CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 giugno 2018, n. 16847
Licenziamento per giusta causa – Conversione in licenziamento per giustificato motivo soggettivo – Grave nocumento materiale o morale – Lesione del vincolo di fiducia – Accertamento
Rilevato
che in sede di giudizio di rinvio dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 20545/2015 (di annullamento della sentenza della Corte d’appello di Roma 24 giugno 2014, di reiezione del reclamo avverso la sentenza di primo grado che aveva rigettato, a norma dell’art. 1, comma 57 I. 92/2012, l’opposizione avverso l’ordinanza dello stesso tribunale di impugnazione di illegittimità del licenziamento disciplinare intimato da T.I. s.p.a. il 25 giugno 2013 a F.I.), con sentenza in data 15 marzo 2016, la stessa Corte capitolina dichiarava illegittimo il licenziamento e condannava la società datrice alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro e al pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio, di una somma pari a sei mensilità commisurate all’ultima retribuzione globale di fatto, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal recesso alla reintegrazione, oltre interessi legali: e ciò per l’accertata inesistenza del grave nocumento materiale o morale (in dipendenza dei comportamenti addebitati al lavoratore di inserimento sul sito Internet e sul profilo Facebook di un’impresa di ristorazione, e pertanto di diverso settore merceologico della datrice, dei numeri di telefono mobile e di fax assegnatigli dalla datrice, nonché dell’indicazione come cliente della stessa della propria impresa datrice), oggetto del giudizio di rinvio, integrante, secondo la statuizione in diritto vincolante della sentenza di legittimità rescindente, l’illecito disciplinare contestato, la cui mancanza determinante insussistenza del fatto contestato al lavoratore e pertanto elemento costitutivo del suo diritto al ripristino del rapporto di lavoro, a norma del novellato testo (ex art. 1, comma 42, lett. b) I. 92/2012) dell’art. 18, quarto comma I. 300/1970;
che avverso la sentenza la società ricorreva per cassazione con due motivi, cui il lavoratore resisteva con controricorso ;
che la società ha comunicato memoria ai sensi dell’art. 380bis1 c.p.c.;
Considerato
che la ricorrente deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 384 c.p.c., 1363, 2119 c.c., 48 CCNL telecomunicazioni, per mancata indagine sul significato della locuzione “grave nocumento morale o materiale”, anche alla luce delle diverse ipotesi di licenziamento senza preavviso stabilite dalla norma collettiva, così da dovere essere intesa non tanto sotto il profilo quantitativo ma piuttosto qualitativo, non limitabile al danno materiale, quanto piuttosto di un evento lesivo del vincolo di fiducia tra le parti (primo motivo); violazione o falsa applicazione degli artt. 384 c.p.c., 3 l. 604/1966, 18 I. 300/1970, per esclusione della convertibilità del licenziamento intimato per giusta causa individuata nella produzione di un “grave nocumento morale o materiale” in un licenziamento per giustificato motivo soggettivo, sull’erroneo presupposto dell’eccedenza dai limiti del giudizio di rinvio, di esclusivo accertamento dell’esistenza di un tale danno (secondo motivo);
che, in assorbente via pregiudiziale, occorre esaminare le sentenze (in particolare della Corte d’appello di Roma del 23 ottobre 2015 e di questa Corte del 26 giugno 2017, n. 15864) tra le stesse parti, allegate da T.I. s.p.a. alla memoria comunicata ai sensi dell’art. 380b/s1 c.p.c., per accertare l’eventuale formazione di un giudicato esterno tra le stesse in ordine all'(in)esistenza dell’unico rapporto di lavoro, sulla cui legittima cessazione o meno verte l’odierno giudizio;
che la garanzia di stabilità derivante dall’applicazione del giudicato esterno, ancorchè di formazione successiva, in quanto radicata sull’attuazione dei principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata (i quali escludono la legittimità di soluzioni interpretative volte a conferire rilievo a formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive) non trova ostacolo nel divieto posto dall’art. 372 c.p.c.: esso si riferisce infatti esclusivamente ai documenti che avrebbero potuto essere prodotti nel giudizio di merito, ma non si estende a quelli attestanti la successiva formazione del giudicato (comprovando, d’altronde, questi ultimi la sopravvenuta formazione di una regula iuris alla quale il giudice ha il dovere di conformarsi in relazione al caso concreto ed attenendo pertanto ad una circostanza che incide sullo stesso interesse delle parti alla decisione), pertanto correttamente riconducibili alla categoria dei documenti riguardanti l’ammissibilità del ricorso (Cass. s.u. 16 giugno 2006, n. 13916; Cass. 23 dicembre 2010, n. 26041; Cass. 21 maggio 2014, n. 11219);
