CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 febbraio 2019, n. 5526
Accertamento – Redditometro – Riscossione – Presunzione semplice – Onere della prova a carico del contribuente
Rilevato che
Con sentenza in data 29 novembre 2016 la Commissione tributaria regionale della Emilia Romagna respingeva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Bologna che aveva accolto il ricorso proposto da R.B. contro gli avvisi di accertamento con i quali era stato rideterminato, ai sensi dell’art. 38, comma 4, d.P.R. n. 600/1973, il reddito del contribuente in relazione agli anni di imposta 2007 e 2008. La CTR, premesso che il redditometro, quale strumento accertativo, dà luogo ad una presunzione semplice a sostegno della pretesa fiscale, rilevava che, nella specie, l’accertamento sintetico operato dall’Ufficio, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente, non escludeva il potere del giudice di valutare il fondamento della pretesa in relazione alla prova contraria addotta dal contribuente.
Osservava, quindi, che il B. «aveva dato buona prova della sua capacità economica negli anni di riferimento per cui egli era da ritenersi in grado di sostenere gli oneri relativi al mantenimento di casa e automezzi; il suo patrimonio, anche grazie ad eventi successori recenti, era sufficiente per affrontare i relativi costi fornendo con ciò sufficiente ed adeguata prova contraria rispetto a quanto sinteticamente accertato dall’Ufficio».
Avverso la decisione, con atto del 29 novembre 2017, l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un motivo.
Resiste con controricorso il contribuente.
Sulla proposta del relatore ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ. risulta regolarmente costituito il contraddittorio camerale.
Considerato che
Con l’unico motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 38, commi 4, 5 e 6, d.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. Censura la sentenza impugnata per avere ritenuto che i fatti indice di capacità contributiva (spese per mantenimento di alcuni veicoli e costo di locazione dell’abitazione) integrassero una presunzione semplice e non una presunzione legale. Lamenta, inoltre, che erroneamente la CTR aveva ritenuto sufficiente ad integrare prova idonea a giustificare gli incrementi patrimoniali la sola circostanza della sussistenza di disponibilità finanziarie pregresse, senza considerare che l’art. 38 d.P.R. n. 600/1973, per vincere la presunzione su cui è fondato l’accertamento, richiede la prova documentale della durata del possesso di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte. Nel caso di specie, gli eventi successori e le conseguenti disponibilità finanziarie erano troppo risalenti nel tempo (anno 1997) per poter consentire un plausibile collegamento con le manifestazioni di spesa valorizzate ai fini della determinazione dell’imponibile in relazione agli anni di imposta (2007 e 2008) oggetto di accertamento.
Il ricorso è infondato.
Va anzitutto osservato che la CTR, al di là del riferimento alla presunzione semplice, ha correttamente individuato la distribuzione dell’onere della prova nel caso di accertamento sintetico basato su redditometro, ponendolo a carico del contribuente, il quale è tenuto a fornire la prova contraria rispetto alla presunzione del maggior reddito desunto dagli indici di capacità contributiva stabiliti dal redditometro.
Tanto premesso, per il resto il motivo di doglianza, pur evocando il vizio di violazione di legge, prospetta una diversa valutazione delle risultanze fattuali – in particolare riguardo al rilievo da attribuire alle disponibilità finanziaria derivanti da successione ereditaria – sulla base delle quali la CTR ha ritenuto che il contribuente avesse fornito adeguata prova contraria rispetto alla presunzione riveniente dal redditometro.
Tale apprezzamento di fatto è riservato al giudice di merito e non è soggetto a sindacato in sede di legittimità.
Al riguardo va ribadito che:
– «In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione» (Cass. n. 26110 del 2015);
– «Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione» (Cass. n. 9097 del 2017).
Lo sviluppo della censura collide con le indicazioni sui limiti del giudizio di cassazione rivenienti dai principi di diritto espressi nei citati arresti giurisprudenziali.
Il ricorso va dunque rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
condanna l’Agenzia delle entrate al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 5.600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in € 200,00 ed agli accessori di legge.
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