CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 25 giugno 2018, n. 16697
Astensione facoltativa per maternità – Trasferimento di sede del lavoratore – Contestazione per difetto delle ragioni tecniche ed organizzative ex art. 2103 c.c. – Mancata presa di servizio presso la nuova sede – Licenziamento disciplinare per assenze ingiustificate – Illegittimità del trasferimento non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa – Contratti a prestazioni corrispettive – Denuncia di inadempienze reciproche – Giudizio di comparazione in ordine al comportamento di ambedue le parti – Responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte
Rilevato che
B.G. – assunta il 1.2.2000 con inquadramento nel 3 livello presso la sede di Caserta del Patronato E.C. – riceveva, in data 14.7.2006, durante il periodo di astensione facoltativa per maternità, provvedimento di trasferimento alla sede di Avellino con efficacia dall’1.8.2006; con successiva nota del 12.8.2006, pervenuta il 23.8.2006, la lavoratrice contestava la legittimità del provvedimento, sostenendo il difetto delle ragioni tecniche ed organizzative, nonché l’incompatibilità del mutamento logistico con le sue condizioni di famiglia, essendo madre di due bambini molto piccoli; terminato il periodo di astensione facoltativa, la B. fruiva di un periodo di assenza per malattia, concluso il quale si recava presso la sede di Caserta, ove, tuttavia, la sua prestazione lavorativa veniva rifiutata con la motivazione che la lavoratrice era ormai in carico presso la sede di Avellino; in data 5.12.2006, il Presidente dell’E. le inviava nota di contestazione, ricevuta il giorno successivo, per assenze ingiustificate relativamente ai giorni dal 21.11 al 1.12.2006, nella quale concedeva 5 giorni per le giustificazioni; con risposta del 16.12.2006, la B. sosteneva di essersi regolarmente recata al lavoro subito dopo il termine della malattia presso la sede di Caserta, ufficio di originaria applicazione anteriormente al trasferimento ad Avellino ritenuto illegittimo; solo in data 6.12.2007, il Presidente dell’E, inviava una nota per “recesso dal contratto di lavoro subordinato stipulato il 1.2.2000”, interpretata dalla lavoratrice – e, poi, anche dal giudice di primo grado – come un licenziamento disciplinare;
2. il Tribunale di S. Maria C. V. dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato a B.G. il 14.12.2007 per difetto del requisito dell’immediatezza e condannava la E, alla reintegra della predetta ed al risarcimento del danno, commisurato alle retribuzioni maturate dall’epoca del recesso fino all’effettiva reintegra, rigettando la domanda di risarcimento per asserito mobbing; dopo la sentenza di primo grado, la B. optava per il risarcimento del danno commisurato in 15 mensilità, che venivano corrisposte senza riserva alcuna dall’E.;
3. con sentenza del 30.6.2016, la Corte di appello di Napoli, in accoglimento del gravame dell’E.C. ed in riforma dell’impugnata decisione, rigettava le domande proposte dalla B., sul rilievo che la lettera di recesso doveva essere interpretata come presa d’atto dell’avvenuta risoluzione del contratto per effetto dell’art. XLIII, lett. b) e c) del R.O.P. E., ossia come presa d’atto delle dimissioni che sarebbero state implicitamente rassegnate dalla B. con il suo comportamento;
4. la Corte riteneva trattarsi di una modalità di risoluzione del rapporto del tutto peculiare collegata alla mancata presa di servizio in seguito al trasferimento, che non poteva essere semplicemente contestato per via stragiudiziale e di fatto ignorato attraverso la messa a disposizione delle energie solo presso la sede di Caserta di provenienza; osservava che il rifiuto di prendere servizio presso l’ufficio di destinazione era preordinatamente inteso a contrastare l’iniziativa datoriale, senza considerare il pregiudizio derivantene all’organizzazione datoriale e la mancata impugnativa anche d’urgenza del provvedimento di trasferimento; riteneva integrate le ipotesi sia sub b) che sub c) dell’art. XLIII R.O.P. richiamate nella lettera, ed osservava come la B. non si fosse avvalsa della possibilità di ricorso al Consiglio di Amministrazione ivi prevista, opponendosi alla declaratoria d’ufficio delle dimissioni; 5. di tale decisione domanda la cassazione la B., affidando l’impugnazione a quattro motivi, cui resiste, con controricorso, l’E..
