CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 marzo 2019, n. 8390
Licenziamento – Reintegrazione nel posto di lavoro – Quantificazione del danno – Retribuzioni calcolate dal licenziamento fino al pensionamento
Rilevato
che, con la sentenza n. 370 del 2017, la Corte di appello di Messina, decidendo quale giudice di rinvio disposto dalla Corte di cassazione, in riforma della pronuncia del Tribunale di Catania del 13.1.2009, ha accolto la domanda proposta da L. V. e, per l’effetto, ha annullato il licenziamento intimato con atto del 20.6.2005, dichiarando il diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro e condannando U. spa alla corresponsione dell’importo di euro 139.307,00 per le retribuzioni calcolate dal licenziamento fino al pensionamento, nonché al pagamento dei contributi previdenziali e assicurativi, oltre accessori;
che avverso tale decisione di seconde cure ha proposto ricorso per cassazione la U. spa affidato a sei motivi, illustrati con memoria; che l’intimato non ha svolto attività difensiva, ma ha depositato memoria ex art. 380 bis 1 cpc; che il P.G. non ha formulato richieste scritte.
Considerato
che, con il ricorso per cassazione, in sintesi, si censura: 1) la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cpc, 2119 cc, dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, ai sensi dell’art. 360 c. 1 n. 3 cpc, nonché l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ai sensi dell’art. 360 c. 1 n. 5 cpc, per avere erroneamente la Corte di merito escluso che non fosse stato oggetto di contestazione anche il comportamento, pure accertato in sede penale, di minaccia grave in danno di terzo (la vittima del successivo omicidio), oltre alla violazione degli obblighi di informazione previsti contrattualmente e prevista giusta i principi generali governanti il rapporto di lavoro; 2) la violazione degli artt. 2119 cc, della legge n. 604 del 1966, dell’art. 1 della legge n. 300 del 1970, dell’art. 18 della stessa legge, degli artt. 112, 115 e 116 cpc, ai sensi dell’art. 360 c. 1 n. 3 cpc, per avere la Corte di merito, immotivatamente, ponendosi in aperto contrasto con gli standards morali della nostra società e omettendo di tenere conto della sintomaticità del portamento del V. e della particolare delicatezza del settore in cui operava, escluso la rilevanza e l’idoneità a giustificare il licenziamento, della vicenda penale nel suo complesso e, in particolare, della condanna definitiva per il reato di minacce gravi in danno della vittima del successivo omicidio; 3) la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 per avere la Corte territoriale erroneamente disposto la reintegra del V. nel posto di lavoro, nonostante il superamento del limite massimo di età lavorativa; 4) la violazione dell’art. 437 cpc, in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 e n. 4 cpc, per avere erroneamente la Corte di appello, a fronte di una richiesta generica di condanna avanzata dal V., proceduto ad una liquidazione di un importo ben specificato solo per la prima volta in sede di rinvio dalla cassazione e che, pertanto, non avrebbe potuto essere contestato; 5) la violazione dell’art. 112 cpc, in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 4 cpc, per essere stata disposta dai giudici di seconde cure la rideterminazione del trattamento pensionistico riconosciuto al V., pur in assenza di domanda ritualmente dedotta e proposta dal ricorrente nei propri scritti difensivi; 6) la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, per essere stata dalla Corte di merito erroneamente fatta rientrare nel risarcimento del danno conseguente al licenziamento dichiarato illegittimo, anche la condanna del datore di lavoro alla rideterminazione del trattamento pensionistico spettante al V., quale presunta conseguenza della diversa e maggiore durata del rapporto di lavoro e, dunque, dei riflessi di tale maggiore durata sulla pensione spettante al dipendente reintegrato;
che, preliminarmente, va respinta l’eccezione di invalidità della notifica del ricorso per cassazione, sollevata dal V. con la memoria ex art. 380 bis 1 cpc, non ravvisandosi alcuna irregolarità, determinante incertezza, tra l’indirizzo riportato nella relata di notifica “V. L. e per esso ai suoi difensori nel grado di appello Avv. C.G.C. C. e Avv. M.L. nel domicilio eletto nello studio della prima in Messina al Viale (…)” e quello indicato nella ricevuta di accettazione “V. L. e per esso ai suoi difensori Avv. C.G.C. C. e Avv. M.L. nel domicilio eletto nello studio della prima in Messina Viale Italia n. 62”, essendo le due dizioni sostanzialmente conformi e non avendo nulla al riguardo segnalato l’Ufficiale Postale notificante;
che il primo e secondo motivo, congiuntamente esaminabili in ragione della intima connessione delle questioni dedotte, sono infondati.
In primo luogo, va sottolineato che la Corte di merito, a pag. 8 della gravata sentenza, ha espressamente affermato che “tale ultimo comportamento” (e cioè la accertata responsabilità per il reato di minaccia grave in danno di un terzi, estraneo al rapporto di lavoro), secondo il pronunciamento della Corte di Cassazione, poteva ritenersi compreso nell’atto di contestazione, ma non era sufficiente a configurare un illecito disciplinare di gravità tale da ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario.
