CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 25 giugno 2020, n. 12708
Illegittimità del licenziamento – Retribuzioni arretrate – Detrazione dell’Irpef – Quota contributiva a carico del lavoratore – Datore di lavoro che corrisponde tempestivamente i crediti retributivi – Legittima effettuazione della trattenuta da versate all’ente previdenziale – Intempestività, da valutarsi con riferimento al momento di maturazione dei crediti e non a quello di accertamento giudiziale degli stessi
Rilevato
che, con sentenza n. 10927/2005 del 18.4.2005, il Tribunale di Roma ha dichiarato la illegittimità del licenziamento intimato da T. S.p.A. alla dirigente L. V. in data 14.5.2001, con conseguente condanna della società al ripristino del rapporto ed al pagamento, in favore della V., delle retribuzioni arretrate per la somma complessiva lorda di Euro 404.505,04;
che, sulla predetta somma, T. S.p.A. ha versato all’INPS il 32,70% dei contributi, per la quota a carico della società e, dall’importo di Euro 404.505,04, la società ha correttamente detratto l’imposta Irpef corrispondente ad Euro 83.243,14;
pertanto, la V. ha richiesto il versamento della somma netta di Euro 321.969,98, osservando che, in caso di pagamento delle retribuzioni arretrate a seguito di declaratoria di nullità del recesso, non devono essere effettuate trattenute della quota contributiva a carico del lavoratore;
che la società datrice, a seguito di atto di precetto, non ha versato la somma di 321.969,98, ma l’importo inferiore di Euro 280.500,66, sul presupposto che, dall’imponibile (Euro 404.213,74), dovesse essere detratta anche la quota previdenziale del 9,19% (pari ad Euro 41.469,74) a carico della lavoratrice;
che, con sentenza n. 14289/2009, il Tribunale di Roma, pronunziando sulla opposizione alla esecuzione proposta dalla società datrice per il recupero coattivo del credito, in ordine al quale eccepiva l’intervenuto pagamento della somma di Euro 280.500,66, quale fatto estintivo dello stesso, ha dichiarato che quest’ultima non avrebbe avuto titolo per procedere esecutivamente nei confronti di T. S.p.A. in virtù dell’ordinanza ex art. 423 c.p.c. del Tribunale di Roma del 13.8.2008;
che, con sentenza pubblicata in data 2.11.2015, la Corte di Appello di Roma ha respinto il gravame interposto da L.V., nei confronti di T. S.p.A., avverso la predetta pronunzia affermando che «costituisce principio pacifico in giurisprudenza che l’accertamento ed il riconoscimento di una pretesa creditoria a favore di un lavoratore e la successiva liquidazione avvenga sempre al lordo delle prestazioni fiscali e previdenziali cui è tenuto il datore di lavoro»;
che per la cassazione della sentenza ricorre L.V. articolando un motivo, cui T. S.p.A. resiste con controricorso;
che sono state comunicate memorie nell’interesse della dirigente;
che il P.G. non ha formulato richieste
Considerato
che, con il ricorso, si censura, in riferimento all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 23 della l. n. 218 del 1952; nonché la mancata motivazione sul motivo di appello relativo all’omesso riconoscimento alla V. dell’importo di Euro 41.827,64, costituente la quota contributiva a carico del lavoratore su mensilità riconosciute a titolo di danno per licenziamento inefficace e si lamenta che la sentenza impugnata, «pur dilungandosi, in assoluta prevalenza, nell’affrontare la tematica relativa alla non ripetibilità, da parte del lavoratore, delle trattenute fiscali compiute dal datore di lavoro come sostituto di imposta», non colga che il petitum non attiene al pagamento degli importi contributivi «a carico della società», ma solo alla quota di retribuzione corrispondente alle trattenute previdenziali «a carico del lavoratore», importo che, pacificamente, in quanto non contestato, ammonta ad Euro 41.469,94: credito che era stato avanzato in via del tutto autonoma rispetto alle argomentazioni sviluppate per ottenere il pagamento degli importi relativi alle trattenute fiscali ed aveva come presupposto l’applicazione dell’art. 23 della l. n. 218 del 1952. Si deduce, quindi, che i giudici di merito abbiano confuso l’obbligo generico di erogare al lavoratore somme con «ritenute» (e non al lordo), con la richiesta specifica della dirigente di non subire (secondo, appunto, le previsioni dell’art. 23 citato) la specifica trattenuta dei contributi, nella quota a carico del lavoratore, sulle retribuzioni arretrate, riconosciute a titolo di danno a seguito della pronunzia dichiarativa della nullità del licenziamento e che disponeva la conseguente reintegrazione.
