CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 luglio 2022, n. 23371
Lavoro – Differenze retributive – Operatrice socioassistenziale – IPAB con natura di ente pubblico a valenza locale – Collaborazione coordinata e continuativa – Natura subordinata delle prestazioni – Accertamento – vizio di falsa applicazione di legge – violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. – vizio di omesso esame di un fatto decisivo – conoscibilità ‘ex officiò di un contratto collettivo
Rilevato che
1. con sentenza n. 482/2016 la Corte d’appello di L’Aquila, in riforma della decisione del Tribunale di Teramo, accoglieva per quanto di ragione l’impugnazione proposta da A. D. P. e condannava la C.d.R. “R. R.” ” al pagamento in favore dell’appellante delle differenze retributive e di t.f.r. in relazione alla categoria B e alla posizione economica B1 c.c.n.l. Regioni e Autonomie Locali con la corrispondente regolarizzazione contributiva e per il solo periodo successivo al 19.10.2004;
2. A. D. P. aveva agito in giudizio al fine di ottenere la declaratoria della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato invece che di collaborazione coordinata e continuativa in relazione ai contratti stipulati con la Casa di Risposo dal 1° gennaio 2001 al 31 dicembre 2002 e dal 6 marzo 2004 al 31 dicembre 2008;
3. il Tribunale, dopo aver qualificato la C.d.R. come ente pubblico, escludeva la natura subordinata delle prestazioni rese dalla D. P. evidenziando che l’attività era stata svolta in autonomia secondo le pattuizioni contrattuali;
4. la Corte territoriale condivideva la natura non privatistica della C.d.R. , eretta a ente morale e riconosciuta come IPAB la cui peculiarità non ne impediva la qualificazione come ente pubblico non economico;
rilevava che per le PA il ricorso alle forme flessibili ed alle collaborazioni esterne ex art. 2222 cod. civ., e quindi anche alle collaborazioni coordinate e continuative, è possibile solo per lo svolgimento di determinati servizi qualificati come temporanei e solo per prestazioni di elevata professionalità;
evidenziava che il Tribunale non aveva scrutinato la denunciata violazione dell’art. 7 del d.lgs. n. 165/2001 (e per le amministrazioni locali dell’art. 110 del d.lgs. n. 267/2000) nel conferimento del ‘servizio di assistenza agli anzianì conferito all’appellante e rilevava che la D. P. avesse sempre svolto mansioni semplici di operatrice socioassistenziale e cioè attività del tutto estranee a prestazioni di elevata professionalità contraddistinte da particolare autonomia oltre che temporanee;
riteneva che nel caso in esame non potesse dubitarsi della natura subordinata del rapporto in esame; rilevava che la D. P., come si evinceva dalla documentazione in atti e dalle dichiarazioni dei testi escussi, aveva ricevuto una retribuzione fissa a scadenze predeterminate con lo svolgimento sempre delle medesime mansioni semplici ed elementari di operatrice socio-assistenziale e con le stesse modalità, secondo turni che erano decisi dalle infermiere R. e C.;
evidenziava che la C.d.R. non aveva provato e neppure dedotto l’impossibilità di utilizzare risorse umane disponibili per l’espletamento delle stesse mansioni affidate alla D. P.;
riteneva integrata la denunciata violazione di legge;
escludeva la possibilità di costituire un rapporto a tempo indeterminato;
assumeva che la stipulazione di plurimi contratti flessibili di co.co.co. non pregiudicasse comunque il diritto alla retribuzione per le prestazioni di fatto svolte ex art. 2126 cod. civ.;
riteneva che la D. P. avesse diritto alle differenze retributive in applicazione non della posizione rivendicata (categoria C, posizione economica C4) ma della categoria B, posizione economica B1 del c.c.n.l. enti locali, risultando dagli atti lo svolgimento da parte della C.d.R. di attività prettamente assistenziale e non sanitaria, ciò solo per il periodo successivo al 19 ottobre 2004, stante l’accoglimento dell’eccezione di prescrizione;
6. avverso tale sentenza la C.d.R. ha proposto ricorso per cassazione affidato a undici motivi;
7. A. D. P. non ha svolto attività difensiva;
8. la ricorrente ha depositato memoria.
