CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 25 maggio 2018 n. 13135
Tributi – Condono fiscale – Liti definite con sentenza passata in giudicato – Ammissibilità – Esclusione
Fatti di causa
La società S. in liquidazione, ricevuta la notifica di una cartella esattoriale di pagamento per ritenute IRPEF relative al 1982 e 1983, proponeva, in data 2 dicembre 2003, domanda di condono ex lege n. 289 del 2002. Seguiva diniego dell’Ufficio notificato rii ottobre 2004, in cui si sosteneva che quanto richiesto era dovuto a titolo definitivo a seguito di sentenza della Commissione Tributaria Regionale 144/05/99 passata in giudicato. Contro tale diniego la società ha presentato ricorso e la relativa controversia non è oggetto della presente causa.
Ricevuta nuova cartella esattoriale per lo stesso debito d’imposta, la società rinnovava la domanda di condono in data 8 aprile 2004, cui seguiva un secondo provvedimento di diniego del 24 dicembre 2004, il cui tenore era il medesimo del diniego precedente, facendo riferimento al giudicato di cui alla citata sentenza della Commissione Tributaria Regionale 144/05/99 e citando a sostegno Cass. 19161 del 2003 e Cass. 13856 del 2004. La ricorrente impugnava anche questo diniego e assume che nel relativo ricorso essa si era lamentata: 1) del fatto che l’atto impugnato era stato preceduto da altro “avente solo in apparenza lo stesso oggetto”; 2) del fatto che il diniego era riferito a cartella diversa; 3) di una non meglio specificata violazione di legge. Successivamente, con memoria, chiedeva che fosse dichiarata cessata la materia del contendere in quanto la Commissione Tributaria Regionale, con sentenza 157/33/06, aveva annullato la cartella di cui al primo menzionato ricorso.
La Commissione Tributaria Provinciale rigettava il ricorso dichiarando non applicabile il condono perché relativo ad importo resosi definitivo per giudicato (stessa tesi di entrambi i dinieghi).
Avverso tale decisione proponeva appello la società, per omesso esame dei motivi di ricorso. Si faceva presente che nel secondo diniego non si faceva alcun riferimento al primo e si deduceva il riferimento a una cartella diversa, contestando che vi fosse un semplice errore materiale. Si deduceva violazione di legge e mancata declaratoria della materia del contendere, precisandosi per altro che la sentenza 157/33/06 era stata impugnata per cassazione dall’Ufficio.
La Commissione Tributaria Regionale rigettava l’appello con motivazione analoga a quella della Commissione Tributaria Provinciale, senza fare riferimento ad altre censure.
Avverso tale sentenza la contribuente S. in liquidazione proponeva ricorso, affidato a quattro motivi, nei confronti dell’Agenzia delle entrate, la quale si costituiva con controricorso.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente S. in liquidazione deduce difetto di motivazione in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. e, premesso che l’Ufficio in sede di autotutela può anche rinunciare a pretese resisi definitive, sostiene che l’Ufficio stesso non ha spiegato il nesso tra i due provvedimenti ingiuntivi.
Con il secondo motivo d’impugnazione, la ricorrente deduce difetto di motivazione in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., in quanto si sostiene che il secondo diniego ha fatto riferimento ad una cartella diversa da quella oggetto del primo diniego e che pertanto consegue che il secondo diniego è illegittimo perché riferito ad altro atto diverso da quello oggetto del primo diniego.
Con il terzo motivo d’impugnazione, la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., violazione dell’art. 16 della legge n. 289 del 2002: si censura la mancata applicazione del condono alla fattispecie, sostenendosi che una circolare, richiamata dall’Ufficio, che impedirebbe il condono non può modificare la legge, la quale prevede il condono per “ogni altro atto di imposizione”.
Con il quarto motivo d’impugnazione, la ricorrente deduce error in procedendo e difetto di motivazione in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 4 e 5, cod. proc. civ. sostenendosi che la Commissione Tributaria Regionale ha
pretermesso l’esame degli altri motivi d’appello: numeri 1, 2, e 5 dell’atto di appello.
I motivi, che vanno affrontati congiuntamente perché strettamente connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.
