CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 luglio 2020, n. 15897
Tributi – IVA – Utilizzo di fatture per presunte operazioni soggettivamente inesistenti – Buona fede del contribuente – prova
Rilevato che
A seguito di verifica fiscale nei confronti della ditta individuale B.B., nel corso della quale venivano rilevate fatture per presunte operazioni inesistenti emesse a favore di C. P., titolare di ditta esercente attività nel campo edilizio, l’Agenzia delle entrate emetteva tre distinti avvisi di accertamento a carico di quest’ultimo per gli anni 2003, 2004 e 2005 con i quali recuperava a tassazione IRPEF, IRAP e I.V.A.
Proposti distinti ricorsi avverso gli atti impositivi, la Commissione provinciale di Novara, previa riunione, li annullava limitatamente alle imposte dirette, confermando i rilievi relativi all’I.V.A.
La sentenza veniva impugnata con appello principale dall’Agenzia delle entrate e con appello incidentale dal contribuente, il quale chiedeva l’accoglimento del ricorso introduttivo e l’annullamento degli avvisi di accertamento.
La Commissione tributaria del Piemonte dichiarava estinto il giudizio per cessata materia del contendere in relazione all’anno 2005 e accoglieva nel resto l’appello dell’Ufficio, rigettando quello incidentale.
Premesso che l’appello riguardava unicamente gli anni d’imposta 2003 e 2004 ed il recupero di Irpef e Irap, avendo i giudici di primo grado confermato la ripresa concernente l’I.V.A., i giudici di appello osservavano che le fatture in contestazione si riferivano ad operazioni soggettivamente inesistenti, che erano state pacificamente emesse da B. B., che non aveva mai eseguito servizi in favore del P.; riteneva che l’Ufficio avesse assolto il proprio onere probatorio dimostrando che si era in presenza di documentazione contabile fittizia, mentre il contribuente non aveva provato la correttezza dei costi dedotti, né la propria buona fede.
Ricorre per la cassazione della sentenza di secondo grado C.P., con tre motivi, ulteriormente illustrati con memoria ex art. 380-bis.1. cod. proc. civ.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
Considerato che
1. Con il primo motivo il ricorrente deducendo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, evidenzia che nello stesso processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza risulta che le prestazioni si riferiscono ad operazioni soggettivamente inesistenti e, dunque, a prestazioni provate nella loro esistenza, con la conseguenza che, ai fini delle imposte dirette, la Commissione regionale avrebbe dovuto affermare la deducibilità dei costi indicati nelle fatture.
2. Con il secondo motivo, deducendo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 109 del d.P.R. n. 917 del 1986, nonchè dell’art. 8, comma 1, del d.l. 12 marzo 2012, n. 16, lamenta che i giudici di appello si sono limitati ad accogliere la tesi dell’Agenzia delle Entrate senza dare contezza della verifica circa la sussistenza dei presupposti richiesti per il riconoscimento dei costi portati in deduzione; poiché i costi si riferivano a servizi strettamente inerenti all’attività di impresa e le fatture, regolarmente registrate, erano state puntualmente pagate dopo avere effettuato regolari verifiche presso i pubblici registri dell’esistenza della ditta B., doveva essere riconosciuta la loro deducibilità, nel rispetto dei principi di inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, trattandosi di servizi non utilizzati per il compimento di fattispecie criminose.
3. Con il terzo motivo denuncia sia la violazione degli artt. 19, 54, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972 e degli artt. 2697, 2727, 2729 cod. civ., nella parte in cui la sentenza inverte l’onere probatorio, ponendo a carico del contribuente, anziché dell’Amministrazione finanziaria, l’onere di provare che al momento dell’acquisto del servizio sapesse o dovesse sapere che il soggetto formalmente cedente aveva con l’emissione delle fattura evaso l’importo o compiuto una frode, sia la violazione della sesta Direttiva 77/388/CEE del 17 maggio 1997, come modificata dalla Direttiva 2001/11/CE del 20 dicembre 2001 e degli artt. 167, 168, lett. a), 220 punto 1 e 226 della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006.
L’Amministrazione finanziaria non aveva assolto l’onere di provare, ai fini dell’I.V.A., che il contribuente fosse a conoscenza della frode.
4. Il primo ed il secondo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente per la evidente connessione, sono fondati.
4.1. L’art. 8, comma 1, del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, ha sostituito il comma 4-bis dell’art. 14 della I. n. 537 del 1993 nei seguenti termini: «Nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 425 del cod. proc. pen. ovvero la sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 del codice penale…».