Considerato che
1. con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2126 cod. civ., dell’art. 7 d.lgs. n. 165/2001 e dell’art. 2094 cod. civ.;
censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che l’operatività dell’art. 2126 cod. civ. non fosse limitata ai rapporti di lavoro subordinato ma andasse estesa a tutte le prestazioni caratterizzate da eterodirezione, tra cui anche quelle cd. parasubordinate;
2. la censura va disattesa, sia pure previa parziale correzione della motivazione della sentenza impugnata;
un rapporto di lavoro formalmente sorto come collaborazione coordinata e continuativa ed affetto da nullità per vizio genetico può produrre effetti nei (soli) limiti indicati dall’art. 2126 cod. civ., applicabile anche alle Pubbliche Amministrazioni, qualora abbia, come nella specie, la sostanza di rapporto di lavoro subordinato (v. Cass. 8 febbraio 2017, n. 3384);
con l’art. 2126 cod. civ. il legislatore ha, infatti, voluto affermare che la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non possono pregiudicare la posizione del lavoratore, il quale vanta una serie di diritti connessi all’attività svolta, primo fra tutti quello a un’adeguata retribuzione e alla copertura previdenziale, in conformità ai principi sanciti dagli artt. 36 e 38 della Costituzione;
ed è la suddetta ratio di tutela che determina l’applicazione della disposizione anche nella ipotesi di un rapporto di lavoro subordinato de facto con un ente pubblico non economico, per i fini istituzionali dello stesso, in violazione delle disposizioni che regolano le assunzioni alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni (v. Cass. 21 novembre 2016, n. 23645; Cass. 3 febbraio 2012, n. 1639; Cass. 20 maggio 2008, n. 12749; v. anche Cass., Sez. Un., 19 maggio 2012, n. 8519; Cass., Sez. Un., 10 agosto 2009, n. 26829; Cass. 8 novembre 2016, n. 22669);
pertanto, l’accertamento in concreto della sussistenza di una fattispecie di lavoro subordinato, quantunque non dia luogo all’instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato, consente di ricondurre comunque il rapporto nell’alveo dell’art. 2126 cod. civ. (Cass. 18 aprile 2018, n. 9198);
se lo scopo della norma è quello di salvaguardare tutti gli effetti del rapporto di fatto in considerazione della irripetibilità della prestazione erogata, allora, in virtù del principio di corrispettività, la tutela in sede giudiziale deve essere ragguagliata al trattamento economico previsto per i dipendenti con funzioni analoghe, sia per l’aspetto retributivo sia per quello previdenziale;
così, nel caso in esame, avendo l’Ente attraverso la formale stipula di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa posto in realtà in essere, sotto altro nomen iuris, un rapporto di lavoro subordinato di fatto per il perseguimento dei propri fini istituzionali, il contratto è affetto da nullità per violazione di norma imperativa, essendo stato instaurato un rapporto con un datore di lavoro pubblico senza il superamento di alcun concorso;
opera, perciò, per il tempo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, il suddetto principio generale di cui all’art. 2126 cod. civ., per cui la lavoratrice ha diritto allo stesso trattamento che le sarebbe spettato in caso di contratto valido;
3. con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 d.lgs. n. 165/2001; errore nella individuazione della disposizione vigente ratione temporis (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.);
sostiene che la Corte territoriale abbia erroneamente ravvisato la violazione dell’art. 7, comma 6, del d.l.gs. n. 165/2001 in ragione del contrasto tra la fattispecie concreta e la normativa legislativa che, nella versione introdotta dall’art. 1, comma 147, della l. n. 228/2012, vigente dal successivo 1° gennaio 2013, introduceva una disciplina restrittiva per i contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa conferiti dalle pubbliche amministrazioni;
4. il motivo è infondato;
è vero che la Corte territoriale riporta in sentenza il testo della norma come modificato dopo alcuni dei fatti per cui è causa (e precisamente la versione del comma 6 quale risultante dalla sostituzione ad opera dell’articolo 32 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla l. 4 agosto 2006, n. 24);