Preliminarmente, e partendo in particolare dal terzo motivo di ricorso, occorre rilevare che, come sostenuto dalla sentenza impugnata e dall’Agenzia delle entrate nel suo controricorso, la pretesa sostanziale del contribuente (ossia la possibilità di accedere al condono) è infondata. Infatti, secondo l’art. 16 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 «Le liti fiscali pendenti dinanzi alle commissioni tributarie in ogni grado del giudizio, anche a seguito di rinvio, nonché quelle già di competenza del giudice ordinario, ancora pendenti dinanzi al tribunale o alla corte di appello, possono essere definite, a domanda del soggetto che ha proposto l’atto introduttivo del giudizio, con il pagamento della somma».
Ha affermato conseguentemente questa Corte, con riguardo a tale norma, che esso riguarda la definizione agevolata di liti pendenti (Cass. 23 luglio 2004, n. 13856), mentre nel caso di specie il diniego da parte dell’Agenzia delle entrate fa riferimento ad una sentenza passata in giudicato. Ratio del condono fiscale è infatti, come sottolineato da Cass. 29 novembre 2013, n. 26767 (secondo cui la disciplina del condono risponde all’esigenza di conseguire risorse per lo Stato entro i termini perentori connessi alla redazione del bilancio statale) e da Cass., S.U., 6 luglio 2017, n. 16692, non solo e non tanto quella di recuperare risorse finanziarie (che infatti lo Stato, con il condono, rinuncia definitivamente ad una larga parte di quanto di sua spettanza) ma anche e soprattutto quello di ridurre il contenzioso (così assecondando non solo e non tanto i principi di parità del bilancio di cui all’art. 81 Cost. ma anche e soprattutto quello di ragionevole durata del processo di cui all’art. Ili Cost.), nel rispetto però delle previsioni costituzionali di cui agli art. 3 e 53, che conferiscono alle norme in tema di condono carattere di stretta interpretazione, in ragione della loro obiettiva deroga al principio di uguaglianza nel trattamento fiscale dei cittadini davanti al Fisco. Qualora infatti si consentisse di applicare le norme in tema di condono anche per debiti nei confronti dell’Erario derivanti da sentenze passate in giudicato, si sacrificherebbero eccessivamente i principi di uguaglianza davanti al Fisco, di ragionevolezza (espressione del principio di uguaglianza) in quanto non si spiegherebbe il motivo della così facile rinuncia dello Stato ad una gran parte di un potenziale introito, di certezza del diritto (parimenti espressione del principio di uguaglianza: in questo senso Corte cost. n. 219 del 2013) e del dovere di tutti di contribuire alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, perché il contribuente verrebbe irragionevolmente ad usufruire, di un atto demenziale dettato da contingenti ed eccezionali esigenze finanziarie e di carico giudiziario, che verrebbero ad assumere un peso eccessivo nel delicato bilanciamento di valori con i citati art. 3 e 53 Cost., oltretutto con un assai discutibile ed evanescente contributo proprio alle suddette esigenze finanziarie dello Stato (in ragione dell’esiguità della somma recuperata dal Fisco) e della ragionevole durata dei processi (a causa dell’assenza di un contenzioso e anzi, proprio in presenza di un potenziale contenzioso nascente dalle richieste di condono relativo a debiti col Fisco nascenti da sentenze passate in giudicato). Ritenere dunque ammissibile, in via interpretativa, un condono per debiti fiscali relativi a sentenze passate in giudicato, determinerebbe l’introduzione, in via surrettizia e generalizzata, di nuova forma di condono, circostanza più volte stigmatizzata dalla Corte costituzionale (Corte cost. n. 229, e 232 del 2017; 233 del 2015), la quale, proprio per la delicatezza della materia e la difficoltà di trovare il giusto equilibrio tra i diversi principi costituzionali, ha anche costantemente affermato la competenza esclusiva dello Stato in tema di condoni, proprio a voler sottolineare la centralità e l’esclusività del Parlamento nella decisione circa l’opportunità dei condoni, escludendo così implicitamente da tale decisione gli altri poteri dello Stato (non solo le Regioni, ma anche la Magistratura). In particolare, in altre pronunce la Consulta ha altresì affermato che va dichiarata illegittima una norma regionale che abbia l’effetto di estendere l’area del condono, ledendo l’affidamento dei consociati nella natura definitiva della normativa in questione, e con esso, in ultima analisi, la stessa certezza del diritto, che la Corte costituzionale ha espressamente individuato come un valore suscettibile di essere compromesso da ogni condono, così da fungere da criterio, unitamente ad altri, alla luce del quale valutare l’osservanza degli «stretti limiti» imposti al condono dal sistema costituzionale (sentenze n. 54 del 2009, 196 del 2004 e n. 369 del 1988). E’ evidente pertanto che tale estensione dell’area del condono non può neppure avvenire in via di una irragionevole e forzata interpretazione della norma da parte del giudice (cfr. per l’espressione degli stessi principi in tema di inammissibilità del “condono di condono” Cass. 19 gennaio 2018, n. 1317).
