CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 25 febbraio 2021, n. 5175
Tributi – Accertamento – Somministrazione di cibi e bevande al personale e ai soci – Valore non superiore ad € 25,82 – Ricavi da autoconsumo – Imponibilità – Esclusione
Rilevato che
Risulta dalla sentenza impugnata che i contribuenti H.E. di C.A. & C. SAS, A.F., G.L., A.C., A.E., FAMIGLIA A.C. & C. SNC hanno impugnato un avviso di accertamento, relativo al periodo di imposta dell’esercizio 2005, emesso all’esito di PVC ed effettuato con metodo analitico-induttivo, per effetto del quale venivano accertati maggiori ricavi non dichiarati e, conseguentemente, veniva rideterminato il reddito di impresa, con ripresa di imposte, anche ai fini IVA, nonché di maggiori redditi da partecipazione in capo ai soci.
La CT di primo grado di Trento ha accolto il ricorso e la CT di appello di Trento, con sentenza in data 26 settembre 2014, ha accolto l’appello dell’Ufficio.
Ha osservato il giudice di appello che l’atto impositivo è stato sottoscritto da funzionario competente e che l’originario PVC, come anche il prospetto dello studio di settore, benché non allegati all’avviso di accertamento, fossero noti al legale rappresentante della società contribuente. Nel merito, la CTR ha ritenuto correttamente determinati i ricavi omessi sulla base della ricostruzione condotta dall’Ufficio sulla base di elementi indiziari, anche in relazione ai ricavi da autoconsumo, costituiti da somministrazione di cibi e bevande al personale e ai soci.
Propongono ricorso per cassazione i contribuenti affidato a undici motivi; resiste con controricorso l’Ufficio.
Considerato che
1.1 – Con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., violazione dell’art. 42, commi primo e secondo d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che l’avviso di accertamento impugnato, sottoscritto dal Direttore reggente dell’Ufficio, sarebbe nullo, in quanto sottoscritto da soggetto privo di legittimazione a rappresentare l’ente impositore. Deduce parte ricorrente che farebbe difetto nella specie l’atto di delega dei poteri, con conseguente carenza di potere di rappresentanza dell’Amministrazione Finanziaria da parte del funzionario che ha sottoscritto l’avviso impugnato.
Osserva, inoltre, parte ricorrente che non soccorrerebbe il successivo atto di delega prodotto in grado di appello, posto che la delega concernerebbe avvisi per accertamento di imposte di importo non superiore ad € 25.000,00, essendo l’importo dell’imposta accertata superiore a tale soglia.
1.2 – Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., violazione dell’art. 20, comma 1, lett. b) d.P.R. 8 maggio 1987, n. 266 e dell’art. 17, comma 1-bis d.l. 30 marzo 2001, n. 165, nella parte in cui la CTR ha affermato l’autonoma legittimazione del reggente dell’Ufficio, ritenendo che anche al reggente si applichino le limitazioni contenute nell’atto di delega.
1.3 – Con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione dell’art. 7, comma 1, I. 27 luglio 2000, n. 212, nella parte in cui il giudice di appello ha ritenuto irrilevante la mancata allegazione dello studio di settore (nella specie studio di settore TG44U), posto a fondamento dell’accertamento in oggetto.
1.4 – Con il quarto motivo si deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., violazione dell’art. 2697 cod. civ., nonché violazione degli artt. 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., nella parte in cui la sentenza di appello ha ritenuto di non tenere conto del margine di redditività proprio di strutture alberghiere concorrenti della contribuente, avendo in tal modo il giudice di appello omesso di esaminare prove documentali.
1.5 – Con il quinto motivo si deduce in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione dell’art. 24, primo comma, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e dell’art. 6, comma 4, d.P.R. 9 dicembre 1996, n. 695, nella parte in cui la sentenza ha ritenuto irregolare la tenuta del conto cassa, ove presentava saldi negativi, deducendo che tale evenienza è legata a mere esigenze contabili.
1.6 – Con il sesto motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione dell’art. 21 d.P.R. n. 633/1972 e dell’art. 2, comma 1, d.m. 30 marzo 1992, nella parte in cui la sentenza impugnata ha dato rilievo alla mancanza della numerazione progressiva delle ricevute fiscali, ritenendo che solo l’omessa numerazione progressiva delle fatture potrebbe condurre a un giudizio di irregolarità della documentazione contabile.
