CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 settembre 2019, n. 23784
Accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro – Assoggettamento al potere direttivo organizzativo gerarchico e disciplinare del datore – Onere probatorio
Rilevato che
1. la Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 30.6.2014, respingeva il gravame proposto da L.A. e C.L. avverso la decisione del Tribunale partenopeo che aveva rigettato le domande delle predette intese all’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro alle dipendenze di A.S. ed alla condanna di quest’ultimo al pagamento delle differenze retributive, rispettivamente quantificate nei ricorsi introduttivi;
2. la Corte riteneva non esaustiva la dimostrazione dell’effettuazione di attività lavorativa all’interno dell’esercizio commerciale di proprietà del S., per essere necessaria la prova di specifici elementi rivelatori dell’assoggettamento al potere direttivo organizzativo gerarchico e disciplinare del predetto, ciò che non era stato provato nella specie, essendo, al contrario, emerso che il negozio era gestito da A.S. e che era quest’ultimo a dare le direttive ai dipendenti, che le ricorrenti erano state assunte dallo stesso, unico responsabile del negozio, il quale impartiva le direttive e le istruzioni e provvedeva al pagamento delle retribuzioni nell’ambito di un’attività commerciale a carattere familiare (l’A. e la L. erano rispettivamente figlia e coniuge di S.A.);
3. di tale decisione domandano la cassazione la L. e l’A., affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, il S.;
4. entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis. 1 c.p.c.
Considerato che
1. Con il primo motivo, è dedotto omesso esame circa numerosi fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, assumendosi che non sia stata valutata la circostanza decisiva che il rapporto di lavoro riguardava il titolare effettivo, cioè A.S., almeno fino a quando non si era avvicendato allo stesso l’A. con la stipula del contratto di fitto di azienda, avvenuta il 30.10.2002, e che, analogamente, non sia stata considerata la deposizione di G.A., il quale aveva dichiarato che il S. si recava in negozio solo tre – quattro volte alla settimana per dare indicazioni su come sistemare la merce e per prelevare l’incasso (A.N.);
2. è stato omesso, secondo le ricorrenti, l’esame del fatto decisivo dell’avere il S., prima dell’affitto, assunto il ruolo di affidatario del nipote da parte dei servizi sociali proprio per consentire a quest’ultimo di svolgere attività lavorativa presso il negozio da lui gestito, nonché l’esame della circostanza, altrettanto decisiva, che le direttive ed il prelievo dell’incasso facevano capo allo stesso S., come concordemente dichiarato da alcuni dei testi escussi, che avevano indicato l’A. come incaricato del primo, per conto del quale erano svolte le attività gestionali prima del contratto d’affitto;
3. con il secondo motivo, ci si duole della violazione o falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., sul rilievo che, nell’ambito dell’espletamento di mansioni routinarie e connotate da estrema semplicità di esecuzione, l’esercizio del potere direttivo del datore di lavoro potrebbe non avere occasione di manifestarsi, sicchè avrebbe dovuto darsi risalto ad ulteriori elementi di carattere sussidiario idonei ad identificare la reale natura del rapporto intercorso tra le parti;
4. quanto al primo motivo, a differenza di quanto assunto dal S. in memoria, non può applicarsi il principio della doppia conforme, ostativo alla deducibilità del vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c.: l’applicabilità dell’art. 348 ter, 5 comma, c.p.c. che – richiamando la disposizione di cui al quarto comma – preclude la proposizione del ricorso per il motivo di cui al numero 5 del primo comma dell’art. 360 c.p.c. avverso la sentenza d’appello che confermi la decisione di primo grado, come previsto dall’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012, è, invero, riferibile ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012;
nella specie, l’ appello è stato proposto anteriormente alla entrata in vigore della suddetta normativa, che deve pertanto ritenersi ratione temporis inapplicabile;
