CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 maggio 2018, n. 12994
Licenziamento disciplinare – Mansioni di conducente di linea – Accertamenti tossicologici periodici positivi – Violazione del “minimum etico” nella condotta del lavoratore, integrata dal consumo di sostanze stupefacenti leggere – Irrilevanza – Mansioni a rischio esercitate dal lavoratore
Rilevato che
la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza del primo giudice con cui è stata rigettata la domanda di impugnativa del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore, conducente di linea, perché trovato positivo agli accertamenti tossicologici periodici prescritti dalla legge per le mansioni c.d. “a rischio”;
per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso A.V., affidato a sette motivi;
la società ha resistito con controricorso;
è stata depositata la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio;
entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380 bis, comma 2, c.p.c.;
Considerato che
il Collegio ha deliberato di adottare la motivazione semplificata;
A.V. – denunciando violazione dell’art. 7, comma primo, L. n. 300 del 1970, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. – si duole che la Corte di Appello abbia ritenuto violato il “minimum etico” nella condotta del lavoratore, integrata dal consumo di sostanze stupefacenti leggere (i.e.: cannabis), con conseguente non necessità di affissione del codice disciplinare; inoltre – denunciando violazione dell’art. 7 l. n. 300 del 1970, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. – lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto disciplinarmente rilevante l’inidoneità fisica del lavoratore, semmai integrante un giustificato motivo oggettivo, nonché il consumo di droghe, non sanzionato da alcuna norma di legge, né dal r.d. n. 148 del 1931, contemplante, quale causa di destituzione (non applicabile analogicamente), solo l’ubriachezza durante l’orario di lavoro;
ancora – denunciando violazione degli artt. 7 l. n. 300 del 1970, 41 e 45 r.d. n. 148 del 1931, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. – si duole che la predetta Corte abbia ritenuto proporzionata la sanzione del licenziamento, dovendo, invece, venire al più in considerazione la sanzione della multa per inosservanza di norme di prevenzione contro gli infortuni;
inoltre – denunciando violazione dell’art. 7,1. n. 300 del 1970, del protocollo di accompagnamento dei lavoratori positivi ai test antidroga del 30.10.2007 e del 18.9.2008, nonché degli arti 2078 c.c. e 1374 c.c., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. – lamenta che il giudice di appello non abbia considerato obbligatorio e necessario il predetto protocollo, il quale prevede il licenziamento non in caso di positività al test antidroga, ma all’esito dei controlli e infruttuosità di tutti i percorsi e monitoraggi previsti dal protocollo stesso;
ulteriormente – denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 7 1. n. 300 del 1970, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. – si duole che il giudice di appello abbia qualificato il licenziamento come disciplinare e non per giustificato motivo oggettivo da impossibilità sopravvenuta della prestazione per inidoneità fisica del lavoratore;
ancora – denunciando violazione dell’art. 183, comma settimo, c.p.c., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. – lamenta che il giudice di appello non abbia dato seguito alla richiesta istruttoria volta a dimostrare che il lavoratore, nei giorni precedenti al controllo, era stato esposto a forti quantità di fumo passivo;
infine – denunciando violazione dell’art. 92 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. – si duole che il giudice di appello, attesa la novità della questione, non abbia compensato le spese dei gradi di giudizio.
Ritenuto che
il primo motivo è infondato, poiché viola certamente il “minimo etico” il consumo di sostanze stupefacenti ad opera di un lavoratore adibito a mansioni di conducente di autobus, definite “a rischio”, a prescindere dal mancato riferimento, nell’ambito del r.d. n. 148/1931, alla descritta condotta; del resto, il mancato riferimento in questione non è significativo, avuto riguardo all’epoca di emanazione del testo normativo, contemplante l’unico modo, allora in uso, di alterazione della psiche, integrato dallo stato di ubriachezza;
il secondo, terzo e quinto motivo, da trattare congiuntamente perché connessi, sono infondati, giacché il consumo di droghe è stato contestato quale addebito disciplinare in sé (e tale è stato correttamente considerato dal giudice di merito), sull’evidente presupposto della sua idoneità, avuto riguardo alle specifiche mansioni espletate dal lavoratore, a compromettere irrimediabilmente l’elemento fiduciario; va in proposito richiamato il principio secondo cui “in tema di licenziamento per giusta causa, l’onere di allegazione dell’incidenza, irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, del comportamento extralavorativo del dipendente sul rapporto di lavoro (nella specie, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti), è assolto dal datore di lavoro con la specifica deduzione del fatto in sé, quando lo stesso abbia un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto, compromettendo le aspettative di un futuro puntuale adempimento, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività, perché di gravità tale, per contrarietà alle norme dell’etica e del vivere comuni, da connotare la figura morale del lavoratore, tanto più se inserito in un ufficio di rilevanza pubblica a contatto con gli utenti”; quanto al profilo della proporzionalità della sanzione, il relativo giudizio è sorretto, nel caso, da motivazione sufficiente e non contraddittoria, avuto riguardo alla delicatezza delle mansioni esercitate dal lavoratore nonché al connesso potenziale pregiudizio insito nel consumo di sostanze stupefacenti, pur leggere (per un caso analogo v. Cass. n. 6498/2012, che ha cassato – in ragione della motivazione inadeguata rispetto alla clausola generale di cui all’art. 2119 c.c. – la sentenza della Corte territoriale che, nel dichiarare illegittimo per difetto di proporzionalità il licenziamento di un impiegato di banca trovato in possesso di sostanze stupefacenti, aveva evidenziato trattarsi di droghe “leggere”, detenute per uso personale, e non a fini di spaccio, in circostanze di tempo e luogo compatibili con l’ipotesi del consumo non abituale);
è infondato il quarto motivo, poiché non è stata censurata la ratio decidendi secondo cui il percorso completo di monitoraggio non avrebbe potuto confermare l’assenza di assunzione di sostanze, quale requisito richiesto per essere riammessi nelle funzioni;
è infondato il sesto motivo, in difetto di certezza circa l’idoneità dell’espletamento del mezzo istruttorio richiesto ad invalidare le conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito (cfr., sul punto, Cass. n. 5654/2017: “Il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di fondamento”);
è inammissibile il settimo motivo, poiché “in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione” (così Cass., SU, n. 14989/2005);
le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in € 3.000,00 per compensi professionali ed 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.
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