CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 25 febbraio 2020, n. 4954
Società di capitali – Membro del consiglio di amministrazione – Inadempimenti nel rapporto contrattuale – Revoca delle deleghe conferitegli dal consiglio d’amministrazione – Giusta causa – Redistribuzione degli incarichi – Estromissione soggetto – Onere di prova
Rilevato che
Con citazione notificata il 26.10.2011 B.C. convenne in giudizio, innanzi al Tribunale di Pavia, la I. s.p.a. chiedendo: di accertare e dichiarare la responsabilità della società convenuta per l’illegittimità della revoca delle deleghe conferitegli dal consiglio d’amministrazione della stessa società e per gli inadempimenti nel rapporto contrattuale che avevano determinato le sue dimissioni dal consiglio d’amministrazione il 29.7.08; di condannare la I. s.p.a. al risarcimento dei danni subiti, sia patrimoniali, per la somma di euro 583.014,00, sia non patrimoniali, quantificati nella somma di euro 100.000,00, anche con liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c.
Si costituì la I. s.p.a. resistendo alla domanda.
Il Tribunale di Pavia, con sentenza del 30.10.15, rigettò le domande proposte da B.C. in quanto non dimostrate.
L’attore propose appello che la Corte d’appello di Milano respinse con sentenza emessa in data 1.3.18, unitamente all’appello incidentale, rilevando che: la revoca delle deleghe conferite al C. del consiglio d’amministrazione era sorretta da giusta causa, poiché il Presidente del medesimo consiglio aveva motivato la redistribuzione degli incarichi dello stesso appellante in capo a nuove figure professionali, redistribuzione la cui necessità non era insorta improvvisamente, mentre non era stato dimostrato che tale riorganizzazione avesse costituito un pretesto per estromettere il C. dalle decisioni del consiglio; non erano stati provati gli elementi costitutivi dei danni patrimoniali lamentati.
Il C. ricorre in cassazione con due motivi, illustrati con memoria.
Resiste la S.H.A. s.p.a. (incorporante la I. s.p.a.) con controricorso.
Il Consigliere relatore ha formulato la proposta ex art. 380bis c.p.c.
Ritenuto che
Con il primo motivo è denunziata violazione e falsa applicazione degli artt. 2383, terzo comma, e 1725, c.c., per aver la Corte d’appello ritenuto che la revoca delle deleghe conferite al ricorrente fosse assistita da giusta causa ravvisata erroneamente in ragioni di natura organizzativa, non avendo peraltro la società allegato e provato elementi sopravvenuti lesivi del rapporto fiduciario con l’appellante.
Il ricorrente lamenta altresì che la violazione delle suddette norme abbia leso anche il suo diritto al risarcimento dei danni, causati dal venir meno del diritto a percepire gli emolumenti connessi all’espletamento degli incarichi fondati sulle deleghe gestorie revocate.
Con il secondo motivo è dedotta la nullità della sentenza impugnata, a norma dell’art. 132 c.p.c., per le gravi contraddizioni che ne inficiano la motivazione, con riferimento al capo afferente alla condanna al pagamento delle spese giudiziali, per aver il giudice d’appello condannato il ricorrente al pagamento delle spese giudiziali, pur avendo dapprima affermato di condividere la decisione di primo grado sulla compensazione delle spese, per la mancanza di un orientamento consolidato in materia di esercizio del potere di revoca delle deleghe gestorie.
Il primo motivo è infondato, in quanto la Corte d’appello ha ritenuto che la revoca delle deleghe al ricorrente quale consigliere d’amministrazione della I. s.p.a. (poi incorporata dalla S.H.A. s.p.a.) fosse stata fondata su una giusta causa, ravvisata nell’effettiva, e non pretestuosa, esigenza gestionale di “garantire una migliore distribuzione delle funzioni che possa consentire l’impiego delle nuove risorse dell’azienda, favorire il cambio generazionale e la razionale occupazione delle risorse disponibili”. E’ stato altresì rilevato che in tale prospettiva il Presidente del consiglio d’amministrazione aveva esposto al consiglio l’opportunità di redistribuire in capo a nuove figure professionali le competenze già delegate al consigliere C..
