CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 novembre 2018, n. 30558
Contratti a termine – Nullità – Mancanza di prova della sussistenza delle causali – Benefici retributivi connessi all’anzianità lavorativa
Considerato che
La Corte di appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, in riforma della pronuncia del Tribunale di Tempio Pausania, dichiarava la nullità dei contratti a termine ex art. 2 d.lgs. n. 368/2001, intercorsi fra U.D.L. e M. s.p.a. dal 1/4/2005 al 30/9/2008; condannava quindi detta società in solido con M.F. s.p.a. (cui medio tempore era stato ceduto il ramo di azienda comprendente tutte le attività connesse al volo), al risarcimento del danno ex art. 32 l. 183/2010 nella misura di sette mensilità della retribuzione, al pagamento delle differenze retributive contrattuali connesse all’anzianità pregressa, maturate in ragione dei vari rapporti a termine e nel corso degli stessi oltre accessori di legge.
La Corte territoriale, a fondamento del decisum, ed in estrema sintesi, argomentava che l’efficacia del termine di decadenza introdotto dall’art. 32 L. 183 del 2010 era stata prorogata al 31.12.2011 ex art. 2 c. 54 L. 225/2010, sicchè solo dalla decorrenza descritta poteva iniziare il computo di detti termini, da ritenersi unitariamente applicabili a tutti i contratti a termine pregressi conclusi prima dell’entrata in vigore della citata disposizione di legge. Escluso, nello specifico, il verificarsi della decadenza, il giudice del gravame accertava la illegittimità dei termini apposti sin dal primo dei contratti conclusi ai sensi della L. n. 368 del 2001, art. 1, per mancanza di prova della sussistenza delle causali recate nei contratti a termine, ritenendo spettante al lavoratore non solo l’indennità sancita dall’art. 32 L. 183/2010, ma anche i “benefici retributivi connessi alla anzianità lavorativa derivante dalla sua pluriennale prestazione” in relazione ai periodi lavorati, perché derivanti direttamente dal complesso normativo di cui all’art. 6 d. lgs. n. 368/2001 e dalla clausola 4 della direttiva comunitaria n. 99/70, che, pone al datore di lavoro il divieto di discriminazione fra lavoratori a tempo determinato e indeterminato.
Per la cassazione di tale decisione ricorre M.F. s.p.a. sulla base di quattro motivi. Resiste con controricorso la parte intimata che ha successivamente depositato memoria illustrativa.
Considerato che
1. Con il primo motivo la società deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 e 434 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n.3, dolendosi del fatto che la Corte territoriale non abbia dichiarato l’inammissibilità dell’appello in quanto redatto senza il rispetto dei requisiti previsti dal nuovo testo dell’art. 434 c.p.c., già in vigore al momento del suo deposito.
2. Il motivo non è ammissibile.
Come già ritenuto da questa Corte in numerosi approdi relativi a ricorsi proposti dalla medesima parte ricorrente (v., ex multis, Cass. 3/5/2016 n. 8657, Cass. 21/9/2015 n. 18592, Cass. 10/2/2015 n. 2494) va rimarcato che non risulta riprodotto nè allegato al ricorso per cassazione l’atto di appello in relazione al quale sono state formulate le censure, essendosi limitata la ricorrente a riportare il contenuto della propria comparsa di costituzione recante l’eccezione di inammissibilità del gravame.
In siffatta ipotesi è stato affermato che, ove il ricorrente denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., (ed analogamente quella dell’art. 434 c.p.c.) conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi formulati dalla controparte – cfr. Cass. 10/1/2012, n. 86, Cass. 20/7/2012, n. 12664, Cass. S.U. 22/5/2012 n. 8077). Si è infatti osservato che l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza che lo governa (vedi Cass. 29/9/2017 n.22880). Nel caso in esame la ricorrente, omettendo di trascrivere l’atto di appello proposto dalla lavoratrice nei suoi contenuti essenziali, ne ha proposto, attraverso la riproduzione della propria comparsa di costituzione nel giudizio di secondo grado, una mera sintesi.
La critica non risulta, dunque, formulata in conformità ai canoni sanciti dai richiamati dicta, onde non si sottrae ad un giudizio di inammissibilità.
3. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione e/o falsa applicazione della L. n.183 del 2010, art.32, comma 1, 1 bis e 4, come modificato dal D.L. n. 225 del 2010, art.2, comma 54, convertito con modificazioni nella L. n.10 del 2011, nonché artt.11 e 12 preleggi in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.. Sostiene la ricorrente che il comma 1 bis della disposizione citata proroghi al 31 dicembre 2011 esclusivamente il termine per l’impugnazione giudiziale dei licenziamenti per i quali, alla data di entrata in vigore della disposizione, non erano ancora decorsi i 270 giorni previsti per la proposizione dell’impugnativa giudiziale; la circostanza che il legislatore abbia inteso riferirsi ai soli licenziamenti si desumerebbe dal testuale richiamo contenuto nella norma senza alcun riferimento al regime delle decadenze introdotto con il c.d. Collegato Lavoro (L.n.183 del 2010.).
Sotto altro profilo, poi, la ricorrente sottolinea che, indipendentemente dalla applicabilità o meno del comma 1 bis alle impugnative stragiudiziali dei contratti a termine, in ogni caso, nella specie, alla data di entrata in vigore della disposizione che ha prorogato i termini, la decadenza era comunque maturata prima dell’entrata in vigore della L. n. 183 del 2010, poiché la proroga introdotta non potrebbe avere efficacia retroattiva e dunque non sarebbe idonea a sanare decadenze già maturate.
4. Il motivo non è fondato.
Secondo i principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte, cui va data continuità, l’art. 32, comma 1 bis, della l. n. 183 del 2010, introdotto dal DL n. 225 del 2010, conv. con mod. dalla l. n. 10 del 2011, nel prevedere “in sede di prima applicazione” il differimento al 31 dicembre 2011 dell’entrata in vigore delle disposizioni relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, si applica a tutti i contratti ai quali tale regime risulta esteso e riguarda tutti gli ambiti di novità di cui al novellato art. 6 della l. n. 604 del 1966, sicché, con riguardo ai contratti a termine non solo in corso ma anche con termine scaduto e per i quali la decadenza sia maturata nell’intervallo di tempo tra il 24 novembre 2010 (data di entrata in vigore del cd. “collegato lavoro”) e il 23 gennaio 2011 (scadenza del termine di sessanta giorni per l’entrata in vigore della novella introduttiva del termine decadenziale), si applica il differimento della decadenza mediante la rimessione in termini, rispondendo alla “ratio legis” di attenuare, in chiave costituzionalmente orientata, le conseguenze legate all’introduzione “ex novo” del suddetto e ristretto termine di decadenza (vedi Cass. S.U. 14/3/2016 n. 4913).
Privilegiando una interpretazione costituzionalmente orientata del D.L. n. 225 del 2010, art.1, comma 54, nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla legge di conversione n.10 del 2011, la proroga al 31 dicembre 2011 dell’entrata in vigore della disciplina delle decadenze deve ritenersi applicabile anche a tutti i contratti ai quali tale regime è esteso, ivi compresa la fattispecie in esame.
Gli approdi ai quali è pervenuta sul punto la Corte di merito, coerenti coi principi summenzionati, in quanto conformi a diritto, si palesano esenti dalle critiche formulate.
5. Con il terzo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 287 c.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n.3 c.p.c.. Si deduce che erroneamente la Corte di merito ha provveduto ad emettere in data 27/5/2014 ordinanza di correzione di errore materiale in presenza di un evidente contrasto fra il dispositivo della sentenza 17/1/2014 (che recava esclusivamente la condanna della società al pagamento delle differenze retributive connesse alla ricostruzione di carriera) e la parte motiva (che recava altresì la condanna al pagamento dell’indennità risarcitoria ex art. 32 L. 183/2010 nella misura di sei mensilità). In realtà si verteva in ipotesi di evidente contrasto fra dispositivo e motivazione della sentenza che non poteva esser sanato con lo strumento approntato dall’art.287 c.p.c..
6. La censura è priva di fondamento.
Vero è che nel rito del lavoro il contrasto insanabile fra dispositivo letto all’udienza, e motivazione, da luogo a nullità della sentenza (a norma dell’art.156 c.p.c., comma 2) che si converte in motivo di gravame (ai sensi dell’art. 161 c.p.c.) non essendo in tal caso applicabile la procedura di correzione degli errori materiali o di calcolo (art. 287 ss. c.p.c.), nè potendosi far ricorso all’integrazione del dispositivo con la motivazione, ma prevalendo – in difetto d’impugnazione – il dispositivo; ciò in quanto questo, mediante la pubblicazione con la lettura in udienza (art. 420 c.p.c.), cristallizza stabilmente il decisum, precludendone qualsiasi ripensamento successivo da parte dello stesso giudice.