in ogni caso, questa Corte ha già evidenziato che nella vigenza del testo originario dell’art. 7 del d.lgs. n. 165/2001, i contratti di collaborazione coordinata e continuativa stipulati dalla P.A. non risultavano esplicitamente disciplinati né dalla norma sopra indicata, riferibile alle sole prestazioni rese da “esperti di comprovata esperienza”, né dal d.lgs. n. 276/2003, per l’esclusione contenuta nell’art. 1, comma 2; solo a partire dal d.l. 4 luglio 2006 n. 223, convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, le collaborazioni, occasionali o continuative, sono state espressamente attratte nella sfera di applicabilità dell’art. 7 e gli interventi normativi succedutisi nel tempo hanno fissato condizioni oggettive e soggettive sempre più rigorose per il ricorso alla collaborazione esterna;
non vi è dubbio, peraltro, che nella vigenza dell’originario testo del d.lgs. n. 165/2001, gli artt. 35 e 36 consentissero il ricorso al lavoro subordinato, a tempo indeterminato o temporaneo, solo nel rispetto delle forme di reclutamento e dei presupposti richiesti dalla legge e dalla contrattazione collettiva in relazione alle diverse tipologie contrattuali, escludendo, pertanto, alla radice la possibilità per gli enti pubblici di avvalersi di contratti formalmente qualificati di lavoro autonomo per assicurarsi prestazioni da rendere, di fatto, in regime di subordinazione (v. Cass. 8 maggio 2018, n. 10951);
5. con il terzo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 cod. civ. in relazione alla distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato nonché vizio di sussunzione; motivazione apparente;
censura la sentenza impugnata per aver aderito a quell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in caso di prestazioni estremamente semplici, la subordinazione può essere ricavata da elementi sussidiari;
richiama altro orientamento in base al quale la prestazione lavorativa va comunque contestualizzata e non si può prescindere dall’accertamento dell’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro;
censura la sentenza impugnata là dove, pur avendo escluso espressamente la natura subordinata, ha ritenuto che l’eterodirezione giustifichi l’applicazione dell’art. 2126 cod. civ.;
6. il motivo è infondato;
la Corte territoriale, dopo aver rilevato, un vizio genetico del contratto ha accertato che, nello specifico, sussistevano tutti gli elementi per ritenere che il rapporto in questione si fosse atteggiato, in mancanza di un titolo legittimante, come rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dalla disponibilità della prestatrice nei confronti del datore, con assoggettamento al suo potere organizzativo, direttivo e disciplinare (sul punto v. infra), ed al conseguente inserimento della lavoratrice nell’organizzazione datoriale con prestazione delle sole energie lavorative corrispondenti ai fini istituzionali dell’Ente;
a tal fine ha desunto la subordinazione da plurimi elementi; così ha affermato che i contratti sottoscritti, formalmente di lavoro autonomo, non corrispondevano alle modalità di effettivo svolgimento del rapporto di lavoro, connotate, appunto, dalla subordinazione;
l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato è dipesa dunque dal principio (ex plurimis: Cass. 26 giugno 2020, n. 12871; Cass. 1° marzo 2018, n. 4884; Cass. 19 febbraio 2016, n. 3303) secondo cui la qualificazione come autonomo del rapporto di lavoro compiuta dalle parti nel contratto sottoscritto, in caso di contestazione, è soltanto uno degli indici cui il giudice deve attenersi per la classificazione, essendo prevalente l’indagine circa l’effettivo atteggiarsi del rapporto nel suo svolgimento, ove univocamente caratterizzato dalla subordinazione;
a tal fine la Corte territoriale, avvalendosi di indici di fatto già ripetutamente apprezzati da questa Corte di legittimità come sintomatici della subordinazione (cfr. Cass. 31 ottobre 2013, n. 24561; v. più di recente Cass. 10 novembre 2021, n. 33041), ha valorizzato gli elementi della messa a disposizione delle energie lavorative in favore dell’Ente che le ha utilizzate a proprio vantaggio, dell’effettivo inserimento della lavoratrice nell’organizzazione della C.d.R. ricavato, in particolare, dalla necessità di rispettare un piano di lavoro articolato in turni predisposti dall’ente (di mattina, dalle ore 7.30 alle ore 12.30 e di pomeriggio dalle ore 16.30 alle ore 19.30), dall’avvenuta corresponsione di una retribuzione fissa a scadenze predeterminate;
il tutto in un contesto di semplici ed elementari mansioni di operatrice socioassistenziale, legate ai servizi alla persona, ripetitive e predeterminate nelle loro modalità operativo-esecutive, rispetto alle quali, peraltro, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo e disciplinare ben può avere un limitato spazio d’azione, dovuto proprio alla standardizzazione delle mansioni;