Ora, in tema di società di capitali, e nel silenzio dell’art. 2381 c.c., è stato affermato che la revoca della delega all’amministratore delegato decisa dal consiglio di amministrazione deve essere assistita da “giusta causa”, sussistendo, in caso contrario, il diritto del revocato al risarcimento dei danni eventualmente patiti. Tanto in applicazione analogica dell’art. 2383, comma 3, c.c., disciplinante la revoca degli amministratori da parte dell’assemblea, norma di cui ricorre la stessa ratio in base alla quale, pur nella libertà del conseguimento degli interessi e degli obiettivi societari, occorre, in assenza di “giusta causa”, tenere conto del sacrificio economico e sociale dell’amministratore conseguente alla revoca, soprattutto quando la delega comporti un’attività remunerata suscettibile di valutazioni professionali nel mercato dei “manager” (Cass., n. 7587/16).
Si ritiene altresì che la “giusta causa” di revoca dell’amministratore di società non sia integrata dalla mera ricorrenza di esigenze di auto-organizzazione della struttura societaria, ove la stessa non sia stata motivata sulla base di circostanze o fatti idonei ad influire negativamente sulla prosecuzione del rapporto e tali da elidere l’affidamento inizialmente riposto sulle attitudini e capacità dell’amministratore (Cass., n. 18182/19).
Nella fattispecie, il giudice d’appello ha ampiamente argomentato sulla comprovata ed effettiva sussistenza di ragioni organizzative aziendali dirette a migliorare la qualità delle prestazioni societarie, specie attraverso l’impiego di professionisti specializzati, da cui è scaturita la necessità di revocare le deleghe in questione al ricorrente.
Viene dunque in rilievo non già la mera esigenza organizzativa della società, bensì la necessità di una profonda ristrutturazione dell’organico e delle funzioni specialistiche- specie nel campo della tecnologia e della normativa di sicurezza- che implicitamente incide negativamente sulla persistenza dell’affidamento inizialmente riposto sulle attitudini del ricorrente, senza peraltro che ciò debba necessariamente ridondare in condotte d’inadempimento da ascrivere al delegato (v. al riguardo Cass., n. 23381/13).
Non è dunque suscettibile di censura la decisione impugnata avendo il ricorrente formulato una critica che si concretizza, nella sostanza, in un sindacato del merito delle scelte gestionali del consiglio d’amministrazione che, per la sua intrinseca natura, sfugge al controllo di legalità del giudice se sorretto da plausibili ragioni, chiaramente esplicitate dagli organi societari interessati ed inequivocabilmente riconducibili ad esigenze di gestione societaria, con esclusione di qualsivoglia surrettizia finalità che esorbiti dal contratto sociale.
Al riguardo, la Corte d’appello, con esaustiva motivazione, ha escluso ogni violazione di legge prospettata, riconducendo le ragioni della revoca delle deleghe in questione ad una legittima redistribuzione degli incarichi inerenti all’organo gestorio della società finalizzata alla necessità di soddisfare le nuove esigenze organizzative derivanti dall’evoluzione della tecnologia e dalla sempre crescente complessità della normativa in materia di sicurezza.
Ne consegue logicamente anche l’infondatezza della parte del motivo relativa al risarcimento dei danni, che si assume cagionati dalla revoca delle suddette deleghe gestorie.
Il secondo motivo è inammissibile perché il vizio di illogicità e contraddittorietà della motivazione è declinato in maniera non conforme alla versione applicabile ratione temporis dell’art. 360, n.5, c.p.c., né emerge la mera apparenza della motivazione della condanna alle spese giudiziali. Invero, va osservato che la Corte territoriale, pur dando atto che non si registrava un orientamento consolidato in materia di esercizio del potere di revoca delle deleghe gestorie, ha condannato il C. al pagamento delle spese del giudizio di appello in applicazione del principio di soccombenza senza incorrere in alcuna contraddizione, non ravvisando alcuna fattispecie di compensazione contemplata dall’art. 92 c.p.c.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida nella somma di euro 7100,00 di cui 100,00 per esborsi, oltre alla maggiorazione del 15% quale rimborso forfettario delle spese generali.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.p.r. n.115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello/dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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