1.7 – Con il settimo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione dell’art. 15, secondo comma, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dell’art. 92 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), nella parte in cui il giudice di appello ha ritenuto che l’ammontare delle rimanenze finali, risultante dalle distinte inventariali, sarebbe irrisorio e non decisivo, laddove parte contribuente avrebbe esposto le rimanenze finali secondo categorie omogenee, indicando il prezzo medio indicativo del costo di acquisto.
1.8 – Con l’ottavo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., violazione dell’art. 3, [secondo] comma, n. 4, d.P.R. n. 633/1972 e dell’art. 57 TUIR, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto imponibili, anche ai fini IVA, quali ricavi di esercizio, i proventi da consumo dei pasti destinati ad uso personale. Deducono i ricorrenti che non vi è imponibilità di servizi da autoconsumo, sia in relazione all’imposizione diretta, sia in relazione all’IVA, rimarcando trattarsi di servizi di ristorazione, nell’ambito dei quali l’acquisto dei singoli beni (alimenti e bevande) comporta la trasformazione degli stessi nel complessivo servizio di ristorazione. Quanto all’IVA, i ricorrenti evidenziano trattarsi di somministrazioni di cibi e bevande di valore non superiore ad € 25,82, le quali non concorrerebbero alla base imponibile a termini dell’art. 3, secondo comma, n. 4 d.P.R. n. 633/1972 cit., nella formulazione pro tempore.
1.9 – Con il nono motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione dell’art. 39, primo comma, lett. d) d.P.R. n. 600/1973, dell’art. 62-sexies d.l. 30 agosto 1993, n. 331 e dell’art. 55 d.P.R. n. 633/1972, per avere la CTR ritenuto legittimo il ricorso al criterio analitico-induttivo sulla base dell’inattendibilità della documentazione contabile tenuta dalla società contribuente, inattendibilità che si rivelerebbe insussistente nel caso di specie.
1.10 – Con il decimo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., per non avere la sentenza impugnata proceduto a una autonoma valutazione delle deduzioni difensive e delle e allegazioni delle parti contribuenti, il che integrerebbe nullità della sentenza per carenza di motivazione.
1.11 – Con l’undicesimo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., violazione dell’art. 7, comma 2, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e nullità della sentenza, nella parte in cui la sentenza di appello ha ritenuto di non far luogo a consulenza tecnica di ufficio.
2 – Il decimo motivo, il quale assume natura pregiudiziale, è infondato. In tema di contenuto della sentenza, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento (Cass., Sez. III, 22 giugno 2015, n. 12864), come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass., Sez. Lav., 14 febbraio 2020, n. 3819; Cass., Sez. VI, 25 giugno 2018, n. 16611).
La sentenza impugnata, dopo avere analiticamente rigettato le questioni preliminari poste dal contribuente, ha – nel merito – esaminato gli elementi indiziari sui quali era fondato l’avviso di accertamento (scostamenti dagli studi di settore, accertamenti compiuti durante l’accesso presso i locali dell’impresa, presunzioni utilizzate dagli agenti accertatori). Ha, quindi, ritenuto inattendibile la documentazione contabile, quale presupposto per procedere con l’accertamento analitico-induttivo («accertata, quindi, la inattendibilità complessiva della documentazione contabile tenuta dalla società era scaturita la necessità giuridica di procedere a determinare in via analitica- induttiva la effettiva capacità contributiva») e, conseguentemente, ha ritenuto condivisibili le conclusioni cui era giunto l’Ufficio («l’Ufficio e così la Commissione Tributaria che ne condivide appieno l’osservazione, abbia ritenuto non dovesse trovare accoglimento in quanto l’accertamento era ben fondato e quantificato e precisato sia nel PVC sia nell’avviso di accertamento»). La motivazione appare, pertanto, logica e coerente.
3 – L’undicesimo motivo, anch’esso pregiudiziale, è infondato, posto che il giudizio sulla necessità ed utilità di far ricorso allo strumento della consulenza tecnica d’ufficio rientra nel potere discrezionale del giudice del merito, la cui decisione è, di regola, incensurabile nel giudizio di legittimità (Cass., Sez. I, 23 marzo 2017, n. 7472; Cass., Sez. I, 3 aprile 2007 n. 8355). Il giudice di appello, facendo uso dei suoi poteri, ha escluso l’utilità di far luogo a una consulenza tecnica, ritenendo l’accertamento sufficientemente fondato alla luce delle risultanze del PVC e dell’avviso notificato.