Questa Corte ha già avuto modo di chiarire, sulla scorta della relazione al disegno di legge di conversione del d.l. n. 16 del 2012, che tale normativa comporta che, poiché nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, i beni acquistati – di regola – non sono stati utilizzati direttamente per commettere il reato, ma, nella maggior parte dei casi, per essere commercializzati, non è più sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore perché non siano deducibili, ai fini delle imposte dirette, i costi relativi a dette operazioni; resta ferma, tuttavia, la verifica della concreta deducibilutà dei costi stessi in relazione ai requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (Cass. n. 24426 del 30/10/2013; Cass. n. 13803 del 18/6/2014; Cass. n. 10167 del 20/6/12; Cass. n. 25249 del 7/12/2016; Cass. 16528 del 22/6/2018; Cass. n. 32587 del 12/12/2019).
4.2. Nel caso in esame, l’Amministrazione finanziaria non contesta l’oggettività delle prestazioni alle quali si riferiscono le fatture in contestazione, tanto che nello stesso processo verbale di constatazione redatto in sede di verifica dalla Guardia di Finanza – di cui è stato trascritto uno stralcio nel ricorso per cassazione in omaggio al principio di autosufficienza – si legge: « Dall’esame della documentazione esibita è emerso che la D.I. P. C., in rubrica specificata, ha annualmente contabilizzato come riscontrato sulla documentazione contabile esibita dal P. per il controllo incrociato i seguenti importi derivanti da fatture soggettivamente inesistenti in quanto emesse da B. B., ma relative a prestazioni eseguite materialmente da P.L., titolare dell’impresa…». Pertanto, risulta irrilevante l’accertamento della consapevolezza o meno della frode da parte della ditta cessionaria, anche se rimangono fermi i criteri ordinari, previsti dall’art. 109 del t.u.i.r., che presiedono all’accertamento dei principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità dei componenti negativi che possono essere portati in deduzione dal reddito imponibile.
4.3. La Commissione regionale, pur avendo rilevato che le fatture sono state emesse per operazioni soggettivamente inesistenti, ha comunque confermato la ripresa a tassazione, ai fini delle imposte dirette, tralasciando di verificare, ai fini della deducibilità dei costi, la sussistenza dei requisiti richiamati dall’art. 109 del t.u.i.r., incorrendo, pertanto, nei vizi denunciati.
5. Parimenti fondato è il terzo motivo. La doglianza afferente alla detraibilità dell’I.V.A. nel caso di fatturazione per operazioni inesistenti impone di verificare come deve essere ripartito l’onere della prova tra fisco e contribuente.
Occorre ribadire che una fattura che sia conforme ai requisiti di forma e contenuto richiesti dalla vigente disciplina (art. 21 del d.P.R. n. 633 del 1972 e, con riguardo al diritto unionale, art. 22, par. 3, della Sesta direttiva) fa presumere la verità di quanto ivi rappresentato, sicché costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’Iva.
L’art. 168, lett. a), della direttiva 2006/112 indica le condizioni sostanziali per beneficiare di tale diritto: occorre, da un lato, che l’interessato sia un soggetto passivo ai sensi di tale direttiva e, dall’altro, che i beni o servizi invocati a base di tale diritto siano utilizzati a valle dal soggetto passivo ai fini delle proprie operazioni soggette a imposta e, a monte, che detti beni o servizi siano forniti da un altro soggetto passivo (v. tra le tante Corte di Giustizia 6 settembre 2012, Tóth, C-324/11; Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14; Corte di Giustizia 19 ottobre 2017, SC Paper Consult, C-101/16).
Ai fini della ripartizione dell’onere della prova, occorre considerare che il diniego del diritto di detrazione segna un’eccezione al principio di neutralità dell’I.V.A. che tale diritto costituisce e, pertanto, in caso di fatture che l’Amministrazione ritenga relative ad operazioni inesistenti, ivi compresa l’ipotesi di inesistenza soggettiva, spetta, in primo luogo, all’Amministrazione finanziaria provare che, a fronte dell’esibizione del titolo, difettano le condizioni, oggettive e soggettive, per la detrazione; una volta raggiunta questa prova, spetterà al contribuente fornire la prova contraria, ossia di aver svolto le trattative in buona fede, ritenendo incolpevolmente che le merci acquistate fossero effettivamente rifornite dalla società cedente.
L’Amministrazione in caso di operazioni soggettivamente inesistenti deve, quindi, provare che l’operazione è intervenuta tra soggetti diversi e che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in una evasione I.V.A., anche se non è necessaria la prova della partecipazione all’evasione ma è sufficiente che il contribuente avrebbe dovuto esserne consapevole. Quanto al primo profilo di prova, questa Corte ha precisato che incombe sull’Amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare l’interposizione fittizia nella operazione commerciale, ossia la natura di interposto o di «cartiera» del soggetto emittente le fatture. Quanto, invece, all’altro elemento di prova, secondo il consolidato orientamento della Corte di Giustizia, la circostanza che l’operazione si inserisca in una fattispecie fraudolenta di evasione dell’I.V.A. non comporta ineludibilmente la perdita, per il cessionario, del diritto di detrazione. È, infatti, configurabile una esigenza di tutela della buona fede del soggetto passivo, il quale non può essere sanzionato, con il diniego del diritto di detrazione, se «non sapeva e non avrebbe potuto sapere che l’operazione interessata si collocava nell’ambito di un’evasione commessa dal fornitore o che un’altra operazione facente parte della catena delle cessioni, precedente o successiva a quella da detto soggetto passivo, era viziata da evasione dell’Iva» (Corte di Giustizia 6 luglio 2006, Kittel, C-439/04 e C-440/04; Corte di Giustizia 21 giugno 2012, Mahagében e David, C-80/11 e C- 142/11; Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14).
