CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 aprile 2022, n. 13057
Licenziamento – Illegittimità – Rito cd. Fornero – Provvedimento conclusivo della fase sommaria – Rimedio esperibile – Caratteri di decisività e definitività
Rilevato che
con sentenza n. 237 del 2019 la Corte d’Appello di Firenze ha dichiarato l’inammissibilità del reclamo proposto da L. S.p.a. avverso l’ordinanza conclusiva della fase sommaria del rito ex L. 92 del 2012 emessa dal Tribunale di Prato, che, in accoglimento del ricorso proposto da A. D., aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento e condannato la società a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro e a risarcirle il danno conseguente;
il giudice di primo grado aveva ritenuto punibile la condotta ascritta alla dipendente con sanzione conservativa alla luce di quanto prescritto dal CCNL, conseguentemente applicando la tutela di cui al comma 4 dell’art. 18 L. n. 300 del 1970;
in particolare, a fronte della preliminare affermazione di correttezza dell’impugnazione da parte della L., sulla scorta del tenore di sentenza della decisione impugnata, ha, invece, escluso l’ammissibilità del reclamo alla luce della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’unico rimedio esperibile avverso il provvedimento conclusivo della fase sommaria del rito ex lege n. 92 del 2012, è il ricorso in opposizione previsto dall’art. 1, comma 51, L. n. 92 del 2012 e non il reclamo e che il giudice di primo grado aveva proceduto “dichiaratamente” alla fase sommaria, definendola con ordinanza e non con sentenza;
per la cassazione della sentenza propone ricorso L. S.p.a, affidandolo a due motivi;
resiste, con controricorso assistito da memoria, A. D.;
Considerato che
con il primo motivo di ricorso si deduce ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. la violazione e falsa applicazione degli artt. 131, 132, 133, e 134 c.p.c.;
con il secondo motivo si allega la violazione dell’art. 1, commi 51-58 l. 92 del 2012, in relazione all’art. 433 c.p.c.;
lamenta, in particolare, parte ricorrente aver la Corte territoriale erroneamente qualificato il provvedimento di primo grado quale ordinanza conclusiva della fase sommaria – alla luce della asserita unificazione delle due fasi e dell’espletamento di una istruttoria a cognizione piena – anziché quale provvedimento decisorio definitivo e, conseguentemente, aver dichiarato inammissibile il reclamo dalla stessa proposto;
entrambi i motivi, da esaminarsi congiuntamente per ragioni logico — sistematiche, sono infondati;
giova premettere, al riguardo, che risulta consolidato l’orientamento di legittimità con riguardo alla struttura del rito delineato dalla l. 92 del 2012 – come chiarita a partire dalla decisione delle Sezioni Unite n. 19674 del 2014 – secondo cui, nel rito cd. Fornero, il giudizio di primo grado è unico a composizione bifasica, con una prima fase ad istruttoria sommaria, diretta ad assicurare una più rapida tutela al lavoratore, ed una seconda fase a cognizione piena che della precedente costituisce prosecuzione, sicché l’unico rimedio esperibile avverso il provvedimento conclusivo della fase sommaria, anche quando in mero rito, è il ricorso in opposizione previsto dall’art. 1, comma 51, della L. n. 92 del 2012, e non il reclamo che, ove proposto, va dichiarato inammissibile;
è stato precisato, infatti, che alla prima fase, a istruttoria semplificata, segue una seconda che, avendo cognizione piena, si caratterizza per la portata espansiva sul piano soggettivo ed oggettivo in quanto volta a fornire alle parti la garanzia di una decisione più completa e approfondita, che non si caratterizza per avere natura di impugnazione, ma è una prosecuzione della fase sommaria (Cfr. sul punto, ex plurimis, Cass. n. 2364 del 2020; Cass. n. 19552 del 2016);
ne consegue che l’unico rimedio per impugnare il provvedimento emesso ad esito della fase sommaria è rappresentato dal ricorso in opposizione, che innesca la seconda fase a cognizione piena;
orbene, è possibile anche che la fase sommaria venga unificata alla fase di cognizione piena: in tal caso, il giudice di prima istanza intende, ab initio, omettere la fase semplificata, compiendo un accertamento approfondito della questione dedotta, nel pieno rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa delle parti;
allorquando si verifichi tale evenienza processuale, proprio nel rispetto della riduzione dei termini delle decisioni sulla legittimità dei licenziamenti e in virtù del principio che sancisce la prevalenza della sostanza sulla forma, il rimedio esperibile contro la pronuncia ad esito della unificazione delle fasi non è più l’opposizione, bensì il gravame innanzi la Corte d’appello (sul punto, Cass. n. 8467 del 2017);