4.1 – I primi due motivi, i quali possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.
4.2 – Risulta dalla sentenza impugnata che la legittimazione del sottoscrittore dell’atto impugnata deriva da un ordine di servizio datato 4 febbraio 2008, al quale ha fatto seguito un provvedimento è, pertanto, riferibile all’amministrazione finanziaria. La sentenza impugnata ha, pertanto, fatto buon governo dei suddetti principi.
5 – Il terzo motivo è infondato.
5.1 – Si osserva come parte ricorrente non abbia censurato la statuizione della sentenza, secondo la quale «il documento sullo studio di settore era stato compilato e presentato all’amministrazione finanziaria proprio dalla contribuente, [la] quale, pertanto, non solo lo aveva redatto ma doveva, per legge, conservarne una copia», così ritenendo che parte contribuente fosse a conoscenza del prospetto.
5.2 – Nel qual caso trova applicazione il principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui l’onere di allegazione all’atto impositivo disciplinato dall’art. 7 l. n. 212/2000, essendo funzionale ad assicurare il diritto di difesa del contribuente, è limitato ai soli documenti non conosciuti né ricevuti dal contribuente costituenti il presupposto dell’atto impositivo (Cass., Sez. V, 10 luglio 2020, n. 14723), ben potendo l’atto impositivo fare riferimento a documenti in possesso o comunque conosciuti (Cass., Sez. V, 12 dicembre 2018, n. 32127), o anche agevolmente conoscibili dal contribuente (Cass., Sez. V, 21 novembre 2018, n. 30052; Cass., Sez. V, 24 novembre 2017, n. 28060); conseguentemente, non si configura violazione del diritto di difesa del contribuente tutte le volte che il contribuente abbia avuto conoscenza degli atti presupposti (Cass., Sez. V, 19 dicembre 2014, n. 27055, citata dallo stesso ricorrente).
La sentenza impugnata non si è sottratta all’applicazione dei suddetti principi.
6 – Il quarto motivo è inammissibile, in quanto parte ricorrente, censurando la scelta della CTR – al fine di dimostrare l’erroneità della redditività aziendale accertata dall’Ufficio – di non valorizzare i dati comparativi evincibili dai bilanci di strutture alberghiere della zona prodotti da parte contribuente, intende ripercorrere il ragionamento decisorio compiuto dal giudice del merito. Così facendo il ricorrente, pur deducendo apparantemente, una violazione di norme di legge, mira, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass., Sez. VI, 4 luglio 2017, n. 8758; Cass., Sez. I, 5 febbraio 2019, n. 3340; Cass., Sez. I, 14 gennaio 2019, n. 640; Cass., Sez. I, 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass., Sez. V, Sez. 5, 4 aprile 2013, n. 8315). Il che è reso evidente dalla deduzione della violazione dell’art. 2697 cod. civ., tramite il quale non si deduce una violazione delle regole di riparto della prova, bensì la scelta di avvalersi o meno di un elemento di prova (i bilanci delle imprese concorrenti), attività che si colloca sul piano del giudizio di merito (Cass., Sez. II, 8 agosto 2019, n. 21187).
7 – Il quinto, il sesto, il settimo e il nono motivo, possono essere esaminati congiuntamente, in quanto mirano ad inficiare l’«inattendibilità del supporto contabile aziendale» quale presupposto in base al quale l’Ufficio ha spiccato l’avviso di accertamento con metodo analitico-induttivo.
7.1 – I motivi sono infondati, posto che con l’accertamento analitico induttivo – a differenza dell’accertamento analitico, ove la censura sull’evasione deriva dalla violazione diretta di una norma – l’Agenzia delle Entrate ricostruisce le maggiori imposte con un ragionamento deduttivo fondato su presunzioni semplici, che non hanno ad oggetto il reddito nella sua totalità, ma singole poste, delle quali viene provata aliunde l’inesattezza (Cass., Sez. V, 21 marzo 2018, n. 7025). L’accertatore prende atto della incompletezza degli elementi indicati dal contribuente, completando le lacune riscontrate utilizzando – ai fini della dimostrazione dell’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati – presunzioni semplici aventi i requisiti di cui all’art. 2729 cod. civ.(Cass., Sez. V, 18 dicembre 2019, n. 33604) e che possono essere fondate anche su un unico elemento indiziario, purché preciso e grave (Cass., Sez. V, 14 ottobre 2020, n. 22184), che può attenere anche alla mera antieconomicità del comportamento del contribuente (Cass., Sez. V, 30 ottobre 2018, n. 27552).