che l’acquisizione delle suddette sentenze, consentita dalla sua ravvisata ammissibilità ben può avvenire, sia pure nella compiuta consumazione di un potere di rilevazione ad iniziativa della parte, in funzione dell’attivazione del potere officioso di questa Corte;
che in proposito giova richiamare il consolidato insegnamento di legittimità, secondo cui, nel giudizio di cassazione, l’esistenza del giudicato esterno sia, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata: trattandosi, infatti, di un elemento che non può essere incluso nel fatto (in tal caso, non potendo il principio trovare applicazione, posto che, essendo la sentenza passata in giudicato invocata al fine di dimostrare l’effettiva sussistenza o meno dei fatti, essa rileva per valutazioni di stretto merito: Cass. s.u. 2 febbraio 2017, n. 2735), in quanto, pur non identificandosi con gli elementi normativi astratti, è ad essi assimilabile, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto, e partecipando quindi della natura dei comandi giuridici, la cui interpretazione non si esaurisce in un giudizio di mero fatto; sicchè, il suo accertamento non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del ne bis in idem, corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo e consistente nell’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione (Cass. s.u. 16 giugno 2006, n. 13916; Cass. 23 dicembre 2010, n. 26041; Cass. 7 aprile 2009, n. 8379);
che inoltre è noto il principio per cui, qualora due giudizi tra le stesse parti si riferiscano al medesimo rapporto giuridico e uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo e il petitum del primo (Cass. 12 aprile 2010, n. 8650; Cass. 25 luglio 2016, n. 15339; Cass. 9 dicembre 2016, n. 25269);
che pertanto il giudice, al quale risulti l’esistenza di un tale giudicato, non è vincolato dalla posizione assunta dalle parti in giudizio, potendo procedere al suo rilievo e valutazione anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo (Cass. 27 luglio 2016, n. 15627; Cass. 3 aprile 2017, n. 8607);
che, procedendo allora all’esame delle citate sentenze, risulta come il (primo) licenziamento disciplinare intimato da T.I. s.p.a. il 31 luglio 2012 (dichiarato illegittimo con ordinanza 9 maggio 2013 del Tribunale di Roma e con sentenza dello stesso Tribunale dell’8 aprile 2015, di rigetto dell’opposizione datoriale avverso di essa: con la successiva reintegrazione nel posto di lavoro, in esecuzione dei suddetti provvedimenti giudiziali, di F.I. il 24 giugno 2013 ed immediato licenziamento il giorno successivo, con lettera del 25 giugno 2013, tempestivamente impugnato con instaurazione del giudizio pendente davanti a questa Corte) sia stato poi dichiarato legittimo dalla Corte d’appello di Roma con sentenza (di accoglimento del reclamo datoriale avverso la sentenza 8 aprile 2015 del Tribunale di Roma e conseguente rigetto dell’impugnazione del licenziamento del lavoratore) in data 23 ottobre 2015, la cui impugnazione di F.I. è stata respinta, da questa Corte con sentenza 26 giugno 2017, n. 15864;
che pertanto si è formato giudicato sulla legittima cessazione del rapporto di lavoro tra le parti in epoca anteriore (31 luglio 2012) a quella di intimazione del licenziamento (a seguito di ripristino dello stesso per reintegrazione del lavoratore), in data 25 giugno 2013, oggetto del presente giudizio;
che allora l’odierno ricorso di T.I. s.p.a. deve essere accolto, per le superiori assorbenti ragioni, con la cassazione della sentenza (della Corte d’appello di Roma in data 15 marzo 2016) impugnata e deciso nel merito, nel senso del rigetto della domanda di F.I.;
che la soccombenza del lavoratore, in dipendenza di sopravvenute ragioni estranee all’odierna controversia (per la formazione di un giudicato esterno preclusivo di una diversa soluzione), integra le “gravi ed eccezionali ragioni” giustificanti, a norma dell’art. 92, secondo comma c.p.c. nel testo applicabile ratione temporis, la compensazione tra le parti delle spese dell’intero processo;
P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza e, decidendo nel merito, rigetta la domanda del lavoratore; dichiara compensate tra le parti le spese dell’intero processo.
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