In altri termini, l’Amministrazione ha l’onere di provare, sia pure anche solo in base a presunzioni, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario al momento in cui acquistò il bene od il servizio, che l’operazione si inseriva in una evasione d’imposta, dimostrando che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente, con l’emissione della relativa fattura, aveva evaso l’imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale dubbio ovvero, con espressione efficace, «a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente» (Corte di Giustizia 6 dicembre 2012, Bonik, C-285/11; Corte di Giustizia, Ppuh, C-277/14, par. 50).
Tale onere può essere assolto dall’Amministrazione finanziaria mediante presunzioni, e, dunque, non occorre la prova «certa» e incontrovertibile di ogni operazione e dettaglio, come prevede per l’I.V.A. l’art. 54, secondo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972 (analogamente per le imposte dirette: v. art. 39, primo comma, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973) e mediante elementi indiziari (v. Cass. n. 14237 del 07/06/2017; Cass. n. 20059 del 24/09/2014; Cass. n. 25778 del 05/12/2014; Cass. n. 10414 del 12/05/2011; nello stesso senso Corte di Giustizia 6 luglio 2006, Kittel, C- 439/04 e C-440/04; Corte di Giustizia 21 giugno 2012, Mahagében e David, C-80/11 e C-142/11).
In ordine alla prova sull’elemento soggettivo del cessionario committente non è poi ipotizzabile un automatismo probatorio a suo detrimento. La Corte di Giustizia (22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14) ha, infatti, espressamente escluso la compatibilità con il diritto unionale di una previsione di legge nazionale che consideri inesistente, in base a criteri predeterminati, il soggetto emittente la fattura e, conseguentemente, neghi al destinatario il diritto a detrazione, dovendosi piuttosto tenere conto della concreta vicenda e delle circostanze di volta in volta presenti, spettando all’Amministrazione dimostrare, ed al giudice verificare, «alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal destinatario della fattura verifiche che non gli incombono, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata per fondare il suo diritto alla detrazione si iscriveva in un’evasione dell’Iva». Non è, quindi possibile fissare in via astratta e preventiva circostanze che ostino al riconoscimento del diritto di detrazione e va, dunque, esclusa, ogni predeterminata ed astratta inversione dell’onere della prova (Corte di Giustizia 15 novembre 2017, Rochus e Finanzamt, C-374/16 e C-375/16; v. anche Corte di Giustizia 7 settembre 2017, Equiom, C-6/16, che, seppure con riferimento ad una diversa questione, precisa che «le autorità nazionali competenti non possono limitarsi ad applicare criteri generali predeterminati, ma devono procedere, caso per caso, a un esame complessivo dell’operazione interessata»).
Raggiunta tale prova dall’Amministrazione, grava sul contribuente l’onere di dimostrare – oltre all’effettività del suo interlocutore – la propria buona fede, ossia, «di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto, al fine di evitare di essere coinvolto in una tale situazione, in presenza di indizi idonei a farne insorgere il sospetto» (Cass. Sez. U, n. 21105 del 2017), non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (Cass. n. 9851 del 20/4/2018).
6. Nella specie, diversamente da quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, il thema decidendum devoluto al giudice d’appello comprendeva anche la ripresa a tassazione dell’I.V.A., in quanto il contribuente, spiegando appello incidentale, ha contestato le statuizioni dei giudici di primo grado, chiedendo l’accoglimento integrale del ricorso introduttivo e, quindi, l’annullamento degli atti impositivi (come emerge dallo svolgimento del giudizio riportato in sentenza).
La C.T.R., affermando che «l’Ufficio ha esaurito il proprio onere probatorio dimostrando che si è in presenza di documentazione contabile fittizia» e che «… il contribuente, in presenza di falsità delle fatture, …deve almeno dimostrare la sua estraneità alle irregolarità rilevate, ovvero la propria buona fede…», non si è attenuta ai superiori principi richiamati, non avendo fatto corretta applicazione dei criteri di ripartizione dell’onere della prova.
7. In conclusione, il ricorso va accolto con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Commissione tributaria regionale, in diversa composizione, affinchè proceda a nuovo esame attenendosi ai principi richiamati, nonché alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Piemonte, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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