La condotta extra-lavorativa, quindi, che ha determinato una pronuncia in sede penale di condanna per minaccia grave, è stata considerata oggetto dell’atto di contestazione e valutata dalla Corte di merito, non incorrendo, pertanto, nel denunciato vizio di omesso esame.
In secondo luogo, quanto alle dedotte violazioni di legge, deve preliminarmente darsi atto che le censure sono state correttamente poste sotto il profilo della sussunzione della fattispecie concreta nella clausola elastica della giusta causa (e non di contestazione dell’operazione di accertamento in fatto compiuta dal giudice di merito) secondo gli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale, con riguardo al parametro della pertinenza e della non coerenza del giudizio operato, in quanto specificazioni del parametro normativo avente natura giuridica e del conseguente controllo nomofilattico di questa Corte (cfr. Cass. 26.4.2012 n. 6498; Cass. 2.3.2011 n. 5095; Cass. 15.4.2016 n. 7568).
Orbene nella specie, a parere del Collegio, i giudici del merito con una motivazione logica hanno operato una corretta valutazione del comportamento extra-lavorativo, tenuto dal lavoratore nei confronti di soggetti terzi, nel senso che lo stesso non abbia avuto influenza sulla valutazione da parte datoriale della capacità del lavoratore di assolvere alla sua prestazione lavorativa.
Invero, la minaccia pronunciata fuori dall’ambiente lavorativo e nei confronti di soggetti estranei ha una valenza diversa, nell’accertamento della lesione irreparabile del vincolo fiduciario, rispetto a quella proferita nei confronti del datore di lavoro o in ambito lavorativo, perché non incide intrinsecamente sugli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione cui è tenuto il dipendente nei confronti di un suo superiore.
Essa, infatti, quando – come nel caso de quo – non risulti avere un riflesso sulla funzionalità del rapporto e non abbia compromesso le aspettative di un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, non si rivela incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario al quale il rapporto di lavoro stesso si fonda né si manifesta come una condotta gravemente lesiva delle norme dell’etica e del vivere civile tale da costituire giusta causa di licenziamento. Correttamente, quindi, il comportamento del V. è stato ritenuto non idoneo a ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da compromettere il rapporto di lavoro secondo gli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale; che il terzo motivo non merita accoglimento: effettivamente i principi giurisprudenziali richiamati dalla Corte territoriale (Cass. 20.3.2009 n. 6906 cui è seguito Cass. 19.6.2018 n. 16136) non sono pertinenti perché riguardano l’ipotesi del conseguimento della pensione di anzianità, da parte del lavoratore illegittimamente licenziato, quale causa non ostativa alla reintegrazione nel posto di lavoro, e non della pensione di vecchiaia, come invece è accaduto per il V. Tuttavia, la ratio decidendi della gravata pronuncia è tutta articolata nel senso di avere considerato tale evento, tanto è che nel dispositivo è stato dichiarato “il diritto” alla reintegrazione e non l’ordine di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro; inoltre, anche il disposto risarcimento dei danni, come in seguito sarà precisato, ha avuto riguardo a tale fatto di talché la decisione deve essere interpretata nel senso di avere riconosciuto il diritto del lavoratore all’epoca della proposizione della domanda ma non alla sua attualità. Del resto, non è stata prospettata dalla ricorrente, ed anzi è stata negata espressamente dal V. con la memoria ex art. 380 bis 1 cpc, la presentazione di una richiesta di riassunzione in servizio ormai anacronistica;
che il quarto, quinto e sesto motivo, da trattarsi anche essi congiuntamente per la loro connessione, sono infondati. Invero, il divieto di formulare in sede di rinvio conclusioni diverse da quelle da quelle prese nel giudizio in cui fu pronunciata la sentenza cassata viene meno nell’ipotesi in cui, a seguito dell’accoglimento di questo, i termini della controversia che il giudice di rinvio è chiamato a decidere si configurino in modo diverso da quello delineato dalle parti nelle precedenti fasi del giudizio e sorga conseguentemente la necessità di illustrare ed eventualmente istruire questioni di diritto o di fatto divenute rilevanti ai fini del decidere (Cass. 16.3.2002 n. 3904; Cass. 15.1.2003 n. 495).
Ne deriva che, nel caso in esame, a fronte di una originaria domanda risarcitoria e regolarizzazione contributiva, previdenziale ed assistenziale, a seguito di una richiesta di declaratoria di licenziamento illegittimo, la Corte di merito, quale giudice di rinvio, correttamente – prendendo atto dell’avvenuto pensionamento del V. con decorrenza 1.1.2009 nelle more intervenuto – ha quantificato il danno e la chiesta regolarizzazione sulla base del nuovo evento, sostituendo, quindi, un dato certo ad una situazione che si prospettava incerta, senza incorrere, pertanto, in alcun vizio di ultrapetizione o di violazione di legge, ma unicamente rimodulando il decisum alla realtà concreta e fattuale; .
che alla stregua di quanto esposto il ricorso deve, pertanto, essere rigettato;
che al rigetto segue la condanna della ricorrente secondo il principio della soccombenza, alla rifusione delle spese del presente giudizio di legittimità, con distrazione;
che, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 1.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 100,00 ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dell’Avv. M.L. che si è dichiarato anticipatalo. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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