Nel qual caso l’ufficio null’altro è tenuto a provare, se non quanto emerga dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, gravando sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse, senza che sia sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili (Cass., Sez. V, 31 ottobre 2018, n. 27804).
7.2 – Nella specie, la CTR non si è sottratta a tali principi, avendo apprezzato la pregnanza presuntiva degli elementi indiziari addotti dall’Ufficio, tratti (come risulta dalla sentenza impugnata) da molteplici elementi, risultanti sia dagli scostamenti risultanti dagli studi di settore, sia dagli accertamenti eseguiti presso l’azienda, che hanno rivelato numerose anomalie gestionali (anomala giacenza di cassa, rotazione del magazzino, porzioni pasto preparate in rapporto alle camere occupate), completando con presunzioni l’accertamento in relazione alle singole poste contabili (rimanenze finali, conto cassa), in relazione ai quali la società contribuente non ha offerto la prova della regolarità delle operazioni effettuate.
8 – L’ottavo motivo è fondato.
8.1 – Si premette che la sentenza impugnata ha accertato (con statuizione in fatto non oggetto di censura) che la parte aveva imputato «l’apparente maggior numero di porzioni pasto quantificate […] all’autoconsumo di alimenti effettuata dai soci e dai dipendenti dell’hotel» e che in precedenza l’Ufficio aveva fatto «riferimento ai pasti oggetto di autoconsumo, per i giorni lavorati dei soci, dei lavoratori dipendenti», ritenendoli, in quanto tali, ricavi da autoconsumo. La somministrazione di cibi e alimenti in «autoconsumo» deve, pertanto, ritenersi effettuata sia a favore dei soci, sia a favore del personale dipendente, riguardo alle quali deve valutarsi se si tratta di operazioni imponibili sia ai fini IVA, sia ai fini delle imposte dirette.
Altra premessa (opportuna nel caso di specie) è che la struttura alberghiera in relazione alla quale sono state accertate le prestazioni da autoconsumo in favore di dipendenti e soci è gestita da società di persone, con ristretta base partecipativa e a conduzione familiare.
8.2 – Ciò premesso, si evidenzia che ai fini IVA la più recente giurisprudenza di questa Corte – superando un precedente orientamento secondo il quale la somministrazione di cibi e bevande a soci e dipendenti costituiva cessione di beni imponibile (Cass., Sez. V, 22 ottobre 2010, n. 21713; Cass., Sez. I, 18 aprile 1998, n. 3953)
– ha ritenuto che tali somministrazioni costituiscano prestazioni di servizi. Si è, difatti, osservato, quanto alla somministrazione di cibi e bevande, che «deve accertarsi se gli elementi di prestazione di servizi che precedono e accompagnano la fornitura dei cibi siano o meno preponderanti» (Cass., Sez. V, 20 ottobre 2016, n. 21290).
Nel qual caso, «la fruizione dei pasti da parte dei dipendenti non può essere considerata autoconsumo di beni. Si comprende così perché a mente dell’art. 3, comma 3, d.P.R. n. 633/1972 le somministrazioni nelle mense aziendali non costituiscano prestazioni di servizi ai fini dell’IVA» (Cass., n. 21290/2016, cit.; conf. Cass., Sez. V, 12 febbraio 2020, n. 3387).