tale evenienza, tuttavia, può verificarsi soltanto in due ipotesi: quella in cui lo stesso giudicante della fase sommaria abbia espressamente conferito al procedimento la natura di piena cognitio e quello in cui, invece, a tale conclusione possa pervenirsi, sulla base dell’interpretazione della decisione successivamente alla sua emissione;
ed invero, nei procedimenti soggetti al rito ex art. 1, comma 48, della l. n. 92 del 2012, qualora il giudicante, attraverso l’unificazione delle due fasi del giudizio di primo grado, a conclusione di un’istruttoria a cognizione piena, sia pervenuto, nel rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa delle parti, ad una pronuncia avente contenuto decisorio, il corretto rimedio impugnatorio non va più individuato nell’opposizione dinanzi allo stesso giudice che l’ha emessa, ma nel gravame innanzi alla corte d’appello, in linea con la “ratio” della riforma, volta alla riduzione dei tempi delle decisioni sulla legittimità dei licenziamenti, nonché con il principio generale della prevalenza della sostanza sulla forma ai fini della identificazione del mezzo di impugnazione esperibile;
nondimeno, come chiarito da questa Corte di legittimità, per stabilire se un provvedimento, rivesta natura di sentenza o di ordinanza, è necessario valutare non già l’aspetto formale, bensì il contenuto sostanziale, cioè se il giudicante, esercitando il suo potere giurisdizionale, abbia definito la controversia con «i caratteri della decisività e definitività» (sul punto, Cass. n. 8467 del 2017 cit. 15976/2017);
soltanto, quindi, qualora appaia possibile individuare un contenuto decisorio pieno nella pronunzia impugnata potrà addivenirsi a reputare ammissibile l’impugnazione che avverso la stessa sia stata proposta;
nel caso di specie, corretta deve reputarsi l’interpretazione offerta dalla Corte d’appello, valutabile da parte di questa Corte in quanto oggetto di deduzione di error in procedendo da parte della società ricorrente, in quanto ha ritenuto il provvedimento emesso privo di quei caratteri di definitività propri della sentenza immediatamente impugnabile;
da un punto di vista formale, il giudice di primo grado ha fatto esplicito riferimento alla fase sommaria, sia nella parte in cui non ha ritenuto indispensabile istruire la causa al fine di accertare la veridicità o meno delle accuse mosse alla odierna controricorrente, sia là dove ha richiamato nel dispositivo del provvedimento all’art. 1, comma 49 della legge n. 92/2012;
da un punto di vista sostanziale, vero è che il primo giudice definisce irrilevante l’ammissione di ulteriori prove, ma nel farlo agisce in un’ottica di semplificazione, lasciando così all’ipotetica fase di cognizione la piena integrazione probatoria, con l’introduzione nel procedimento degli atti di istruzione ammissibili e rilevanti per la decisione;
espressamente, infatti, il giudicante ha affermato la non indispensabilità dell’istruzione della causa proprio trattandosi di fase sommaria, non conducendo a diversa conclusione il riferimento alla superfluità delle allegazioni probatorie, addotte risultando ictu oculi che, ab initio, il giudice di merito, non avesse in alcun modo inteso elidere la fase sommaria, piuttosto volendosene servirsi in ragione della sua speditezza;
è del resto evidente che, seppur la ratio della legge sia quella di addivenire nel più breve tempo possibile alla delibazione sul licenziamento, la volontà di far coincidere la fase sommaria con quella a cognizione piena non deve giungere a vulnerare «il diritto delle parti costituzionalmente protetto, all’esercizio del diritto di difesa, che rinviene tutela a mezzo di una attività istruttoria svolta con cognizione piena e non meramente sommaria» (Cass. n. 8467 del 2017): evenienza che si verificherebbe nel caso di specie, proprio per la elisione dell’ammissione di prove essendo assorbita l’ipotetica fase di cognizione;
deve, quindi, concludersi che non si versa in una delle ipotesi in cui la seconda fase può reputarsi soltanto eventuale, in funzione di integrare un’istruttoria carente, essendo, invece, la stessa indispensabile proprio a cagione della mancata unificazione delle due fasi;
alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere respinto;
le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo;
ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
P.Q.M.
respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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