5. il motivo solleva in ogni caso questioni di puro merito, contestandosi la valutazione delle prove compiuta dal giudice del gravame; la censura è mal prospettata ed esula dal vizio dedotto, in quanto la pluralità di fatti censurati (di palese negazione ex se del requisito di decisività: Cass. 5 luglio 2016, n. 13676; Cass. 28 maggio 2018, n. 13625) pone la stessa al di fuori del paradigma devolutivo e deduttivo del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439); peraltro, come si evince dal contenuto della sentenza, i fatti indicati sub a), c) e d) del ricorso (pagg. 16 – 18) sono stati esaminati alla luce delle varie deposizioni testimoniali rese sulle stesse circostanze e conferendo peso probatorio diverso a quelle rese dai testi ritenuti maggiormente attendibili, secondo una valutazione congrua ed esaustiva che non può che spettare al giudice del merito e la circostanza di cui alla lett. b) è priva del carattere di decisività, nel senso che una valutazione di diverso segno non avrebbe potuto condurre comunque ad un diverso esito della controversia;
6. non si deposita neanche, in dispregio del principio di specificità del ricorso, il contratto di fitto d’azienda più volte richiamato a sostegno della censura, né se ne indica la sede di rinvenimento nei fascicoli della fase di merito, contravvenendosi al principio secondo cui il ricorso deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito, (cfr. Cass. n. 27209 del 2017; Cass. n. 12362 del 2006);
7. il secondo motivo è generico ed inidoneo a scalfire le argomentazioni della sentenza che sostengono il decisum, in quanto, le censure attengono nella sostanza, per come formulate, a profili valutativi delle risultanze di causa che non possono costituire oggetto di esame in sede di legittimità e non alla erronea sussunzione della fattispecie concreta nella fattispecie di cui alle norme evocate, che rilevano come parametri di riferimento legale; non sono neanche precisati gli elementi sussidiari della subordinazione, quali l’osservanza di precisi orari di lavoro, l’assenza di rischio, la continuità della prestazione, la misura fissa della retribuzione, la cui allegazione e prova incombeva comunque alle ricorrenti, essendo l’asserita parte datoriale onerata, come correttamente evidenziato dal giudice del gravame, della prova di elementi modificativi impeditivi o estintivi delle avverse pretese;
8. la denuncia di violazione di legge è infondata giacché non verte sul significato e sulla portata applicativa dell’articolo 2094 c.c., bensì sulla valutazione del rilievo probatorio delle deposizioni testimoniali acquisite e dunque sulla ricognizione della fattispecie concreta (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110; Cass. 4 aprile 2013, n. 8315; Cass. 16 luglio 2010, n. 16698; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass., Sez. Un., 5 maggio 2006, n. 10313) nuovamente ponendo in discussione la valutazione del rilievo probatorio del menzionato corredo istruttorio;
9. per le svolte considerazioni il ricorso deve essere respinto;
10. le spese del presente giudizio seguono la soccombenza dei ricorrenti e sono liquidate, in favore del S., in conseguenza della tardività del controricorso (riconosciuta dallo stesso in memoria) nella misura indicata in dispositivo, limitata alla liquidazione dei compensi e degli esborsi sostenuti per l’attività difensiva svolta per la redazione della memoria depositata ai sensi dell’art. 380 bis. 1 c.p.c, in conformità al principio affermato da questa Corte, secondo cui, “in tema di giudizio di cassazione, dopo la riforma recata dal d.l. n. 168 del 2016 (conv., con modif., dalla I. n. 197 del 2016), in caso di inammissibilità del controricorso perchè tardivo, deve comunque ritenersi consentito il deposito della memoria ex art. 380-bis, comma 2, c.p.c., risultando ora l’unica attività difensiva permessa nel procedimento a struttura camerale e, quindi, equiparata o sostitutiva della partecipazione alla pubblica udienza, che è sempre stata, invece, pacificamente ammessa pur in presenza di ricorso inammissibile” (cfr., tra le altre, Cass. 24.5. 2017 n. 13093);
10. sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 115 del 2002;
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 1000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1bis, del citato D.P.R.
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