CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 maggio 2020, n. 9778
Risarcimento del danno non patrimoniale alla professionalità – Demansionamento – Inammissibile il frazionamento della tutela giurisdizionale con la proposizione di più domande – Sindacato in sede di legittimità – Mancata indicazione del giudice di merito dei criteri per determinare l’entità del danno
Rilevato che
1. La Corte di appello di Salerno, in parziale accoglimento del ricorso proposto da C.G., confermata nel resto la sentenza del Tribunale della stessa città, ha condannato T.I. s.p.a. a corrispondergli la somma di € 20.000,00 oltre accessori dovuti per legge a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale alla professionalità patito per effetto del demansionamento protrattosi dal 18.4.2002 in poi.
2. La Corte di merito ha rammentato che con sentenza della Cassazione n. 5801 del 2015 era divenuta definitiva la sentenza che aveva accertato il demansionamento del lavoratore ed aveva liquidato equitativamente il danno per l’effetto subito.
2.1. Ha evidenziato che la Cassazione aveva chiarito che in presenza di un danno derivante da un unico fatto illecito già verificatosi nella sua completezza non era ammissibile il frazionamento della tutela giurisdizionale con la proposizione di più domande neppure mediante riserva di far valere ulteriori e diverse voci di danno in altro procedimento.
2.2. Ha poi accertato che il fatto generatore del danno era l’ulteriore demansionamento sofferto dopo l’aprile del 2002 e sino alla data del deposito del ricorso in relazione al quale il G. aveva reclamato anche il risarcimento del danno alla professionalità sofferto dal 2000 in poi ed aveva chiesto che venisse accertato e liquidato anche il danno morale, biologico,da mobbing e da perdita di chance (quantificati rispettivamente, nel 35% delle retribuzioni medio tempore maturate, in € 15.000,00 in relazione alla diffusione di dati sensibili, € 100.000,00 per il danno da mobbing e, per la perdita di chance nella differenza tra la retribuzione di V livello percepita e quella di VI che avrebbe potuto conseguire).
2.3. Pur ritenuta ammissibile la domanda complessivamente proposta, tuttavia la Corte ha rigettato quella intesa ad accertare l’esistenza di un ulteriore demansionamento dal 2002 al deposito del ricorso con obbligo della T. di assegnarlo a mansioni corrispondenti a quelle descritte nel sesto livello del c.c.n.l. osservando che le stesse erano coperte dal giudicato già formatosi nel precedente giudizio. Ha respinto la domanda di risarcimento del danno biologico essendo stata esclusa dalla consulenza disposta in giudizio l’esistenza di un nesso causale tra i disturbi accertati ed il demansionamento denunciato.
2.4. Ha del pari rigettato la domanda di risarcimento del danno conseguente alla diffusione di dati sensibili osservando che non erano state allegate concrete situazioni di disagio, imbarazzo e timore quale conseguenza della diffusione di informlioni relaative alla sua salute.
2.5. Ha accolto invece la domanda di condanna al risarcimento del danno alla professionalità sul rilievo che era incontestata la sua rimozione dall’incarico senza motivo e la protratta inattività alla quale era stato costretto e tenuto conto della durata della vicenda che aveva coinvolto il G. del tempo necessario ad acquisire nuove professionalità, dell’elevazione professionale, dell’età relativamente giovane del lavoratore all’epoca dei fatti e della mancata considerazione delle limitazioni fisiche, note all’azienda, di cui era portatore ha liquidato in complessivi € 20.000,00 il danno riportato (€ 4.000,00 per ogni anno di demansionamento).
2.6. Ha escluso infine che vi fosse la prova di altri danni risarcibili in relazione al mobbing denunciato, mancando la prova di un intento persecutorio in capo alla datrice di lavoro.
3. Per la cassazione della sentenza propone ricorso C.G. affidato a due motivi. Resiste con controricorso T.I. s.p.a..
La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis 1 cod. proc.civ..
Considerato che
4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione degli artt. 2043 e ss. Cod. civ ed in particolare dell’art. 2056 in relazione agli artt. 2059 e 1223 e ss. cod. civ., 1226 cod. civ., 420 e 345 cod. proc. civ. e di ogni altra norma in materia di determinazione del danno anche in via equitativa nel caso di demansionamento e di violazione dei diritti di dignità del lavoratore.
