricavi (primo rilievo), l’indebita deduzione di costi, in quanto ritenuti non di competenza (secondo rilievo), l’irregolare emissione di fatture relative a cessioni intracomunitarie, poiché eseguite nei confronti di soggetti che avrebbero cessato la propria attività (terzo rilievo), e l’indebita detrazione di i.v.a. (quarto rilievo);
– il giudice di appello ha respinto l’appello erariale evidenziando, quanto al primo rilievo, che l’accertamento dei maggiori ricavi era stato operato su un’erronea valutazione dei dati di magazzino; quanto al secondo, che il costo si riferiva al compenso degli amministratori pagato nei primi giorni dell’anno successivo e, quindi, senza violazione di un termine perentorio; quanto al terzo rilievo, che la società aveva dimostrato l’effettività della cessione, venendo in rilievo solo un errore nell’indicazione della partita i.v.a. dei cessionari; quanto all’ultimo rilievo, che si trattava di i.v.a. relativa ad acquisto di beni dal costo unitario inferiore ad euro 25,82, in quanto tali detraibile;
– il ricorso è affidato a sei motivi;
– resiste con controricorso la G.B. s.p.a.;
– quest’ultima deposita memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c.;
Considerato che
– con il primo motivo l’Agenzia denuncia, con riferimento al primo rilievo, la violazione degli artt. 85, T.U. 22 dicembre 1986, n. 917, e 1, d.P.R. 1997, n. 441, per aver la sentenza impugnata escluso l’esistenza di cessioni di beni non contabilizzate, benché fossero state accertate rettifiche inventariali, sia di segno negativo, sia di segno positivo, non giustificate e non accompagnate dall’emissione, rispettivamente, di fattura o autofattura;
– il motivo è inammissibile;
– la Commissione regionale ha ritenuto che il recupero a tassazione sia avvenuto a seguito di una erronea valutazione dei dati, in quanto non è stata effettuata «una reale rilevazione dei beni» giacenti in magazzino e, dunque, «senza un inventario ed una verifica puntuale»;
– ha, in tal modo, accertato che, diversamente da quanto dedotto dall’Amministrazione finanziaria, non è stato dimostrato il fatto posto a fondamento della invocata presunzione di cessione dei beni, costituito dalla assenza di tali beni nei luoghi in cui il contribuente svolgeva le proprie operazioni;
– orbene, il vizio di violazione o falsa applicazione di legge non può che essere formulato se non assumendo l’accertamento di fatto, così come operato dal giudice del merito, in guisa di termine obbligato, indefettibile e non modificabile del sillogismo tipico del paradigma dell’operazione giuridica di sussunzione, là dove, diversamente (ossia ponendo in discussione detto accertamento), si verrebbe a trasmodare nella revisione della quaestio facti e, dunque, ad esercitarsi poteri di cognizione esclusivamente riservati al giudice del merito (cfr. Cass., ord., 13 marzo 2018, n. 6035; Cass., 23 settembre 2016, n. 18715);
– con il secondo motivo la ricorrente deduce, con riferimento al secondo rilievo, la violazione dell’art. 109, T.U. n. 917 del 1986, per aver il- giudice di appello ritenuto che il costo rappresentato dal compenso dell’amministratore fosse deducibile nel periodo di imposta in esame (anno 2005), benché pagato il 18 gennaio dell’anno successivo;
– il motivo è fondato;
– l’art. 95, quinto comma, T.U. n. 917 del 1986, nella formulazione applicabile ratione temporis, stabilisce che «I compensi spettanti agli amministratori delle società … sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti»;
– tali compensi, in quanto redditi assimilati a quelli da lavorò dipendente, fruiscono del principio cd. di cassa allargato ai sensi dell’art. 51, primo comma, T.U. n. 917 del 1986, in forza del quale si considerano percepiti nel periodo d’imposta anche le somme e i valori in genere, corrisposti dai datori di lavoro entro il giorno 12 del mese di gennaio del periodo d’imposta successivo a quello cui si riferiscono (cfr., in tema, Cass. 11 agosto 2017, n. 20033);
– le regole sull’imputazione temporale dei componenti negativi, dettate in via generale dall’art. 109, T.U. n. 917 del 1986, sono inderogabili, non essendo consentito al contribuente scegliere di effettuare la detrazione di un costo in un esercizio diverso da quello individuato dalla legge come esercizio di competenza (cfr. Cass. 17 luglio 2014, n. 16349; Cass. 18 dicembre 2009, n. 26665);
– la Commissione regionale, nel ritenere rispettato il principio di competenza, benché il pagamento fosse intervenuto dopo la data del 12 gennaio dell’anno successivo e nel giudicare non perentorio tale termine, non ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi di diritto;
– con il terzo motivo l’Agenzia si duole, con riferimento al terzo rilievo, della violazione dell’art. 19, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, per aver la sentenza impugnata qualificato le operazioni rilevate quali cessioni intracomunitarie benché intervenute con soggetti che risultavano aver cessato la propria attività;
– il motivo è inammissibile;
– la Commissione regionale ha osservato che il rilievo dell’Ufficio muove dalla errata indicazione da parte del contribuente del numero di partita i.v.a. dei cessionari, ma ha accertato l’effettività delle cessioni, desunta dalla documentazione prodotta in giudizio;