Considerato che
1. con il primo motivo, si lamenta omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, sul rilievo che non sia stata tenuta nel dovuto conto la circostanza che, successivamente all’offerta della prestazione nella sede di Caserta, l’E. aveva continuato a corrispondere regolarmente la retribuzione e che pertanto le assenze della lavoratrice per tale periodo non potevano essere in alcun modo qualificate come dimissioni, a fronte della offerta reale della prestazione e della regolare corresponsione della retribuzione per oltre un anno, dovendo ritenersi che l’Ente avesse accettato di fatto l’impugnativa del trasferimento, considerato che, all’epoca, non era prevista alcuna decadenza di legge;
2. con il secondo motivo, è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 1460 c. c., assumendosi che, a prescindere dalla chiara manifestazione del rifiuto della lavoratrice di trasferirsi – rifiuto percepito come tale dall’E., come evidenziato dall’erogazione della retribuzione per oltre un anno – tale comportamento doveva essere ritenuto legittimo e non poteva giustificare alcuna risoluzione del rapporto, in quanto proporzionato all’illegittimo comportamento del datore e conforme a buona fede ex art. 1460 c.c., sicchè l’ente non poteva avere riguardo all’assenza tout court, senza considerare, con valutazione comparativa, gli opposti adempimenti; si evidenzia come l’asserita illegittimità del trasferimento, in rapporto alla funzione economico sociale del contratto, pur senza legittimare il rifiuto della lavoratrice ad adempiere la propria prestazione, doveva condurre a ridimensionare la gravità dell’inadempimento della stessa;
3. violazione dell’art. 1203 c.c. è ascritta alla sentenza impugnata con il terzo motivo, dolendosi la ricorrente del fatto che la legittimità del trasferimento e l’ingiustificatezza delle assenze sono state trattate dalla Corte senza adeguata motivazione e senza considerare che all’epoca il trasferimento non era soggetto ad autonoma impugnazione nei tempi e modi previsti dall’art. 32 della legge 183/2010 e, secondariamente, lamentando l’assenza di ogni ragionamento logico a supporto della legittimità della previsione di una risoluzione del rapporto di lavoro (avvenuta a distanza di un anno dai fatti contestati) a seguito di assenze ingiustificate da parte di un mero regolamento aziendale, piuttosto che da parte di previsione di legge;
4. infine, è denunziata violazione e falsa applicazione dell’art. 7 l. 300/70 e dell’art. XLIII lett. b e c del R.O.P. E., sostenendosi che il decorso di un anno era tale da rendere inequivocabilmente intempestiva la condotta del datore, interpretabile come accettazione delle assenze e che, peraltro, non era configurabile nemmeno un’assenza dal lavoro, a fronte di una decisione del datore di non utilizzare la prestazione lavorativa; si aggiunge che l’onere di tempestività del recesso è connesso all’applicazione del principio di buona fede oggettiva ed al dovere di non vanificare la consolidata aspettativa, generata nel lavoratore, di rinuncia all’esercizio del potere disciplinare, sicchè alcuna condotta qualificabile come dimissioni poteva essere attribuita alla lavoratrice, con ciò dovendo ritenersi inapplicabile l’art. XLIII.