quanto a tale tipologia di mansioni questa Corte ha affermato che, in caso di prestazioni elementari e ripetitive (come nella specie, alla stregua degli accertamenti compiuti), il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare significativo, occorrendo fare ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore, senza che rilevi, di per sé, l’assenza di un potere disciplinare, né quella di un potere direttivo esercitato in modo continuativo (v. tra le più recenti Cass. 20 gennaio 2022, n. 1809; Cass. 6 luglio 2021, n.19144; Cass. 27 giugno 2019, n. 17384; Cass.11 ottobre 2017, n. 23843; si veda anche Cass. 19 aprile 2010, n. 9251); è stato altresì affermato che la prestazione di attività lavorativa onerosa all’interno dei locali dell’azienda, con materiali ed attrezzature proprie della stessa e con modalità tipologiche proprie di un lavoratore subordinato, in relazione alle caratteristiche delle mansioni svolte, comporta una presunzione di subordinazione, che è onere del datore di lavoro vincere (v. Cass. 6 settembre 2007, n. 18692, ripresa dalla sopra citata Cass. n. 1809/2022); ed allora non vi è stato alcun vizio di sussunzione;
si ricorda che il vizio di falsa applicazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (v. tra le più recenti Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110);
è, dunque, inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa;
peraltro, a ben guardare, la ricorrente lamenta in realtà una insufficienza della motivazione (e lo fa anche argomentando dal confronto con la decisione del Tribunale di Teramo che assume avesse puntualmente indicato gli indici rilevatori della subordinazione ed escluso che nella fattispecie ve ne fosse riscontro), non più deducibile ai sensi del vigente art. 360, n. 5, cod. proc. civ.;
7. con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 cod. civ. e dell’art. 2697 cod. civ., omesso esame del regolamento contrattuale e delle sue conseguenze in punto di onere della prova (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.); assume che la sentenza di appello, pur dando atto della intervenuta stipulazione fra le parti di plurimi contratti flessibili di co.co.co., ha omesso di valutarne il contenuto e non ha tenuto in alcun conto la volontà manifestata dai contraenti;
8. il motivo è infondato;
non è vero che la Corte territoriale non ha tenuto conto della volontà espressa dai contraenti perché l’ha ritenuta implicitamente sconfessata dagli elementi fattuali sopra specificati evidenziando che la prestazione resa in favore di un ente pubblico non economico, in forza di un contratto formalmente qualificato di collaborazione autonoma, aveva, di fatto, assunto i caratteri della subordinazione, sulla base di indici sintomatici quali la continuità della prestazione lavorativa, l’inserimento della lavoratrice nell’organizzazione datoriale (si veda il riferimento ai turni);
in sostanza, la Corte territoriale ha ritenuto che l’Ente avesse posto in essere, sotto altro nomen iuris, un rapporto di lavoro subordinato (secondo i criteri sopra delineati) così da modificare l’originario assetto contrattuale;
9. con il quinto motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 116 cod. proc civ. sotto il profilo del travisamento della prova;
deduce che l’affermazione della Corte territoriale secondo cui la D. P. ha svolto sempre le medesimi, semplici ed elementari, mansioni di operatore socio assistenziale addetta al servizio anziani è smentita da tutte le testimonianze (e così da quelle di T. R., C. M., M. D. G.) secondo cui la D. P. lavorava in infermeria e svolgeva compiti di ausilio alle infermiere, mentre non si occupava dell’assistenza agli anziani e, quindi, svolgeva attività che non erano né semplici né elementari;
rileva che la Corte ha travisato il contenuto della prova orale, così interrompendo il nesso causale che deve sussistere tra il fatto probatorio ed il fatto accertato rendendo in tal modo ha reso carenti i requisiti strutturali minimi dell’argomentazione e realizzando la violazione o falsa applicazione delle regole che presidiano la valutazione delle prove ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ.;
10. il motivo è infondato;