8.3 – La lettura data da questa Corte alle somministrazioni di cibi e bevande trae ispirazione dalla constatazione, di fonte eurounitaria, che la somministrazione di cibi e bevande costituisce prestazione complessa sia in caso di ristorazione (Corte di Giustizia UE, 2 maggio 1996, causa C-231/94, Faaborg-Gelting Linien; Corte di Giustizia UE, 10 marzo 2011, Bog e altri, causa C-497/09), sia in caso di catering aziendale e di preparazione di cibo da asporto (Corte di Giustizia UE, Bog e a., cit., punti 61, 62). In questi casi, perché la somministrazione possa essere qualificata quale prestazione di servizi anziché come cessione di beni, occorre prendere in considerazione tutte le circostanze nelle quali si svolge l’operazione per ricercarne gli elementi caratteristici e identificarne gli elementi predominanti, basandosi sul punto di vista del consumatore medio, nonché tenendo conto dell’importanza qualitativa e non semplicemente quantitativa degli elementi di prestazione di servizi rispetto a quelli rientranti in una cessione di beni (Corte di Giustizia UE, Bog e a., loc. cit.). Se ne è, quindi, dedotto che «l’operazione di ristorazione è caratterizzata da una serie di elementi e di atti, dei quali la cessione di cibi è soltanto una parte e nel cui ambito predominano ampiamente i servizi. Essa dev’essere pertanto considerata come prestazione di servizi ai sensi dell’art. 6, n. 1, della sesta direttiva» (Corte di Giustizia UE, Bog e a., cit., punto 64).
8.4 – Ne consegue che, in quanto prestazioni di servizi, le prestazioni di ristorazione sono da considerare imponibili solo se di valore superiore alla soglia quantitativa di € 25,82 a termini dell’art. 3, comma 3, d.P.R. n. 633/1972, «anche se effettuate per l’uso personale o familiare dell’imprenditore, ovvero a titolo gratuito per altre finalità estranee all’esercizio dell’impresa» (art. 3, comma 3, cit.). Nel qual caso, previo accertamento del valore delle singole prestazioni, le operazioni rimangono fuori campo IVA ove le somministrazioni avvengano in esecuzione di attività di ristorazione prescindendosi, pertanto, dal cessionario della prestazione, vuoi che si tratti di dipendente, collaboratore ad altro titolo, vuoi che si tratti di socio dell’imprenditore, purché rientranti nella previsione di cui all’art. 3, comma 2, n. 4 e comma 3, d.P.R. n. 633/1972.
8.5 – Quanto alle imposte dirette, secondo la giurisprudenza di questa Corte la somministrazione di cibi e bevande al personale dipendente, erogate sia a titolo di liberalità (prestazioni in natura a titolo di liberalità: art. 95, comma 1, TUIR), sia per obbligo contrattuale, come in caso di servizio di mensa (art. 95, comma 2, TUIR), costituisce un costo per l’impresa, deducibile dal reddito e non anche ricavo (Cass., Sez. V, 20 ottobre 2016, n. 21290; Cass., Sez. V, 29 settembre 2005, n. 19077; conf. Cass., Sez. V, 12 febbraio 2020, n. 3387). Si è, in proposito, osservato che «i beni attribuiti ai dipendenti, invece, per la loro natura di costi non possono essere compresi tra gli elementi positivi del reddito e, quindi, il loro valore non costituisce elemento presuntivo di afferente percezione di reddito» (Cass., nn. 21290/2016, 19077/2005, citt.). La sentenza impugnata, nell’avere ritenuto che la somministrazione di cibi e bevande ai dipendenti costituisca ricavo da autoconsumo e, quindi, reddito imponibile, non si è attenuta a tali principi.
8.6 – Se, peraltro, quanto alla somministrazione di cibi e bevande a favore dei dipendenti non c’è contrasto tra la disciplina IVA e quella delle imposte dirette, essendo in entrambi i casi somministrazioni sottratte a imposizione tributaria (ove, peraltro le suddette somministrazioni rientrino nella franchigia di cui all’art. 3, comma 3, d.P.R. n. 633 cit.), il contrasto emerge in caso di somministrazione di cibi e bevande nei confronti dei soci. Il trattamento ai fini IVA è, difatti, indipendente dalla natura del cessionario della prestazione e viene ancorato alla natura della prestazione (trasformazione della cessione di cibi e bevande in servizio di ristorazione), purché rientrante nella suddetta franchigia, laddove la natura di «costo», tale da esentare la prestazione dalla nozione di ricavo imponibile, è ascrivibile unicamente alle prestazioni erogate a favore di dipendenti. Ove, invero, le prestazioni fossero erogate a favore dell’imprenditore o dei suoi familiari («consumo personale o familiare dell’imprenditore»; art. 57 TUIR), le prestazioni andrebbero ricomprese tra i ricavi, per quanto al «valore normale» e non quale corrispettivo in caso di cessione a terzi (Cass., Sez. V, 30 gennaio 2019, n. 2634; Cass., Sez. V, 13 aprile 2006, n. 12329).