4.1. Sostiene il ricorrente che – pur condividendo la sentenza nella parte in cui ha accertato l’esistenza del diritto del lavoratore al risarcimento del danno conseguente al demansionamento intervenuto nel periodo successivo a quello oggetto del suo primo ricorso – per quanto concerne la liquidazione del danno (€ 4000,00 per ciascun anno di attività) sarebbe stato necessario, in adesione alla giurisprudenza della Cassazione, utilizzare come parametro la retribuzione annua percepita percentualmente ridotta tenuto conto dell’importanza dell’inadempimento.
4.2. Osserva il G. che la Corte di merito si sarebbe discostata da tale percorso trascurando di esplicitare la ragione in base alla quale è pervenuta alla quantificazione del danno non avendo dato conto della gravità dell’inadempimento, sia sotto il profilo della sua durata che per quanto riguarda le mansioni assegnate anche in relazione alle condizioni di salute del lavoratore e degli ulteriori riflessi della condotta sull’equilibrio psico fisico dello stesso.
5. Il motivo non può essere accolto.
5.1. La liquidazione equitativa, anche nella sua forma cd. “pura”, consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, sicché, pur nell’esercizio di un potere di carattere discrezionale, il giudice è chiamato a dare conto, in motivazione, del peso specifico attribuito ad ognuno di essi, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento (cfr. Cass. 13/09/2018 n. 22272). Nell’ambito del danno da demansionamento è sindacabile in sede di legittimità, come violazione dell’art. 1226 cod.civ. e, nel contempo, come ipotesi di assenza di motivazione, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, quando la valutazione del giudice di merito non abbia indicato, nemmeno sommariamente, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al “quantum” (cfr. Cass. 20/06/2019 n. 16595). Ove tuttavia, come nella specie, la Corte territoriale dimostri, dandone specificatamente atto, di aver tenuto conto di una serie ben individuata di criteri parametrici che ne hanno guidato l’individuazione della misura del danno (nello specifico la durata del demansionamento, il tempo necessario ad acquisire nuove professionalità, le prospettive di carriera e di elevazione professionale, i disagi connessi alla mancata considerazione delle condizioni fisiche del lavoratore) deve escludersi che sia incorsa nella denunciata violazione dell’art. 1226 cod. civ. o in un vizio motivazionale ammissibile alla luce del tenore dell’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ. nel testo novellato dalla legge n. 134 del 2012.
6. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per aver il giudice di appello limitato la condanna ai danni da dequalificazione maturati alla data del deposito del ricorso (2009) sebbene ne fosse stata chiesta la liquidazione all’attualità nel perdurante inadempimento della società e senza considerare che, semmai, era onere di quest’ultima allegare e dimostrare che l’inadempimento era cessato. Evidenzia inoltre che in corso di causa era stato prodotto un documento dal quale risultava che solo il 13.6.2011 al G. era stato assegnato a nuove mansioni impiegatizie e che perciò quanto meno fino a quel momento doveva essergli liquidato il danno così come del pari era dovuto quello per il periodo dal 2002 al 2004 che, erroneamente, era stato ritenuto coperto dal giudicato.
7. Anche tale motivo non può essere accolto.
7.1. La censura, in violazione dell’art. 366 primo comma n. 6 e 369 secondo comma n. 4, non è sufficientemente specifica poiché trascura di riportare il contenuto esatto della domanda avanzata nel primo ricorso di primo ricorso e quella del ricorso introduttivo della lite del presente giudizio.
7.2. Affinché possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronunzia, ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ., è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, “in primis”, la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi. Ove, quindi, si deduca la violazione, nel giudizio di merito, del citato art. 112 cod. proc. civ., riconducibile alla prospettazione di un’ipotesi di “error in procedendo” per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del “fatto processuale”, detto vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all’adempimento da parte del ricorrente – per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio “per relationem” agli atti della fase di merito – dell’onere di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca, ma solo ad una verifica degli stessi (cfr. Cass. 04/07/2014 n. 15367).
8. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 4000,00 per compensi professionali, €200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
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