è pur vero che questa Corte ha affermato che, in tema di ricorso per cassazione, può essere dedotta la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. qualora il giudice, in contraddizione con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove inesistenti e, cioè, sia quando la motivazione si basi su mezzi di prova mai acquisiti al giudizio, sia quando da una fonte di prova sia stata tratta un’informazione che è impossibile ricondurre a tale mezzo, a condizione che il ricorrente assolva al duplice onere di prospettare l’assoluta impossibilità logica di ricavare dagli elementi probatori acquisiti i contenuti informativi individuati dal giudice e di specificare come la sottrazione al giudizio di detti contenuti avrebbe condotto a una decisione diversa, non già in termini di mera probabilità, bensì di assoluta certezza (Cass. 26 aprile 2022, n. 12971; Cass. 4 marzo 2022, n. 7187; Cass. 24 ottobre 2018, n. 27033);
tuttavia, l’ipotesi suddetta è diversa dall’errore nella valutazione dei mezzi di prova – non censurabile in sede di legittimità – che attiene alla selezione da parte del giudice di merito di una specifica informazione tra quelle astrattamente ricavabili dal mezzo assunto;
nella specie la Corte territoriale ha tratto dal contenuto della documentazione esaminata oltre che dal complesso delle deposizioni testimoniali che la D. P. avesse sempre prestato il medesimo servizio “assistente anziani” e svolgendo sempre mansioni semplici ed elementari;
ed allora si verte in una ipotesi che attiene alla selezione da parte del giudice di merito di una specifica informazione tra quelle astrattamente ricavabili dai mezzi assunti senza che sussista una assoluta impossibilità logica di ricavare dagli elementi probatori acquisiti i contenuti informativi individuati dal giudice;
peraltro, la ricorrente, che ha rimesso a questa Corte la rivalutazione dei verbali di assunzione delle prove testimoniali, non ha prospettato l’assoluta impossibilità logica di ricavare dagli elementi probatori acquisiti i contenuti informativi individuati dal giudice e di specificare come la sottrazione al giudizio di detti contenuti avrebbe condotto a una decisione diversa, non già in termini di mera probabilità, bensì di assoluta certezza;
non si verte, pertanto, in una ipotesi di travisamento della prova, ma di diversa ricostruzione della vicenda in punto di fatto;
11. con il sesto motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 116 cod. proc civ. per omesso esame di un fatto decisivo;
sostiene che sia stato del tutto omesso l’esame dei principali indici (potere direttivo, disciplinare e di controllo);
12. il motivo è infondato;
la sentenza, pur nella sua sinteticità, ha esaminato gli indici della subordinazione come sopra ricordati;
non può dirsi, allora, che vi sia stato omesso esame dovendosi ricordare che, a seguito della modifica del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., disposizione che deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, è deducibile solo il vizio di omesso esame di un fatto decisivo che sia stato oggetto di discussione tra le parti con la conseguenza che il controllo della motivazione è stato confinato sub specie nullitatis, in relazione al n. 4 dell’art. 360 cod. proc. civ. il quale, a sua volta, ricorre solo nel caso di una sostanziale carenza del requisito di cui all’art. 132, n. 4, cod. proc. civ., configurabile solo nel caso di ‘mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054);
di conseguenza, anche per questo verso, le censure mosse dalla ricorrente sono inaccoglibili, atteso che la Corte territoriale ha spiegato, con motivazione completa nella sua sinteticità e niente affatto perplessa, le ragioni della decisione nel senso della sussistenza tra le parti di un rapporto avente le caratteristiche della subordinazione;
in ogni caso, come già evidenziato al punto sub 6. che precede, con riferimento all’espletamento di mansioni elementari e ripetitive, l’assenza di un potere disciplinare come tradizionalmente inteso non può, di per sé, comportare la negazione del vincolo di subordinazione così come non si richiede l’esercizio di un potere direttivo in modo continuativo;
nel caso in esame, peraltro, la Corte territoriale ha ravvisato una traccia potenziale dell’assoggettamento al potere disciplinare nell’esistenza di preventive regole di comportamento (si veda la necessità di rispettare i turni predisposti dall’Ente), evidentemente significative dell’implicita attribuzione al datore di lavoro del potere di indurne l’applicazione;
13. con il settimo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 414 e 416 cod. proc. civ.;