– la doglianza, dunque, poggia su un assunto fattuale smentito dal giudice di appello, il quale ha, sia pure implicitamente, negato la contestata cessazione dell’attività dei soggetti che figuravano quali cessionari delle operazioni in esame;
– con il quarto motivo la ricorrente lamenta, con riferimento al quarto rilievo, la nullità della sentenza, in relazione all’art. 360, primo comma n. 4, c.p.c., per violazione dell’art. 115 c.p.c., per aver la Commissione regionale omesso di fondare la sua decisione sulle risultanze delle fatture e del processo verbale di constatazione – non oggetto di contestazione da parte della contribuente – dalle quali emergeva che l’i.v.a. detratta si riferiva principalmente a spese di rappresentanza dal costo unitario superiore ad euro 25,82 e, comunque, spese per le quali non era riconosciuto il diritto alla detrazione;
– il motivo è inammissibile;
– il giudice di appello ha affermato che tali operazioni hanno «importi di modico valore come vassoi, candele, ecc., del costo inferiore ad euro 25,82, destinati alla commercializzazione nei punti vendita di dettaglio o come omaggio per i clienti, per i quali è legittima la deduzione IVA, così come praticata dalla contribuente»;
– una siffatta motivazione non consente di ritenere che la decisione del giudice sul punto sia dipesa dalla valutazione di elementi probatori diversi da quelli correttamente introdotti in giudizio;
– sotto altro aspetto, non utilmente invocabile è il principio di non contestazione richiamato dalla ricorrente, avuto riguardo al fatto che, da un lato, dagli atti non emerge l’ammissione della contribuente in ordine al fatto che il costo unitario dei beni acquistati per spese di rappresentanza presentassero valore superiore ad euro 25,82;
– la società, infatti, sembra aver riferito il superamento di tale soglia al valore complessivo delle fatture di acquisto della pluralità di tali beni, considerati in blocco;
– dall’altro, deve rammentarsi che tale principio trova applicazione ai fatti storici sottesi a domande ed eccezioni e non può riguardare le conclusioni ricostruttive desumibili dalla valutazione di documenti (cfr. Cass. 5 marzo 2020, n. 6172; Cass. 21 giugno 2018, n. 12748);
– con il quinto motivo la ricorrente critica la sentenza impugnata per omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, nella parte in cui non avrebbe dato risposta alla deduzione formulata dall’Ufficio in ordine al fatto che le spese oggetto del rilievo presentassero un costo unitario superiore ad euro 25.82;
– il motivo è infondato;
– come rilevato in occasione dell’esame del motivo precedente, la Commissione regionale, accedendo alla tesi della contribuente, ha ritenuto che l’i.v.a. relativa a tali spese fosse detraibile, in quanto aventi costo unitario inferiore ad euro 25,82, sull’implicito presupposto della qualificazione delle stesse in termini di spese di rappresentanza per le quali l’art. 19-bis.1, lett. h), d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, nella formulazione applicabile ratione temporis, prevede un siffatto limite;
– una siffatta motivazione appare sufficiente in quanto rende evidente l’iter argomentativo seguito dal giudice e consente di apprezzarne la coerenza sotto il profilo logico-giuridico;
– con l’ultimo motivo di ricorso l’Agenzia censura la sentenza di appello per violazione e falsa applicazione degli artt. 19 e 19-bis.1, lett. c), d) e h), d.P.R. n. 633 del 1972;
– evidenzia, in proposito, che: per quanto riguardava la fattura di cui al n. 1 dell’allegato 6 al processo verbale di constatazione, si trattava di costi non inerenti; per quanto atteneva alle fatture nn. 2 e 3 di tale allegato, si trattava di costi per lavori di manutenzione e riparazione di autoveicoli aziendali; per quanto riguardava le fatture residue dell’allegato, si trattava di acquisti di beni dal costo unitario superiore ad euro 25,82;
– il motivo è inammissibile;
– relativamente alle fatture nn. 1, 2 e 3 dell’allegato, la parte omette di riprodurre, quanto meno per le parti salienti, il contenuto dell’atto di appello, necessario, in assenza di utili indicazioni ricavabili dalla sentenza, al fine di verificare che le questioni sottoposte con i richiamati motivi di impugnazione non siano «nuove» e di valutare la rilevanza e la fondatezza dei motivi stessi, non essendo possibile procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (cfr. Cass., sez. un., 28 luglio 2005, n. 15781; in tal senso, successivamente, Cass. 20 agosto 2015, n. 17049);
– in ordine alle residue, la doglianza muove dal presupposto, smentito nella sentenza impugnata, che le operazioni avevano ad oggetto spese per acquisto di beni dal costo unitario superiore ad euro 25,82;
– la sentenza impugnata va, dunque, cassata in relazione al motivo accolto, e rinviata, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione.
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il quinto e dichiara inammissibili i restanti; cassa la sentenza impugnata con riferimento al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione.
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