A parere della ricorrente, pertanto, la fattispecie non va inquadrata, come erroneamente hanno fatto i giudici dì merito, tra le ipotesi generali dell’obbligo aziendale di versamento al netto di somme definite giudizialmente al lordo, ma integra l’ipotesi specifica del contenuto economico del risarcimento del danno dovuto a seguito di reintegrazione, nell’ambito del quale deve ascriversi il diritto del lavoratore ad ottenere le retribuzioni arretrate senza la decurtazione del 9,19%;
che il motivo è fondato; è, innanzitutto, da premettere che il thema decidendum va circoscritto, come correttamente evidenziato dalla ricorrente, alla richiesta dì quest’ultima di ottenere il pagamento dell’importo corrispondente alle trattenute previdenziali a carico del lavoratore: domanda in merito alla quale i giudici di seconda istanza nulla hanno argomentato, facendo applicazione, nella fattispecie, di una norma – l’art. 23 del d.P.R. n. 600 del 1973 – che attiene alle tematiche fiscali e non autorizza la parte datoriale, come erroneamente ritenuto nella sentenza impugnata, a trattenere la quota di previdenza a carico del lavoratore, nell’ipotesi (quale quella di cui si tratta) di condanna al pagamento delle mensilità pregresse in caso di reintegrazione nel posto di lavoro;
che, al riguardo, è altresì da sottolineare che la fattispecie va sussunta nella norma di cui all’art. 23 della l. n. 218 del 1952, ai sensi della quale:« datore di lavoro che non provvede al pagamento dei contributi entro il termine stabilito o vi provvede in misura inferiore alla dovuta, è tenuto al pagamento dei contributi o delle parti di contributo non versate tanto per la quota a proprio carico quanto per quella a carico dei lavoratori, nonché al versamento di una somma aggiuntiva pari a quella dovuta…»; ed infatti, l’art. 19 della stessa legge (v. pure art. 2115 c.c.) impone la contribuzione previdenziale sia al datore che al prestatore di lavoro, dichiarando il primo responsabile del pagamento anche per la parte a carico del secondo ed autorizzando la trattenuta di questa parte sulla retribuzione. Al proposito, i costanti arresti giurisprudenziali di legittimità hanno ribadito, anche di recente (cfr., ex plurimis, Cass. n. 18897/2019) che soltanto il datore di lavoro che corrisponde tempestivamente i crediti retributivi può legittimamente operare la trattenuta da versate all’ente previdenziale, mentre non può farlo in caso di intempestività, da valutarsi con riferimento al momento di maturazione dei crediti e non a quello di accertamento giudiziale degli stessi, sicché, in detta ipotesi, il credito retributivo del lavoratore si estende automaticamente alla quota contributiva a suo carico;
che, nella fattispecie, la domanda attiene al contenuto economico del risarcimento del danno spettante alla V. a seguito della disposta reintegrazione, nel cui ambito va ascritto il diritto della stessa ad ottenere le retribuzioni arretrate senza la decurtazione della quota previdenziale (pacificamente pari ad Euro 41.469,74) a carico della lavoratrice (cfr., ex multis, Cass. n. 12964/2010, secondo cui «Il credito retributivo del lavoratore deve essere calcolato al lordo della sola quota dei contributi previdenziali posta a carico del lavoratore>>);
che, nel caso di annullamento del licenziamento, non essendosi interrotto il rapporto previdenziale, la parte datoriale non è esentata dall’obbligo di versare i contributi ed è tenuto anche al pagamento della quota a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 23 della l. n. 218 del 1952, che, trasferendo, appunto, l’obbligo di pagare una parte dei contributi da un soggetto all’altro, introduce una pena privata, «assumendo una valenza sanzionatoria, giustificata dall’intento del legislatore di rafforzare il vincolo obbligatorio attraverso la comminatoria, per il caso di inadempimento, del pagamento di un importo superiore all’ammontare del mero risarcimento del danno>> (cfr., tra le molte, Cass. nn. 23181/2013; 6448/2009; 3872/2009; 8800/2008);
che, relativamente alla omissione contributiva del datore di lavoro nel periodo compreso tra il licenziamento dichiarato illegittimo e la reintegra, anche di recente, questa Suprema Corte ha ulteriormente ribadito (conformemente a Cass., S.U., n. 19665/2014) che «La disposizione di cui all’art. 19 della l. n. 218 del 1952>>, innanzi citata, «è stata interpretata da questa Corte nel senso che il datore di lavoro può procedere alle ritenute previdenziali a carico del lavoratore solo nel caso di tempestivo pagamento del relativo contributo>> (cfr., tra le altre, Cass. nn. 20753/2018; 25956/2017; 18044/2015),
«altrimenti detta quota contributiva rimane a carico del datore di lavoro ai sensi del successivo art. 23 della stessa legge. In ossequio al congegno approntato dagli artt. 19 e 23 nei confronti del datore, il lavoratore rimane liberato dall’obbligazione contributiva in discorso, per la quota a suo carico, con l’ulteriore conseguenza che il suo credito retributivo va in tal caso necessariamente calcolato al lordo della quota contributiva altrimenti su di lui gravante per la ragione che la sua soggezione al relativo obbligo rimane travolta dalla condotta del datore. Il credito retributivo del lavoratore, in altre parole, si estende automaticamente alla quota contributiva a suo carico (non a quella a carico del datore), che diviene perciò parte integrante della retribuzione allo stesso spettante» (Cass. n. 25956/2017, cit.);
che la Corte di merito non ha fatto corretta applicazione degli esposti – ed ormai consolidati – arresti giurisprudenziali della Corte di legittimità nella materia;
che, pertanto, il ricorso va accolto e la sentenza cassata, con rinvio, anche per la determinazione delle spese del presente giudizio, alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito, a quanto innanzi affermato
P.Q.M.
accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
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