deduce la nullità della sentenza per omessa pronuncia sulle contestazioni ai conteggi già svolte in primo grado e reiterate in appello;
sostiene che la sentenza impugnata ha omesso di pronunciarsi sulle specifiche contestazioni rivolte dalla C.d.R. ai conteggi sindacali ed alle pretese economiche della lavoratrice;
richiama le pagine da 16 a 19 della memoria difensiva di primo grado del novembre 2011 e deduce di aver poi reiterato le censure alle pagine da 11 a 14 della memoria difensiva dell’aprile 2015 in sede di appello;
14. il motivo non è fondato;
innanzitutto, non può invocarsi la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. laddove, come nella specie, quella asseritamente pretermessa è stata una mera difesa e non un’eccezione in senso tecnico in quanto afferente all’allegazione o rilevazione di fatti estintivi, modificativi o impeditivi del diritto dedotto in giudizio;
poi, al di là delle contestazioni della C.d.R. , la Corte territoriale, lungi dal recepire acriticamente un conteggio predisposto dalla lavoratrice, si è limitata ad indicare, nella pronuncia di condanna generica, la categoria (B) e la posizione economica (B1) del c.c.n.l. di riferimento rispetto a cui calcolare le differenze retributive per il solo periodo successivo al 19.10.2004 (in accoglimento dell’eccezione di prescrizione formulata dalla appellata);
15. con l’ottavo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e la nullità della sentenza;
censura la sentenza impugnata sotto il profilo dell’omessa pronuncia in ordine alle eccezioni formulate circa la durata temporale dell’attività e la mancata allegazione del c.c.n.l.;
16. il motivo è inammissibile come il precedente trattandosi anche in questo caso di mere difese;
né il rilievo, che è strutturato con la mera trascrizione del contenuto della memoria difensiva di cui al giudizio di primo grado, consente di enucleare una deduzione sostanziale di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio quanto ai rilievi, asseritamente pretermessi, concernenti la durata oraria giornaliera delle attività;
in ogni caso, si tratterebbe di circostanze attinenti al merito della causa e, comunque, dal complessivo argomentare della Corte territoriale si evince una prestazione ordinariamente resa secondo turni, non diversamente da quella del personale dipendente;
per il resto, la stessa ricorrente ammette peraltro (pag. 48 del ricorso) che la lavoratrice aveva prodotto stralci delle declaratorie contrattuali relative alle categorie di inquadramento;
in ogni caso va richiamato il principio già affermato da questa Corte secondo cui la conoscibilità ‘ex officiò di un contratto collettivo si atteggia diversamente a seconda che si versi in un’ipotesi di violazione del contratto collettivo nazionale di lavoro privatistico o di un contratto collettivo nazionale del pubblico impiego, atteso che, mentre nel primo caso il contratto è conoscibile solo con la collaborazione delle parti, la cui iniziativa, sostanziandosi nell’adempimento di un onere di allegazione e produzione, è assoggettata alle regole processuali sulla distribuzione dell’onere della prova e sul contraddittorio (che non vengono meno neppure nell’ipotesi di acquisizione giudiziale ex art. 425, comma 4, cod. proc. civ.), nel secondo caso il giudice procede con mezzi propri, secondo il principio “iura novit curia” (v. tra le più recenti, Cass. 5 marzo 2019, n. 6394);
17. con il nono motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., vizio di ultrapetizione, nullità della sentenza in parte qua (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.);
censura la sentenza applicata per aver riconosciuto differenza retributive in applicazione di una posizione economica inferiore a quella rivendicata e senza alcuna domanda subordinata in tale senso;
18. il motivo è infondato;
è stato da questa Corte già affermato che non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice del merito che riconosca il diritto del lavoratore ad essere inquadrato, anziché nella qualifica richiesta, in una qualifica diversa ed inferiore, ma pur sempre superiore alla qualifica attribuita dal datore di lavoro, trattandosi di domanda implicitamente inclusa in quella proposta, purché vi sia la corrispondente prospettazione degli elementi di fatto e, segnatamente, della declaratoria contrattuale che sorregga la qualifica intermedia tra quella posseduta dal lavoratore e quella oggetto di esplicita domanda giudiziale (Cass. 4 luglio 2007, n. 15053);
il principio non può che valere, evidentemente, anche nell’ipotesi di riconoscimento delle differenze retributive quando, come nella specie, l’inquadramento non sia possibile;