5. quanto al primo motivo, a prescindere dal rilievo che la circostanza della regolare corresponsione della retribuzione per oltre un anno non era stato oggetto di discussione tra le parti e non se ne specificano i termini di relativa deduzione nei gradi di merito, in dispregio degli oneri di specificità ricadenti su parte ricorrente, è sufficiente osservare che la Corte territoriale ha rilevato che l’offerta della prestazione lavorativa era avvenuta in diversa sede, essendone non più consentita la esecuzione presso la sede di Caserta, e che a tale valutazione, di carattere assorbente, non può opporsi una diversa interpretazione del comportamento tenuto dalle parti che prescinda dal dato rilevante che il trasferimento non era stato impugnato;
6. quanto al secondo motivo, ritiene questa Corte che, in tema di provvedimento di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103 cod. civ., l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell’art. 1460, comma secondo, cod. civ. alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze, non risulti contrario a buona fede. Nei contratti con prestazioni corrispettive, in caso di denuncia di inadempienze reciproche, è necessario far luogo ad un giudizio di comparazione in ordine al comportamento di ambedue le parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte, nonché della conseguente alterazione del sinallagma. Tale accertamento, fondato sulla valutazione dei fatti e delle prove, rientra nei poteri del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato (cfr., tra le altre, Cass. 115.4.2002 n. 5444, Cass. 23.3.2012 n. 47099, con specifico riferimento ad ipotesi di trasferimento del lavoratore);
7. il terzo motivo, che reitera ulteriormente doglianze sulla qualificazione delle assenze in rapporto ad un trasferimento mai impugnato, si fonda anche sulla asserita illegittimità della previsione di una risoluzione del rapporto a seguito di assenze ingiustificate da parte di un mero regolamento aziendale, ma il motivo in questione sconta un vizio di inammissibilità e di improcedibilità, non risultando indicata la sede di deposito nei gradi di merito del R.O.P. in questione, con ciò contravvenendosi ai principi di specificità e autosufficienza, che impongono di indicare nel ricorso il contenuto rilevante del documento stesso, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali e assolvendo, così, il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso), nel rispetto del relativo scopo, che è quello di porre il Giudice di legittimità in condizione di verificare la sussistenza del vizio denunciato senza compiere generali verifiche degli atti e soprattutto sulla base di un ricorso che sia chiaro e sintetico (Cass. SU 11/4/2012, n. 5698; Cass. SU 3/11/2011, n. 22726);
8. tali considerazioni assorbono ogni altra considerazione che potrebbe essere svolta con riguardo alla validità della previsione contenuta nella norma del ROP – peraltro, neanche espressamente impugnata -, in relazione a principio, pure espresso da questa Corte, secondo cui il recesso dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato può attuarsi unicamente nella duplice forma del licenziamento intimato dal datore di lavoro ovvero delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, con la conseguenza che, mentre è possibile che le parti contraenti collettive od individuali, assegnino a determinati comportamenti di uno dei soggetti del rapporto il significato e l’efficacia dell’atto unilaterale di recesso ed, in particolare per il lavoratore, delle dimissioni, deve invece escludersi la possibilità di introdurre un terzo genere di recesso con la previsione di un comportamento, giudicato significativo dell’intenzione di recedere, che sia svincolato dall’effettiva volontà della parte e che non ammetta la possibilità di prova contraria, giacché in tal caso il patto costituirebbe in realtà un’inammissibile ed invalida clausola risolutiva espressa del rapporto (cfr.Cass. 22.11.1999 n. 12942);
9. la valutazione del quarto motivo è in connessione con la previsione definitoria (della causa di risoluzione) del regolamento al cui tenore ed alla cui portata deve rapportarsi anche l’esame del requisito della tempestività della comunicazione della risoluzione del rapporto, in relazione alla clausola suddetta, sicchè devono ribadirsi le considerazioni appena svolte in relazione al precedente motivo di impugnazione;
10. conclusivamente, per le esposte ragioni, il ricorso va complessivamente respinto;
11. le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza del ricorrente e si liquidano come da dispositivo;
12. sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 115 del 2002;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 3500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art.13, comma 1bis, del citato D.P.R..
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