Conseguentemente, in ragione dell’infondatezza della pretesa sostanziale del contribuente, la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del consolidato principio secondo cui dalla natura del processo tributario – il quale non è annoverabile tra quelli di “impugnazione-annullamento”, ma tra quelli di “impugnazione-merito”, irf quanto non è diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva dell’accertamento dell’ufficio – discende che, quand’anche il giudice tributario ritenga invalido il diniego di condono ma non per vizi di forma talmente gravi da impedire l’identificazione dei presupposti impositivi e precludere l’esame del merito del rapporto tributario, detto giudice non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma ha il potere-dovere di esaminare nel merito la pretesa tributaria operando una motivata valutazione sostitutiva (cfr., fra le innumerevoli, Cass. 28 giugno 2016, n. 13294; Cass. 12 novembre 2014, n. 24092; Cass. 20 marzo 2013, n. 6918).
Dunque, di fronte ad un provvedimento amministrativo nella sostanza corretto ma (ipoteticamente) viziato, sia il giudice di primo grado che quello di secondo hanno in ogni ca$o esercitato il loro potere-dovere sostitutivo ed hanno esaminato il merito della pretesa tributaria, giungendo alla ragionevole e corretta conclusione di rigettare la domanda in ragione della definitività della sentenza da cui deriva il debito fiscale della contribuente, il che rende prive di rilevanza le doglianze della contribuente relative a supposti vizi dell’atto di diniego (motivi primo, secondo e quarto).
Peraltro il primo e il secondo motivo sono anche inammissibili perché si tratta di censure nuove, in quanto non si fa riferimento ad una questione già sollevata contro la sentenza di primo grado ed è ius receptum che i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio d’appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazioni non trattati nella fase di merito (Cass. 14 novembre 2017, n. 26911) o comunque questioni che, per la scarsa scientificità del ricorso, non risulti chiaro se siano state effettivamente trattate (Cass. 17 gennaio 2018, n. 1008); in ogni caso si ignora che, nel merito, l’oggetto delle due ingiunzioni è palesemente il medesimo.
Il quarto motivo inoltre è inammissibile perché non espone per esteso i motivi di cui si assume il mancato esame da parte della Commissione Tributaria Regionale (in violazione del principio di autosufficienza), nemmeno indicando le pagine e i punti degli atti a cui fa riferimento. Pertanto il ricorso dell’Agenzia delle entrate è carente dal punto di vista dell’autosufficienza e quindi si ritiene di aderire all’insegnamento di questa Corte (Cass. 17 gennaio 2018, n. 1008; Cass. 18 novembre 2015 n. 23575), secondo cui, in tema di contenzioso tributario, il ricorrente, pur non essendo tenuto a produrre nuovamente i documenti, in ragione dell’indisponibilità del fascicolo di parte che resta acquisito, ai sensi dell’art. 25, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, al fascicolo d’ufficio del giudizio svoltosi dinanzi alla Commissione Tributaria, di cui è sufficiente la richiesta di trasmissione ex art. 369, comma 3, cod. proc. civ., deve rispettare, a pena -d’inammissibilità del ricorso, il diverso onere di cui all’art. 366, n. 6, cod. proc. civ., di specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito. Infatti, qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertaménto di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata né indicata nelle conclusioni ivi epigrafate, il ricorrente che riproponga tale questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 17 gennaio 2018, n. 1008; Cass. 22 aprile 2016, n 8206; Cass. 11 aprile 2016, n. 7048).
Consegue pertanto il rigetto del ricorso con condanna del ricorrente, soccombente, alle spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, in favore dell’Agenzia delle entrate.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente alla refusione in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese processuali liquidate in complessivi euro 3.000, oltre alle spese prenotate a debito.
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