8.7 – Si evidenzia, tuttavia, che sia l’art. 85, comma 2, TUIR, sia l’art. 57 TUIR (che al primo fa rinvio) pongono l’accento sulle cessioni di beni in favore dei soci e non sulle prestazioni di servizi, ove siano da qualificare come ricavi (benché al valore normale e non al corrispettivo di cessione). Conseguentemente, la medesima prestazione (somministrazione di pasti ai soci e familiari dell’imprenditore) avrebbe una diversa connotazione ai fini IVA rispetto che ai fini delle imposte dirette, sia in termini di qualificazione della prestazione (prestazione di servizi ai fini IVA e cessione di beni ai fini delle imposte dirette), sia quanto al regime impositivo (non imponibili ai fini IVA, ove al di sotto della franchigia dell’art. 3, comma 3, d.P.R. n. 633 e sempre imponibili ai fini delle imposte dirette). Il che apparirebbe distonico, non solo in relazione all’assoggettamento a imposizione (esente IVA ma non esente dalle imposte dirette), ma anche quanto alla qualificazione della stessa (cessione di beni anziché prestazione di servizi). Distonia, peraltro, che non deriva dalla presenza di una diversa norma impositiva, ma dall’assenza di una norma che disciplini tali prestazioni di servizi ai fini delle imposte dirette.
8.8 – Né può disconoscersi – dando una lettura eurounitaria ai fini delle imposte dirette delle prestazioni di ristorazione (come indicato supra al punto 8.3) e come, nella sostanza, propugna parte ricorrente – che la medesima prestazione possa essere qualificata, ai fini delle imposte dirette, anch’essa quale prestazione di servizi, in cui l’attività di trasformazione dei cibi e delle bevande fa perdere l’originaria consistenza quantitativa e qualitativa delle singole componenti, rispetto alle quali diviene improprio il riferimento agli originari beni che erano entrati a comporre la prestazione ristorativa.
8.9 – Da tali considerazioni deve trarsi la conclusione che l’autoconsumo consistente nella somministrazione di cibi e bevande nei confronti dei soci o dei familiari dell’imprenditore deve ritenersi, al pari delle somministrazioni in favore dei dipendenti, sottratto a imposizione diretta e non ricompresa tra le cessioni di beni assoggettate a imposizione a termini dell’art. 85, comma 2, TUIR, in quanto prestazione di servizi per la quale deve farsi applicazione, in via estensiva, dell’art. 3, comma 3, d.P.R. n. 633/1972, risultando in tali termini tali prestazioni irrilevanti ai fini delle imposte dirette negli stessi termini in cui risultano irrilevanti in campo IVA.
8.10 – A conforto di tale interpretazione milita l’interpretazione data dalla stessa Amministrazione finanziaria che, in una propria circolare (Circolare n. 175/E del 5 agosto 1999), ritiene – in favore di parte contribuente – non computabile nel calcolo delle somministrazioni effettuate sulla base dei consumi di materie prime l’autoconsumo le «somministrazioni riferibili ai dipendenti e all’autoconsumo dell’imprenditore, dei familiari e/o dei soci».
Va, quindi, enunciato il seguente principio di diritto: «il servizio di ristorazione alberghiera nel quale vengano somministrati cibi e bevande a favore di dipendenti, soci e familiari dell’imprenditore costituisce prestazione di servizi, non assoggettabile a IVA ove non superi la soglia prevista dall’art. 3, comma 3, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633; analogamente, non hanno rilievo ai fini delle imposte dirette le somministrazioni di pasti riferibili ai dipendenti, nonché all’autoconsumo dell’imprenditore, dei familiari e/o dei soci, ove le stesse rientrino nella soglia indicata dall’art. 3, comma 3, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633».
9 – Il ricorso va, pertanto, accolto in relazione all’ottavo motivo, cassandosi la sentenza impugnata con rinvio alla Commissione Tributaria a quo, la quale farà applicazione del suddetto principio di diritto e provvederà anche alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie l’ottavo motivo per quanto in motivazione, rigetta gli altri motivi di ricorso; cassa la sentenza impugnata con rinvio alla CT di secondo grado di Trento, in diversa composizione, anche per la regolazione e liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
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