CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 agosto 2021, n. 23506
Cessione del rapporto di lavoro – Accettazione tacita – Prosecuzione alle dipendenze della cedente – Inidoneità del verbale di mancata conciliazione
Rilevato che
1. la Corte d’Appello di Roma ha respinto l’appello di L.G., confermando la pronuncia di primo grado con cui era stata rigettata la domanda volta all’accertamento della nullità o illegittimità della cessione del suo rapporto di lavoro in data 1.3.2003 da T.I. spa a TNT Logistic spa (ora C. Logistic srl), con diritto alla prosecuzione del rapporto alle dipendenze della cedente;
2. la Corte territoriale, conformemente al Tribunale, ha ritenuto che l’attività svolta dalla lavoratrice in esecuzione del rapporto di lavoro con la cessionaria, per un periodo di tempo considerevolmente lungo, superiore a dieci anni, senza riserve o manifestazioni di dissenso espresso verso le società appellate, costituisse condotta sintomatica della volontà di accettazione tacita della cessione del rapporto;
3. ha giudicato ininfluente, come già aveva fatto il primo giudice, la nota del 7.12.2007 con cui era stato chiesto il tentativo di conciliazione, per il difetto di prova della ricezione della stessa da parte delle società, cedente e cessionaria, e per la inidoneità del verbale di mancata conciliazione, peraltro privo degli estremi della nota di convocazione, a valere quale dimostrazione del dissenso manifestato verso le società, rimaste entrambe assenti;
4. avverso tale sentenza L.G. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, illustrati da memoria. T.I.M. – T.I. spa e C. Logistic Italia srl hanno resistito con distinti controricorsi.
5. la ricorrente ha depositato istanza rivolta al Primo Presidente, per la rimessione della causa alle Sezioni Unite, respinta con provvedimento del 18.3.2021;
6. la proposta del relatore è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..
Considerato che
7. con il primo ed il secondo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1326„ 1327, 1362, 1372, 2697, 2727 e 2729, anche in relazione agli artt. 2112 e 1404 cod. civ.; nonché omesso esame su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ.;
8. si censura la sentenza d’appello per avere desunto il consenso tacito alla cessione del contratto dalla sola circostanza del decorso del tempo, durante il quale la L. ha continuato a lavorare per la cessionaria, senza tenere conto della giurisprudenza di legittimità, consolidata nel ritenere che anche lo svolgimento, per un lungo periodo, della prestazione lavorativa a favore del cessionario è ininfluente al fine di individuare una tacita volontà di adesione alla cessione del contratto individuale di lavoro;
9. col terzo e quarto motivo è denunciato l’omesso esame su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ.; inoltre, violazione e falsa applicazione delle norme sul valore del verbale di mancata conciliazione, artt. 410 cod. proc. civ., anche in relazione agli artt. 2727, 2729 e 2697 cod. civ.;
10. si rileva l’incoerenza e l’illogicità della motivazione resa dai giudici di appello nella valutazione della prova documentale costituita dalla nota del 7.12.2007, con cui si impugnava la cessione di ramo di azienda e si chiedeva all’Ufficio provinciale del lavoro di Roma di attivare il tentativo di conciliazione, e del verbale di mancata conciliazione in cui si dà atto dell’assenza delle società, benché ritualmente convocate;
11. si assume che il fatto che la convocazione sia o meno giunta a conoscenza delle società non faccia venir meno il significato di dissenso manifestato dalla lavoratrice attraverso la richiesta di tentativo di conciliazione;
12. i motivi di ricorso formulati ai sensi del 360, comma 1, n. 5 c.p.c. sono inammissibili in ragione della disciplina di cui all’art. 348 ter, comma 5, c.p.c., sulla c.d. doppia conforme, atteso che la ricorrente non ha neanche allegato, come era suo onere, la diversità delle ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello (Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 5528 del 2014); ulteriore profilo di inammissibilità discende dalla mancata trascrizione della nota con cui è stato richiesto il tentativo di conciliazione e su cui le censure si fondano;
13. deve peraltro rilevarsi che la Corte di merito ha preso in esame la nota con cui era stato richiesto il tentativo di conciliazione e ha valutato la stessa ininfluente al fine di dimostrare “l’avvenuta manifestazione di dissenso da parte della lavoratrice alle società”, in ragione non solo della mancata partecipazione delle società al tentativo di conciliazione ma, a monte, per l’assenza di prova che la citata nota fosse giunta a conoscenza delle società medesime;
14. non è infine dedotta, né dimostrata, la decisività del fatto che si assume non esaminato, cioè la richiesta di tentativo di conciliazione, atteso che la Corte di merito ha ritenuto esistente un consenso tacito alla cessione del contratto di lavoro non solo in base alla mancanza di riserve o dissenso espressi dalla lavoratrice, ma anche valorizzando la prosecuzione del rapporto di lavoro presso la cessionaria per molti anni;