Tuttavia, presupposto indefettibile della prospettata nullità della sentenza è l’insanabilità del contrasto tra dispositivo e motivazione, in quanto rechino affermazioni del tutto antitetiche tra loro (come, ad esempio, nel caso in cui la stessa parte risulti totalmente vittoriosa in dispositivo e soccombente in motivazione, o viceversa). La prospettata insanabilità del contrasto non sussiste, invece, quando la motivazione – lungi dal risultare del tutto antitetica – sia, invece, coerente rispetto al dispositivo, limitandosi a ridurne o ad ampliarne il contenuto, senza tuttavia inficiarne il contenuto decisorio, e se ne possa escludere, peraltro, qualsiasi ripensamento sopravvenuto, essendo la motivazione saldamente ancorata ad elementi acquisiti al processo. In tal caso, la divergenza tra dispositivo e motivazione non preclude il raggiungimento dello scopo – di consentire l’individuazione del contenuto del decisum – ed esclude, di conseguenza, la nullità della sentenza, essendo questa configurabile solo quando l’atto risulti inidoneo al raggiungimento del suo scopo, e la motivazione della sentenza evidenzi un sopravvenuto ripensamento in capo al decidente (vedi ex plurimis Cass. 3/7/2008 n. 18202, Cass. 10/5/2011 n. 10305).
7. Nello specifico, non può dirsi realizzato il denunciato contrasto, che risulta pervero, soltanto apparente, potendo essere agevolmente risolto attraverso l’interpretazione del dispositivo ed alla luce del contesto motivazionale (vedi Cass. 6/11/2002 n. 15586).
Non può infatti, tralasciarsi di considerare che già in dispositivo è affermata la “totale riforma della sentenza appellata” e “l’accoglimento della domanda”; né può sottacersi che in motivazione, premessa la fondatezza delle domande attinenti alla declaratoria di nullità del termine apposto al contratto inter partes, sono state, del pari, accolte le consequenziali pretese di natura risarcitoria con riferimento ai dettami dell’art. 32 L. 193/2010, oltre a quelle attinenti alle differenze retributive; tanto, in coerenza con l’integrale accoglimento delle domande attoree, affermato ed argomentato in parte motiva, e ribadito, nei termini su riportati, nella parte dispositiva.
Alla luce del riportato e condiviso orientamento, non è pertanto ravvisabile nella specie, il preteso contrasto insanabile fra le diverse parti – motivazionale e dispositiva – della decisione, per essere bene individuabile il dictum della Corte distrettuale, essendo così esclusa ogni ipotesi di sopravvenuto ripensamento da parte del giudicante.
8. Il quarto motivo prospetta violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, come interpretato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 13 in relazione all’art. 360, comma 1 n.3.
Si deduce che l’indennità disciplinata dalle disposizioni evocate, va integralmente a sostituirsi ad ogni conseguenza economica connessa e derivante dalla dichiarazione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro e che pertanto la stessa assorbe, ricomprendendola, qualsiasi differenza retributiva e contributiva connessa al riconoscimento dell’esistenza del rapporto a tempo indeterminato, ivi compreso ogni incremento legato all’anzianità e/o alla progressione “di carriera, nonché ogni compenso successivo al termine del rapporto ovvero alla messa in mora del datore. Si chiede quindi la riforma della sentenza nella parte in cui ha dichiarato che la somma dei periodi di servizio dall’inizio del primo contratto deve essere computata ai fini dell’anzianità di servizio e dei relativi trattamenti economici.
9. Anche tale censura è infondata.
Secondo i principi affermati da questa Corte, che vanno qui ribaditi (cfr. Cass. 16/6/2014, n. 13630, Cass. 12/1/2015 n.262, Cass. 2/7/2018 n. 17248) in caso di illegittima reiterazione di contratti a tempo determinato con conversione in unico rapporto a tempo indeterminato, l’indennità prevista dall’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, come autenticamente interpretato dalla l. n. 92 del 2012, è esaustiva di tutti i danni, retributivi e contributivi, subiti dal lavoratore nei periodi, ripetuti, di allontanamento dal lavoro per effetto della indebita frammentazione del rapporto, mentre, con riferimento ai periodi lavorati, il lavoratore ha diritto ad essere regolarmente retribuito ed al computo unitario di tali periodi ai fini della anzianità di servizio e della maturazione degli scatti di anzianità.
La statuizione oggetto di censura, conforme ai principi enunciati, è dunque esente da critiche.
10. In definitiva, alla stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso, in quanto infondato, deve essere rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, liquidate come in dispositivo, con distrazione in favore del difensore antistatario.
Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art.1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge da distrarsi in favore del difensore antistatario.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
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