CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 giugno 2020, n. 12873
Risarcimento del danno per le patologie riconducibili all’attività lavorativa – Valutazione del nesso eziologico – Violazione o falsa applicazione di una norma di diritto – Presupposto – Mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata
Rilevato che
1. con sentenza n. 96, resa in data 3/6/20154, la Corte d’appello di Campobasso confermava la decisione del locale Tribunale che aveva accolto la domanda proposta da A.T., dipendente del Comune di Campobasso, ‘esecutore idraulico’, addetto a compiti di sorveglianza e manutenzione della stazione di sollevamento dell’acquedotto cittadino ed al controllo dei serbatoi, per ottenere il risarcimento del danno per le patologie (ipoacusia da rumore, angioneurosi alle mani) asseritamente riconducibili all’attività lavorativa;
nel giudizio di secondo grado si costituiva in giudizio M.P., quale erede di A.T.;
richiamava la Corte territoriale, quanto alla sussistenza del nesso eziologico, le risultanze della c.t.u. di primo grado rispetto alla quale il Comune appellante aveva rivolto critiche del tutto infondate;
riteneva che il danno fosse stato correttamente liquidato dal Tribunale sulla base delle tabelle di Milano;
2. avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Comune di Campobasso con un motivo;
3. M.P. ha resistito con controricorso successivamente illustrato da memoria;
Considerato che
1. Con l’unico motivo il Comune ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2967 cod. civ., difetto di motivazione ovvero insufficiente o contraddittoria nonché errata valutazione delle circostanze istruttorie;
censura la sentenza impugnata per aver prestato adesione alla decisione di primo grado sulla scorta di una c.t.u. che nella valutazione del nesso eziologico supponeva dati fattuali non corrispondenti a quelli accertati in corso di causa quanto agli elementi del rumore, dei carichi, del contatto con le sostanze chimiche, del microclima sfavorevole;
2. il motivo è inammissibile sotto vari profili;
2.1. sono innanzitutto denunciate promiscuamente sia violazioni di norme di diritto sia vizi motivazionali, senza che sia adeguatamente specificato quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile a vizi di così diversa natura lamentati, in tal modo non consentendo una sufficiente identificazione del devolutum e dando luogo alla convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, ‘di censure caratterizzate da … irredimibile eterogeneità’ (v. Cass., Sez. U., 24 luglio 2013, n. 17931; Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, n. 26242; Cass. 13 luglio 2016, n. 14317; Cass. 7 maggio 2018, n. 10862);
infatti il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, cod. proc. civ. ricorre o non ricorre per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto così come accertato dai giudici del merito, la norma, della cui esatta interpretazione non si controverte, non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata ‘male’ applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente sussumibile nella norma (v. Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007, n. 22348), sicché il sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti;
nei motivi in esame mal si comprende in quali sensi convivano i differenti vizi denunciati, articolati in una intricata commistione di elementi di fatto, riscontri di risultanze istruttorie, argomentazioni giuridiche, frammenti di sentenza impugnata, rendendo i motivi medesimi inammissibili per difetto di sufficiente specificità;
2.2. in ogni caso nella parte in cui il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. senza, però, censurare l’erronea applicazione da parte del giudice di merito della regola di giudizio fondata sull’onere della prova e dunque per avere attribuito l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata, il rilievo si colloca al di fuori del novero di quelli spendibili ex art. 360, co. 1, cod. proc. civ. perché, nonostante il richiamo normativo in esso contenuto, sostanzialmente sollecita una rivisitazione nel merito della vicenda (non consentita in sede di legittimità) affinché si fornisca un diverso apprezzamento delle prove (Cass., Sez. Un., 10 giugno 2016, n. 11892);
2.3. per il resto si osserva che, pur se al presente ricorso non si applica, l’art. 348-ter, comma 5, cod. proc. civ. – introdotto dall’art. 54, comma 1, lett. a) d.l. n. 83/2012, convertito in legge 7.8.2012 n. 134 – che vieta la proposizione del ricorso per cassazione in relazione all’art. 360, n. 5, stesso codice, in caso di doppia pronuncia conforme di merito (come avvenuto nel caso di specie), trattandosi di norma applicabile (ai sensi del comma 2, stesso cit. art. 54) solo ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore del d.l. n. 83 del 2012 (e cioè dopo l’11 settembre 2012), mentre nel caso di specie il giudizio d’appello era già pendente sin dal 18 luglio 2012 (v. Cass. 18 dicembre 2014, n. 26860; Cass. 11 maggio 2018, n. 11439), nondimeno le censure incontrano i ristretti limiti imposti dal novellato n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., così come rigorosamente interpretato da Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054, secondo cui non è più consentito denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia luogo, in realtà, ad una vera e propria violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4 cod. proc. civ. (ciò si verifica soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, di motivazione del tutto apparente, di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua contraddittorietà e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé, esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze probatorie);
nella specie l’iter logico seguito dalla Corte territoriale, fondato sulla condivisione delle argomentazioni espresse dal giudice di prime cure per avere “lo stesso operato una ricostruzione coerente con le risultanze processuali e il dato normativo” e sulla ritenuta infondatezza delle critiche dell’appellante alla c.t.u. (le cui risultanze sono state considerate esaurienti e persuasive oltre che immuni da vizi logici e giuridici), è invero del tutto percepibile e non presenta profili di contraddittorietà che possano far ipotizzare per tale via un difetto di motivazione rilevante ex art. 132, n. 4, cod. proc. civ.;
3. per le suesposte ragioni, il ricorso va dichiarato inammissibile;
4. l’onere delle spese del giudizio di legittimità resta a carico di parte ricorrente, in applicazione della regola generale della soccombenza;
5. sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
Dichiara l’inammissibilità del ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.500,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15% da corrispondersi all’avvocato G.B., antistatario.
Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 – bis, se dovuto.
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