15. non risulta quindi integrata l’ipotesi di omesso esame di un fatto storico decisivo, presupposto per la configurabilità del vizio di cui all’art. 360, coma 1, n. 5 c.p.c., e neppure può ritenersi suscettibile di sindacato, in sede di legittimità, l’operato dei giudici di merito nella ricostruzione fattuale della convocazione delle società ai fini del tentativo di conciliazione e nella valutazione di tale convocazione ai fini della manifestazione di dissenso della lavoratrice alla cessione;
16. parimenti inammissibili sono le censure di violazione di legge;
17. la ricorrente omette di specificare quali affermazioni della sentenza d’appello si porrebbero in contrasto con l’interpretazione ed applicazione delle disposizioni di legge invocate e, difatti, non è dato ravvisare alcuna violazione degli artt. 410 c.p.c. sul valore del verbale di conciliazione, contestando precipuamente la ricorrente la valutazione fatta dai giudici di merito sulla portata della richiesta del tentativo di conciliazione quale valida e sufficiente manifestazione di dissenso alla cessione del contratto, sì da impedire il formarsi di una tacita accettazione della cessione medesima;
18. ma tali critiche attengono non alla interpretazione ad applicazione delle norme di diritto, bensì alla valutazione delle circostanze fattuali probatoriamente appurate e si collocano all’esterno del vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.;
19. quanto alla dedotta violazione delle residue disposizioni del codice civile, elencate nel primo motivo di ricorso, deve ribadirsi l’orientamento di questa S.C., espresso in fattispecie di risoluzione del contratto a termine per mutuo consenso ma con affermazione di un principio di diritto estensibile ad ogni ipotesi in cui venga in considerazione un comportamento concludente del prestatore di lavoro, secondo cui, “l’accertamento della sussistenza di una concorde volontà delle parti diretta allo scioglimento del vincolo contrattuale costituisce apprezzamento di merito che, se immune da vizi logici, giuridici e adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità, secondo le rigorose regole sui motivi che possono essere fatti valere al fine di incrinare la ricostruzione di ogni vicenda storica antecedente al contenzioso giudiziale, previste dall’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. tempo per tempo vigente” (v. Cass. n. 29781 del 2017; n. 13958 del 2018; n. 13660 del 2018; n. 20240 del 2020; v. anche Cass. 4870/20 secondo cui “La nullità della cessione di ramo d’azienda, con conseguente inapplicabilità dell’art. 2112 c.c., non esclude che sia configurabile la cessione del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 1406 c.c., laddove – con accertamento di fatto che, ove immune da vizi logici e adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità – risulti che il lavoratore abbia manifestato tacitamente il proprio consenso mediante comportamenti concludenti. (Nella specie, la prosecuzione del rapporto con la società cessionaria per oltre nove anni, senza alcuna contestazione)”;
20. nel caso di specie, le asserite violazioni di legge, in quanto volte nella sostanza a censurare la valutazione della Corte di merito sulla sussistenza di una concorde volontà delle parti diretta allo scioglimento del vincolo contrattuale, risultano inammissibili;
21. neppure vi è spazio per ritenere violate le regole in materia di prova presuntiva:
22. nella giurisprudenza di legittimità si è più volte sottolineato come, nel dedurre dal fatto noto quello ignoto, il giudice di merito incontri il solo limite del principio di probabilità (Cass., 12/6/2006, n. 13546). Non occorre cioè che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire la esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile, secondo un criterio di necessità assoluta ed esclusiva (cfr. Cass. n. 6387 del 2018 e precedenti ivi citati), ma è sufficiente che l’inferenza del fatto noto da quello ignoto sia effettuata in base ad un canone di ragionevole probabilità, con riferimento alla connessione degli accadimenti la cui normale sequenza e ricorrenza può verificarsi secondo regole di esperienza basate sull’id quod plerumque accidit (cfr. Cass., 30/5/2019 n. 14762; Cass. 15/3/2018 n. 6387; Cass. 30/11/2005, n. 6081; Cass. 23/3/2005, n. 6220; Cass., 16/7/2004, n. 13169; Cass. 13/11/1996, n. 9961);
23. i rilievi mossi dalla parte ricorrente non investono la correttezza logico-giuridica del ragionamento presuntivo né la plausibilità delle massime di esperienza utilizzate nella valutazione delle risultanze probatorie (v. Cass., n. 6387 del 2018) e neppure le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, ma si limitano a contestare la valutazione degli elementi indiziari come operata dalla Corte di merito, e come tali non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità;
24. per le ragioni esposte, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;
25. le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo;
26. si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida, in favore di ogni controricorrente, in euro 4.000,00 per compensi professionali, in euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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