19. con il decimo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 346 cod. proc. civ. in relazione all’affermazione secondo la quale l’Ente appellato non avrebbe adeguatamente contestato la natura pubblica dell’Ente appellato;
20. la censura è irrilevante considerato che la Corte territoriale ha comunque offerto della C.d.R. una propria valutazione in termini di ente pubblico, ricalcando quella del Tribunale;
21. con l’undicesimo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per omessa pronuncia sulla natura di ente pubblico economico della C.d.R.;
22. il motivo è infondato;
non c’è stata alcuna omessa pronuncia come evidenziato al punto che precede; quanto alla documentazione asseritamente non esaminata si tratta di censura attinente al merito e come tale inammissibile;
peraltro, la Corte territoriale, richiamando la motivazione del Tribunale ha, di fatto, ritenuto irrilevante tale documentazione valorizzando la circostanza che trattasi di ente non avente natura religiosa, che provvede ai propri bisogni con i contributi della Regione, che la natura di ente pubblico a valenza locale assoggettato alla disciplina pubblicistica si evince dall’attestato della Regione Abruzzo versato in atti dall’appellante;
il ragionamento è corretto;
infatti, in data 16 febbraio 1990, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha emesso un decreto, contenente la direttiva alle Regioni in materia di riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato alle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza a carattere regionale ed infraregionale (G.U. n. 45 del 23.2.1990);
nel preambolo del decreto, si faceva espresso riferimento, non soltanto alla sentenza della Corte costituzionale n. 396 del 1988 ed al d.P.R. n. 616 del 1977, art. 14, riguardante la delega alle Regioni delle funzioni amministrative degli organi dello Stato concernenti le persone giuridiche di cui all’art. 12 cod. civ., operanti in materia di assistenza e beneficenza pubblica, ma anche all’esistenza di principi generali dell’ordinamento, che consentivano di qualificare come pubblica o privata un’istituzione;
enucleando da tali principi criteri specifici, il decreto ha stabilito tre categorie di enti, dei quali doveva essere riconosciuto il carattere di istituzione privata: 1) gli enti a struttura associativa, per la cui sussistenza debbono ricorrere congiuntamente i seguenti requisiti: a) costituzione dell’ente per iniziativa volontaria dei soci o di promotori privati;
b) esistenza di disposizioni statutarie che attribuiscano ai soci un ruolo qualificante nel governo e nell’amministrazione dell’ente, nel senso che i soci provvedano alla elezione di una quota significativa dei componenti dell’organo collegiale deliberante; c) esplicazione dell’attività dell’ente anche sulla base delle prestazioni volontarie dei soci; 2) quelli promossi ed amministrati da privati, anche questi subordinati alla compresenza di tre requisiti: a) atto costitutivo o tavola di fondazione posti in essere da privati; b) esistenza di disposizioni statutarie che prescrivano la designazione, da parte di associazioni o di soggetti privati, di una quota significativa dei componenti dell’organo deliberante; c) che il patrimonio risulti prevalentemente costituito da beni risultanti dalla dotazione originaria o dagli incrementi e trasformazioni della stessa, ovvero da beni conseguiti in forza dello svolgimento dell’attività istituzionale; 3) infine, gli enti di ispirazione religiosa;
nel caso in esame, deve ritenersi non sussistente la natura privatistica dell’Ente convenuto;
in particolare, la C.d.R. non ha carattere associativo, in quanto, come evidenziato in sentenza sulla base del contenuto dell’attestazione della Regione Abruzzo, “ha natura di ente pubblico a valenza locale”, è stato eretto ad ente morale con R.D. 19.3.1914 e riconosciuta dalla legge 17.7.1890 n. 6972 come Istituzione Pubblica di Assistenza e Beneficenza; non ha natura religiosa e provvede ai propri bisogni con contributi della Regione, è assoggettato alla disciplina pubblicistica;
23. da tanto consegue che il ricorso deve essere rigettato;
24. nulla va disposto in ordine alle spese, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva;
25. occorre dare atto, ai fini e per gli effetti indicati da Cass., Sez. Un., n. 4315/2020, della sussistenza delle condizioni processuali richieste dall’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.